Visita di Papa Francesco in Irlanda (foto LaPresse)

Il Papa anti romano

Matteo Matzuzzi

“Francesco non è un riformista. La sua è una pastorale a vista”. Parla il prof. (non bergogliano) De Marco

Roma. Ridurre la vicenda Viganò “a una vendetta dei cosiddetti conservatori contro lo spirito riformista di Papa Francesco non ha alcun senso”, dice al Foglio Pietro De Marco, professore emerito di Sociologia delle religioni all’Università di Firenze. De Marco da tempo ha parecchio da dire sul presente pontificato, è stato tra le altre cose firmatario della “Correzione filiale” che nel 2017 diede una scossa notevole alla chiesa dei tempi correnti. “E’ anzitutto deformante lo schema conservatore vs riformista. In che senso Francesco è un Papa riformista? Tutti i Papi della stagione conciliare e postconciliare sono stati ‘riformisti’. La sensibilità cattolica iper conservatrice analizza e depreca spesso questa disposizione ‘riformatrice’ di Roma, nella sua obbedienza alla lettera e allo spirito (di più labile definizione) del Concilio Vaticano II. Che la reformatio dovesse essere guidata e disciplinata perché non divenisse deformatio e destructio, è un’evidenza che solo l’utopismo delle rigenerazioni della chiesa ‘a partire dal Vangelo’ può negare. Ma – ci tiene a sottolineare De Marco – la posizione ‘riformatrice’ (mi permetterò di stabilizzare il termine riformista in riformatore) di Francesco è altra da quella dei predecessori; discende da alcuni filoni particolari di quell’utopismo. Bergoglio porta a Roma quell’anti istituzionalismo, propriamente quell’antirömischer Affekt, lo spirito anti romano e lo stile secolaristico che sono stati predicati per decenni dall’intellighenzia teologica. Il secolarismo in particolare, negando la differenza cattolica, gioca a favore della ‘misericordia’ verso il mondo. In realtà, fino dagli anni dell’immediato pre Concilio, la ‘misericordia’ (o l’apertura) verso il mondo fu anzitutto – copertamente – la richiesta di ‘libertà’ politiche e ideologiche per clero intellettuale e laicato; dalla possibilità di schierarsi a sinistra a quella di pensare la storia secondo le ideologie marxiste e, teoreticamente, alla libertà di adottare filosofie e teologie su cui gravavano nell’insegnamento cattolico, non necessariamente magisteriale, la cautela critica o il rifiuto. Ma la pressione più forte da parte di laici e dell’intellighenzia ecclesiastica era quella per la libertà di movimento nella sfera pubblico-politica”.

  

Intellighenzia teologica

Insomma, “la formula era sovraccarica di intenzionalità e di equivoci. Le libertà furono comunque strappate, e uomini, intelligenze, chiese, sono andati nei decenni molto oltre”. Il problema, dice il sociologo, è che “nel cristiano questa immobilizzazione del giudizio precede di regola la fase della dipendenza mimetica dai paradigmi secolari, una sorta di incantamento, e della crescente eccentricità anzi estraneità del credente ai fondamenti. Estraneità che nel popolo cattolico appare ipnotica, ignara e spesso involontaria, ma viene garantita come condizione ‘adulta’. Così nell’eloquio cattolico modernistico-secolarista e, oggi, papale, sulla crisi della pedofilia non vi è argomento di spicco che non sia secolare: vittime e risarcimenti, giustizia affidata ai tribunali civili, e poca preoccupazione per le anime, talora neppure per la verità dei fatti. Dunque, la prassi che nel Papa si sostanzia di continue parole e atti non è ‘riformismo’, tanto meno reformatio. Appare piuttosto come una tempesta di ‘spontaneismo’ magisteriale, una pastorale a vista, per adattamento agli stimoli dell’opinione pubblica ritenuta un canone”. 

     

“Simmetricamente – aggiunge il professor Pietro De Marco – non sono dei ‘conservatori’ in senso ordinario quelli che vi si oppongono, ma semplicemente dei cattolici”. La premessa è chiara. Ma davvero si può credere che il responsabile di questa situazione, che di certo non affonda le radici nell’ultimo quinquennio, sia Jorge Mario Bergoglio? “Certamente Francesco è il primo responsabile di quella drammatica deformazione in capite della chiesa. E in questa deformazione si innesta oggi, toccando le gerarchie, la crisi “pedofilia”. L’intelligenza creatrice di Max Weber – osserva il nostro interlocutore – aveva coniato la categoria del carisma d’ufficio, il dono speciale che investe il titolare dell’ufficio stesso. Se si disprezza l’ufficio, per sé datore di carisma (s’intende nell’ordine della santità di un corpo religioso) e lo si usa per obiettivi estrinseci, il carisma non protegge né illumina, si dissolve; resta finché possibile, e se c’è, l’aura personale. L’affievolimento, anzi l’instabilità interna tra rifiuto e uso, del carisma d’ufficio in Papa Bergoglio non può non preoccupare i civil servant ecclesiastici. Essi si trovano di fronte a un problematico ‘magistero ordinario’ troppo personale per essere magisteriale ma anche troppo magisteriale per essere solo personale. Si aggiunga la contaminazione secolaristica, la mimesi dell’altro (non c’è altra chiave per le strampalate ‘interviste’ concesse a Scalfari), di cui parlavo. Una recente argomentazione di Alberto Melloni – all’incirca, ‘la crisi pedofilia non è questione di morale ma di sistema’ – si pone entro la stessa prospettiva. Infatti, la crisi della pedofilia è al contrario una questione di morale e teologia morale, perché le tendenze personali e non necessariamente solo quelle omoerotiche hanno sempre trovato nella morale cattolica, che il sacerdote conosce ed è tenuto a vivere, la loro disciplina, e nella spiritualità sacerdotale la loro decantazione è offerta a Dio. Nel post Concilio è stata liquidata, con l’assenso di molti vescovi, la meravigliosa formazione del sacerdote alla vita soprannaturale che dalle fonti spirituali seicentesche (francesi, anzitutto) si era diffusa nei cleri di ogni nazione, generando sia figure eminenti sia tanti ‘modesti’ sacerdoti santi. Negli anni a cavallo dell’ultima guerra si curava ancora un ritorno alle sue fonti. Se le responsabilità di questo processo furono multiple, unica è la responsabilità della posteriore distruzione della spiritualità sacerdotale: la dimenticanza dottrinale e formativa, da oltre mezzo secolo, del primato della vita soprannaturale nel corpo della chiesa”.

