(foto Ansa)

La piccola Chiesa di Russia

Una diocesi grande sette volte l'Italia, comunità piccole e pochi preti. La testimonianza dell'arcivescovo cattolico di Mosca

Matteo Matzuzzi

L'anima russa, la guerra, la Storia. Intervista a mons. Paolo Pezzi, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo e dal 2007 arcivescovo della Gran Madre di Dio a Mosca

Paura, dolore, angoscia, incertezza. Usa quattro parole l’arcivescovo cattolico di Mosca, mons. Paolo Pezzi, per descrivere lo stato d’animo della piccola comunità cattolica in Russia, dopo l’inizio del conflitto in Ucraina. “Una parte significativa dei nostri fedeli è di origine ucraina, con parenti e amici in Ucraina. La mancanza di una telefonata, o il tono magari un po’ emozionale rendono ancora più difficili i rapporti. Il disorientamento invece nasce soprattutto dalla quantità enorme di informazioni che sono di difficile verifica”, dice conversando con il Foglio. All’indomani dell’attacco armato, i vescovi della Federazione russa avevano scritto una lettera che non badava troppo all’equilibrismo diplomatico: “Noi, come tutti voi, siamo profondamente scioccati dal fatto che, nonostante gli enormi sforzi di riconciliazione, il conflitto politico tra Russia e Ucraina si sia trasformato in uno scontro armato”. Uno scontro che “porta morte e distruzione e minaccia la sicurezza del mondo intero. Ciò che unisce i popoli dei nostri paesi non è solo una storia comune, ma anche una grande sofferenza comune che ci è caduta addosso in passato a causa della follia della guerra. I nostri popoli meritano la pace, non solo come assenza di guerra, ma come pace che consiste in una ferma determinazione a rispettare gli altri popoli, gli altri paesi e la loro dignità”. E pur senza fare nomi e cognomi, e lo si può capire, i vescovi sottolineavano che i responsabili di quanto avvenuto “dovranno rendere conto rigorosamente delle azioni militari che hanno intrapreso. Dopotutto, il corso dei secoli futuri dipende in gran parte dalle loro attuali decisioni”.

 

Mons. Pezzi conosce come pochi altri la Russia. Missionario della Fraternità San Carlo Borromeo, dal 1993 al 1998 è a Novosibirsk, in mezzo alla Siberia, a 3.400 chilometri dalla capitale. Richiamato a Roma, nel 2003 andrà a San Pietroburgo e nel 2007 è nominato arcivescovo di Mosca, diocesi enorme per estensione e complessità, grande sette volte l’intera Italia. “A parte tre città, cioè Mosca, San Pietroburgo e Kaliningrad, si tratta di realtà relativamente piccole, dove i fedeli praticanti non superano in genere le 150-200 unità. La grande maggioranza delle parrocchie ne conta tra le 50 e le 80”. E’, insomma, un “caleidoscopio di nazionalità” in cui c’è davvero di tutto, dalla comunità armena a quella coreana, fino alla vietnamita. I mille e più volti del cristianesimo russo, che sovente si fonde nel misticismo nazionalista, come si vede ora nel dramma del conflitto in corso e come tante volte s’è sperimentato nella storia. “Per il mio compito pastorale il cambiamento importante ha riguardato il passaggio da una pastorale giovanile e giornalistica – in Siberia ero impegnato in università, coi giovani, e a pubblicare il giornale diocesano mensile – a un compito educativo con i futuri sacerdoti. Nella Russia europea sono stato insegnante e rettore al seminario interdiocesano a San Pietroburgo, e poi dal 2007 arcivescovo della Madre di Dio a Mosca. La nomina a vescovo ha radicalmente cambiato la mia vita: un cambiamento nel popolo di Dio a me affidato, nel senso che i rapporti si sono notevolmente moltiplicati, ma anche diradati, se prima vedevo un giro di un centinaio di persone, ma per diverse volte al mese, ora vedo migliaia di persone, ma con una frequenza molto più bassa. Questo ha implicato un cambiamento nella mia azione pastorale, la scelta necessaria di priorità, un intensificarsi di rapporti con i miei collaboratori vescovi, sacerdoti, religiosi e laici. Inoltre occorre saper passare con una buona elasticità da incontri con persone povere e bisognose fino a incontri con persone di alta responsabilità religiosa e civile. Devo dire con onestà che all’inizio non mi riusciva proprio, e ora mi costa comunque ancora molte energie”. 

