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Che brutta fine ha fatto la rivista Concilium

Matteo Matzuzzi

Da Rahner e Congar è passata a spiegare come diventare il corp* queer di Cristo

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Roma. Sussultano nei loculi Yves Congar e Karl Rahner, forse pure Edward Schillebeeckx, vedendo l’evoluzione della loro rivista, Concilium, che del Vaticano II fu la bussola e che tanto influenzò i padri riuniti in assise da Giovanni XXIII. Sussultano nel leggere l’ultimo numero del 2019, quello che per titolo ha “Teologie queer: diventare il corpo queer di Cristo”. E’ vero che della rivista degli anni Sessanta è rimasto poco più di nulla, ma insomma, lo status è pur sempre di rilievo e prestigio.

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Roma. Sussultano nei loculi Yves Congar e Karl Rahner, forse pure Edward Schillebeeckx, vedendo l’evoluzione della loro rivista, Concilium, che del Vaticano II fu la bussola e che tanto influenzò i padri riuniti in assise da Giovanni XXIII. Sussultano nel leggere l’ultimo numero del 2019, quello che per titolo ha “Teologie queer: diventare il corpo queer di Cristo”. E’ vero che della rivista degli anni Sessanta è rimasto poco più di nulla, ma insomma, lo status è pur sempre di rilievo e prestigio.

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“Oggigiorno – si legge nell’editoriale di presentazione – le teologie queer sono messe alla prova sia dal riconoscimento dell’intersezionalità di diversi fattori di discriminazione – quali razza, classe o abilità – sia dall’apertura verso un orizzonte globale nel progetto decoloniale”. Trascurando il lessico forbito e la dotta spiegazione dello status quo, si chiarisce che “diventare il corpo queer di Cristo è un sentiero escatologico che le teologie queer hanno esplorato nel mezzo di una violenza sistemica. Ri-membrare con amore i corpi e i territori s-membrati dalla violenza globale è un’espressione dei tempi messianici. I corpi che contano davvero, i corpi sfruttati e invisibili delle persone LGBTIQ+, dei migranti, delle persone scomparse o di quelle diversamente abili, costituiscono oggi le membra vive del corpo queer di Cristo. Le loro molteplici resistenze, le lotte per la dignità, la vita e la speranza rappresentano una dimensione preziosa del processo escatologico di redenzione”.

 

L’indice chiarisce di più di cosa si sta parlando. Intanto il saggio “Queer è Dio”: è il racconto dell’esperienza di Murph, “una persona bianca che s’identifica come non binaria, cresciuta in una comunità cattolica conservatrice negli Stati Uniti e giunta ad accogliere la propria identità queer attraverso il vivere in comunità, il movimento e la danza”. Carmen Margarita Sánchez de León scrive sui “molteplici corpi di Gesù”, domandandosi se “il corpo di Gesù è neutrale o asessuato”. “E’ corpo o corp*?”. Forse, osserva l’autrice, “se Gesù è stato totalmente umano, c’è spazio sufficiente per pensare che la sua incarnazione è un divenire, mai un processo concluso”.

 

Il saggio successivo vola alto: “Ecclesiologia: diventare il corpo di Cristo in Asia. Un corpo queer, postcoloniale, (eco)femminista”. Marilù Rojas Salazar scrive che “è necessaria l’incorporazione politico-religiosa della dimensione erotica nella liturgia per liberarla, poiché questo spazio è stato cooptato dal discorso egemonico dominante di potere o di terrore verso la diversità di razze, sessualità, corpi, culture ed epistemologie ‘strane’ per il mondo che abita una matrice di taglio eteronormativo nell’ambito della teologia cristiana”. Lucas Avendaño racconta invece che “nella tradizione culturale zapoteca del sud-est del Messico, muxe è più di un terzo genere: è un processo decoloniale di affermazione di soggettività diverse, dove s’intersecano genere, etnicità e politica dell’emancipazione di corpi diasporici”. Da sottolineare la nota di traduzione: “Coerentemente con il progetto critico delle teorie queer di minare il binarismo sessuale, si sono operate delle precise scelte di traduzione per non reiterare la struttura sessuata della lingua italiana, che conferisce al maschile il valore di significante universale e neutro. Al posto di soluzioni – pure diffuse nei contesti queer italiani – quali l’uso di simboli ortografici che elidono le classi flessive maschile/femminile (*, @, X, u, ę) oppure la ripetizione dei termini declinati prima al femminile e poi al maschile, si è deciso di privilegiare quanto più possibile l’uso dei sostantivi epiceni (in primis ‘persona’, oppure ‘soggetto’, ‘individuo’ ecc.) per riflettere e concretizzare il progetto epistemologico-politico delle teorie queer di ripensare la soggettività trascendendo le categorizzazioni differenziali e gerarchiche che le strutturano, tra cui appunto e anzitutto quella di maschile/femminile”.

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