Giuseppe Conte a San Giovanni Rotondo per Padre Pio (foto LaPresse)

Il Conte di Villa Nazareth

Matteo Matzuzzi

Altro che rosari, il premier ha coltivato in silenzio i rapporti con le alte gerarchie. E oggi passa all’incasso

Roma. Giuseppe Conte non è Alcide De Gasperi e fin qui siamo sulla strada tracciata da Monsieur De La Palice. E’ vero però che agli occhi di una buona parte della chiesa – di quella che oggi conta – rappresenta una garanzia di serietà. Se non altro è una figura conosciuta, cresciuta alla scuola del già potentissimo cardinale Achille Silvestrini, dominus di Villa Nazareth e capofila dell’ala sinistra della chiesa cattolica d’epoca wojtyliana. Un anno fa, quando il suo nome iniziò a circolare come premier garante del contratto gialloverde, subito s’andò a scandagliare il curriculum dell’avvocato del popolo, scoprendo che nel 1983 partecipò al concorso di ammissione per entrare a far parte del Collegio universitario. 

 

 

Da lì, un’amicizia ininterrotta – Conte fu anche tutor degli studenti – che lo portò a essere nominato membro del Comitato scientifico. Villa Nazareth è stata fucina di élite: giovani di belle speranze, ecclesiastici da crescere, contatti coltivati a lungo prima con la sinistra democristiana poi con i cattolici che scelsero il campo progressista dopo la dissoluzione della Dc. L’attuale segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin, è stato direttore del centro. Insomma, se Salvini ha chiesto per un anno di incontrare il Papa tramite “amici degli amici” non ottenendo risposta, Conte aveva contatti diretti e d’altissimo livello. Più immediati e più sicuri, senza bisogno di sventolare il santino di Padre Pio che tiene in tasca. Una buona rete di protezione che oggi, non a caso, gli consente di essere il preferito delle gerarchie per un governo che metta alla porta il Salvini sventolatore di Rosari e faccia entrare i cattolici sociali che oggi veleggiano col vento in poppa. La soluzione terza, insomma, nella guerra che si combatte nella disorientata realtà cattolica.

 

  

Lo scontro tra chi pensa che il ruolo e il destino della chiesa sia nella visione identitaria delle destre xeno-sovraniste (per citare quanto ha scritto sul Foglio la scorsa settimana Maurizio Crippa) e “l’altra parte di popolo e gerarchie che la pensa all’opposto” è un dato di fatto. Il burrone che si estende ai piedi dei due estremi s’allarga sempre di più e niente sembra indicare che un ponte, anche precario, stia per essere gettato. Anzi, i toni sono quelli che prefigurano un immediato redde rationem. Una battaglia tra chi sta con Salvini e chi perora il suo definitivo annientamento. Lo schema è rischioso: senza punti di riferimento unitari o linee ben tracciate da chi di dovere, domina il caos. La Conferenza episcopale italiana tace, divisa com’è tra anime conflittuali che mettono l’uno contro l’altro chi rimpiange l’attivismo della stagione ruiniana che se non altro indicò una via e chi vorrebbe seppellirla per sempre, reinventando un protagonismo dal basso che però stenta anche solo a intravedersi. Il cardinale Bassetti, presidente cui il Papa ha delegato ogni interlocuzione con la politica – Francesco lo disse ai vescovi, a mo’ di diktat, poche settimane dopo l’elezione: “E’ compito vostro” – si appella al dialogo, si richiama a La Pira, parla di bene comune, di tessuto sociale da ricostruire per non far prevalere la barbarie. Discorsi nobilissimi e giusti, ma che inesorabilmente diventano teoria superata dalla pratica attiva di chi si muove. La Civiltà Cattolica diretta da padre Antonio Spadaro è un “partito” che in questa crisi – da ben prima del precipitare agostano – dice la sua. Interviste, tweet, campagne social aperte, nello stile purissimo e tradizionale della prestigiosa rivista. Ha ragione Spadaro quando rivendica il ruolo del suo periodico, ricordando che “con toni militanti dicevamo ‘Si potrà battagliare intorno alla tecnica di una nuova organizzazione dell’Europa, ma non sulla sua necessità’ (1930)” e “nel 1948 incoraggiavamo ‘ogni sforzo diretto all’unione’. Nel 1957, ancora, “L’Europa unità è necessità politica e sociale”. Qualche dubbio può sorgere semmai quando si paragona l’appoggio all’Europa unita tratteggiata da Schuman, Adenauer e De Gasperi (ma anche Monnet) alla prospettiva di un bicolore giallorosso che metta insieme Delrio e Toninelli. Perché è questo il fine, per altro chiarito in un’intervista del direttore della Civiltà Cattolica apparsa sulla Stampa domenica: “La Costituzione ha delle regole: bisogna esplorare alternative possibili di governo per evitare il voto. Stanno percorrendo la strada giusta” e “se si confrontano i punti programmatici non siamo su universi paralleli”. Pare che la speranza sia destinata a concretizzarsi. Che possa unire un elettorato cattolico mai così diviso, è un altro discorso.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.