 

Paolo Pezzi ha visto cambiare la Russia e lo racconta in un libro da poco mandato in stampa dalle Edizioni Ares, La piccola Chiesa nella Grande Russia, scritto con il giornalista Riccardo Maccioni (192 pp., 16 euro). Com’è lontana la Siberia dei primi anni Novanta, quelli seguiti al crollo dell’Unione sovietica: tre-quattro preti che si dovevano fare carico di parrocchie che si trovavano lontano, in periferia, “tra cui le più grandi contavano 40-50 fedeli, le più piccole si limitavano a un paio di famiglie. Di lì a poco, la presenza di fedeli in Siberia è molto diminuita, principalmente a causa dell’emigrazione dei cosiddetti tedeschi russi verso la Germania. Parliamo di alcune centinaia di migliaia di persone, forse di più”. E’ cambiato il popolo, insomma: “Direi innanzitutto che è cambiato molto il ‘volto’ soprattutto delle grandi città che sono divenute più accoglienti, ma anche difficili da vivere soprattutto per le condizioni del lavoro”, spiega al Foglio. “Questo sta provocando un nuovo flusso migratorio dalle grandi città alle città ‘satellite’ che vengono a godere di un miglioramento delle infrastrutture. Certo è difficile quale sarà il futuro per il mondo del lavoro, ma le premesse sono quelle di una crisi importante forse come quelle del 1998 e del 2008, a cui dobbiamo prepararci”. Di certo, osserva l’arcivescovo di Mosca, “nelle grandi città poi si nota un maggiore multinazionalità e multiculturalità nel senso che popolazioni di diversa nazionalità e cultura, e non solo dall’interno della Federazione Russa, ma anche da altri paesi, in particolare dall’Asia e dall’Africa hanno tornato ad affollare le città, le università, i grandi centri del lavoro e del commercio. Anche riguardo a questo mi è difficile dire cosa dovremo aspettarci nei prossimi mesi”. 

 

Ma che cos’è la Russia, oggi? Mentre vediamo i missili cadere sulle città ucraine e le manifestazioni con bandiere e inno nazionale sostenere il Cremlino, come possiamo definire questo paese che va dal Baltico a occidente fino a vedere l’Alaska a oriente? Un dilemma che poi è eterno: la Russia è Europa o Asia? Mons. Pezzi chiede di essere scusato “se risulto un po’ semplicistico. Il mio parere – spiega – è che siamo di fronte a una realtà non solo geografica o fisica, ma anche politica, culturale, che deborda sia l’Europa che l’Asia. La Russia nasce in Europa, ma da formazioni slave e nordiche che poco avevano a che fare con l’Europa conosciuta allora. Il mescolamento con i regni mongoli e tatari hanno poi lasciato molti segni orientali asiatici, primo fra tutti l’ingresso a pieno titolo dell’islam. Il periodo imperiale da un lato ha incrementato fortemente i rapporti con l’Europa, portando a una europeicità negli usi, ma sempre con una certa specificazione slava. Basti pensare ai grandi periodi di Pietro I e Caterina II. D’altra parte l’espansione nel Caucaso e in Asia dell’Impero Russo ha portato un ulteriore influsso orientale asiatico nei costumi. Si diffonde il fenomeno religioso dello shamanismo, temi orientali entrano nella musica, nella letteratura. Il periodo sovietico è stato forse più segnato da una europeizzazione che non da un’asiatizzazione. Oggi, forse a causa della congiuntura geopolitica, si va verso un influsso crescente dell’Asia”. 

 