    

Tornando all’attualità, sarà anche vero che mons. Viganò è animato dalla volontà di ripristinare la “verità”, ma non crede che domandare le dimissioni al Papa rappresenti un punto di non ritorno? “La testimonianza di mons. Viganò appare veritiera”, dice De Marco: “Sottolineo una evidenza preziosa: va nettamente distinto il crimen sollicitationis di cui parliamo, in cui può cadere un semplice parroco, un fragile educatore di giovani, dalla omosessualità programmatica e ideologica (non necessariamente – anzi di regola non – praticata con minori) di cui il caso McCarrick è esemplare. L’ex cardinale non è attore e vittima a un tempo di insopprimibili, non dominabili, pulsioni omoerotiche, come non è anzitutto un membro della rete omosessuale nell’alta gerarchia; è portatore cattolico di una modernissima ideologia della legittimità della relazione omosessuale in genere, e di una sua libera pratica nel clero cattolico. E’ sostenuto in questo da noti intellettuali-teologi gesuiti (menzionati con la dovuta durezza da Viganò) che teorizzano la legittimazione delle organizzazioni per i diritti di gay e lesbiche nella chiesa, non tanto un’apertura fraterna e misericordiosa. Questa recente ondata è un diretto, logico, prodotto delle degenerazioni intellettuali e morali della cultura post conciliare. Trova le sue pezze d’appoggio in insegnamenti teologici e antropologici impartiti nelle facoltà cattoliche, e letteratura di supporto ovunque. Il clero, docente e discente, che non partecipa di queste dottrine, anche se maggioranza appare comunque senza forza, ovvero senza risorse intellettuali né motivazioni spirituali per opporvisi. Non sostiene McCarrick che non è il comportamento omosessuale il problema, ma il clericalismo? Intendo voglia dire che, senza ‘clericalismo’, cioè senza la spiritualità sacerdotale che chiede anche la castità, senza gli obblighi propri di uno stato di ‘separatezza’, i rapporti omoerotici assieme agli etero diverrebbero la normalità. Dunque McCarrick (salvo i suoi eventuali rapporti con minori) è un antesignano, un riformista. Non a caso per il Papa, come testimonia Viganò, i McCarrick sono dei prelati ‘di sinistra’, opposti ai cultural warriors wojtyliani, ‘di destra’. Darei conto – prosegue il sociologo – in questi termini del tergiversare di Bergoglio nei confronti del caso McCarrick. Certo, con abilità il cardinale si era fatto attivo promotore della elezione del collega argentino, contraendo così una potente assicurazione sulla vita; certo, la sua capacità, molto americana, di procacciatore di fondi per la Santa Sede lo rendeva quasi inattaccabile. Ma Papa Francesco ha una sua libertà su questi fronti; ove appare indifeso è sul terreno degli argomenti, quelli che sappiano di moderno ed emancipatorio, di superamento di tradizioni e remore, di ‘coraggio’ innovatore, quali essi siano. Di fronte a uomini come McCarrick, e nonostante tutta la volontà di pulizia nella chiesa, Bergoglio diviene insicuro; è stato indotto a tollerarlo perché dietro di lui vedeva, probabilmente, la folla degli omosessuali da accogliere e emancipare nella chiesa. Un caso di deriva postconciliare da manuale, dunque, con sullo sfondo una perversa circolarità tra costumi, che non si sanno più giudicare, e falsissima dottrina”.

      

C’è un però, e neppure di poco conto nella riflessione di De Marco: “Su una cosa dissento con mons. Viganò, la richiesta di dimissioni. Qualche commentatore di calibro sostiene che le dimissioni di Benedetto XVI abbiano irreversibilmente ricondotto il papato al ruolo antico e umile di vescovo di Roma. Per chi contrasta queste pie visioni che nascondono una sconsiderata vis anti istituzionale, l’inedita prassi di Papi in successione dimissionari costituisce un vulnus alla chiesa cattolica, da evitare assolutamente. Il carisma d’ufficio, se accolto, può proteggere il Papa e il suo governo fino all’ultimo. Il Papa regnante non deve dimettersi, deve mutare mente, circondarsi di serietà cattolica, guardarsi attorno con occhi finalmente responsabili”. Professore, ma non è che siamo davanti al primo passo verso una resa dei conti con l’eredità conciliare attesa da anni, forse decenni, e in qualche modo “sedata” dal lungo pontificato di Giovanni Paolo II? “Cosa si intende per ‘eredità conciliare’ nella chiesa? Il suo obiettivo essere dopo un altro Concilio moderno e alimentarsene, o la pratica opposta di un’ideologia di rottura con passato? Solo con quest’ultima, che è certamente una delle eredità, si chiede una resa dei conti alla luce dei suoi contenuti e dei suoi risultati. Inoltre: Giovanni Paolo non ha sedato alcun pericolo ‘da destra’, si è opposto, su un duplice fronte universalistico, dottrinale e pastorale, ai pretesi processi irreversibili del post Concilio”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.