La Chiesa, e il Papa per primo, chiedono di far tacere le armi, di ripristinare per quanto possibile la concordia. Certo, le ferite resteranno e chissà quanto a lungo.  Sembrano parole surreali, lontane da quanto accade sul campo, tra le strade di Bucha con i cadaveri stipati in cantine e lasciati tra i vialetti. Eppure, anche quando la guerra sarà finita o con la presa d’atto di uno status quo o con la vittoria di uno dei protagonisti, bisognerà fare in modo d’andare avanti. Racconta mons. Pezzi un aneddoto risalente ai primi anni di vita russa, a Tal’menka, cittadina al confine tra le regioni di Novosibirsk e dell’Altaj: “Vi andai per sostituire il parroco e, arrivando dopo la messa, le suore che prestavano servizio lì mi dissero che c’era una signora anziana che aveva grandi difficoltà a muoversi, chiedendomi di andare a casa sua per confessarla e portarle l’eucaristia. Lo feci molto volentieri. Durante il tragitto a piedi, la suora che mi accompagnava mi disse che quella signora aveva sofferto molto, e che le avevano ucciso in casa due figli davanti agli occhi. Io giovane sacerdote un po’ saputello, dopo averla confessata e comunicata, non resistetti e le chiesi cosa pensasse di Stalin. Questa vecchietta mi guardò negli occhi e mi disse: ‘Cosa penso? Guardi che io l’ho perdonato tanti anni fa, perché se non si perdona non si vive più. E io come avrei potuto continuare a vivere, dopo aver visto uccidere due figli?’”. Il perdono, cristianissima parola che spiega perché la Russia sia sempre in piedi nonostante la sua storia, i tradimenti fatti e subìti, le persecuzioni e il martirio così mirabilmente raccontati dalla grande letteratura di quella realtà. L’anima russa, insomma, che sopravvive nonostante patimenti e storture. Che cos’è quest’anima? “Per me – dice mons. Pezzi – è sempre difficile fare generalizzazioni. E’ già una bella domanda individuare chi sia il ‘russo’ oggi tenendo conto delle decine e decine di nazionalità, di religioni, di appartenenze politiche e culturali. Vorrei fare un esempio un po’ al limite e anche forse un po’ troppo semplificato (non sono uno storico), che penso possa spiegare quanto sto dicendo. Durante il cosiddetto periodo dei torbidi all’inizio del XVII secolo salì al potere al Cremlino uno zar filopolacco. Recentemente uno storico archivista ha fatto uno studio sui cognomi dei membri del movimento di ‘riconquista’ iniziato a Nizhnij Novgorod da Pozharskij e Minin, il cui monumento campeggia ancor oggi sulla Piazza Rossa. Bene, risulterebbe che questo movimento che ottenne la “liberazione” di Mosca vide al suo inizio a Nizhnij Novgorod tra le sue fila più cattolici-polacchi, che non ortodossi-russi, la qual cosa sarebbe oggi difficile da spiegare. Oppure, tema tornato oggi molto attuale, erano più espressivi dell’animo russo gli slavofili o gli occidentalisti? Personalmente non ho formulato una risposta chiara a queste due situazioni. Penso che elementi riscontrabili nelle diverse anime della cultura russa siano una certa nostalgia per il Mistero di Dio, dell’essere inteso in senso molto esistenziale, così come una religiosità innata nel suo senso profondo e primordiale come un legame indissolubile col Mistero di Dio. Ma devo dire che non mi sento di dare delle definizioni”. Dio è una costante che ritorna sempre, in ogni contesto: basti pensare alle omelie più recenti del Patriarca Kirill, con cui ha di fatto giustificato l’aggressione voluta dal Cremlino nei confronti dell’Ucraina. 

 

Una battaglia contro tutto e tutti finalizzata a preservare la Grande Russia dai poteri ostili che ne vogliono annacquare lo spirito nel grande mare della secolarizzazione, quello dei nuovi diritti che secondo Kirill hanno sfinito la società europea. “Il fenomeno della secolarizzazione in Russia ha delle peculiarità che lo differenziano da quello occidentale”, scrive mons. Pezzi nel libro edito da Ares. “A cominciare dalla tendenza a mettere in risalto l’apparenza rispetto alla sostanza, con il rischio di nascondere i problemi che nascono. Nella società secolarizzata russa l’elemento religioso mantiene una certa forza e attrazione, ma è molto distaccato dalla vita. Non è necessariamente combattuto. Si tende piuttosto a considerarlo inutile, ininfluente, o perlomeno a ridurne il più possibile l’influenza sull’esistenza quotidiana”. Si parlava di Kirill, il Patriarca che sembrava così ben disposto verso l’occidente e che invece fin da subito s’è schierato dalla parte del Cremlino, anche al costo di perdersi il clero ucraino che in massa gli sta voltando le spalle, omettendone il nome durante le divine liturgie. Eppure, solo sei anni fa, all’Avana, Kirill si abbracciava con il Papa, mettendo fine al gelo durato un millennio. Sembrava l’inizia di una nuova èra, fatta di ponti più che di muri. Invece, se è vero che “quell’evento non ha lasciato tutto come prima”, dice l’arcivescovo di Mosca, è altrettanto evidente che “non ha portato neppure a un significativo avvicinamento. Parlerei di due tendenze: innanzitutto un certo autolesionismo interno alla Chiesa ortodossa per cui alcuni vescovi, non molti in verità, e un numero maggiore di sacerdoti si sono lamentati con il Patriarca per aver incontrato il Papa, producendo un certo malcontento, anche se soprattutto di tipo mediatico. Dall’altra parte ci sono state persone, presbiteri e semplici fedeli, che si sono sentite incoraggiate a conoscere le nostre Chiese, portando anche a scambi di visite. Credo che su base locale questo sia stato l’effetto più positivo dell’incontro tra il Papa e Kirill”. Chissà se in vista del prossimo incontro prevarranno più le spinte dei primi o le aperture dei secondi.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.