Papa Francesco al suo arrivo in Birmania (foto LaPresse)

Il processo a Papa Francesco

Matteo Matzuzzi

Il cattolicesimo sta andando incontro alla più grande trasformazione da molti secoli in qua: entro trent’anni i suoi bastioni saranno in Sudamerica, Africa e Asia. Indagine su come il Papa sta rivoluzionando, non senza divisioni, la più grande religione al mondo

Philip Jenkins, tra i massimi esperti di religioni al mondo, l’ha ripetuto di nuovo solo qualche settimana fa: la chiesa cattolica sta andando incontro alla più grande trasformazione da molti secoli in qua. Non un maquillage o una riverniciata alle strutture, ma un cambiamento storico. Jenkins – la cui ultima pubblicazione tradotta in italiano è La storia perduta del cristianesimo (Emi, 2016) – non si mette a discettare in punta di diritto canonico o in note a pié di pagina di qualche esortazione apostolica, bensì guarda le tendenze, la crescita della popolazione mondiale, il crepuscolo del cattolicesimo europeo e la vitalità di quello brasiliano, africano, asiatico. Entro il 2050, ha scritto, “i grandi bastioni della chiesa saranno in America latina (più o meno il 40 per cento) e in Asia (il 12). Senza dimenticare l’Africa, il continente dove il cattolicesimo – giovane e per questo esposto a tutti i rischi del caso – conquista ogni giorno che passa popoli interi a sud del Sahara. Al principio del Novecento, i tre paesi più cattolici erano Francia, Italia e Germania. Tra trent’anni saranno Brasile, Messico e Filippine. Il Congo avrà in proiezione lo stesso numero di cattolici che hanno oggi gli Stati Uniti. Non proprio dettagli. Sarebbe superficiale però bollare tale quadro alla

"Immaginate il 2050, quando ci saranno 50 cardinali latinoamericani, 30 africani e 15 asiatici", ha scritto Philip Jenkins

stregua d’una mera valutazione statistica, di una mappa aggiornata della presenza cristiana nel mondo. Sarebbe superficiale e sbagliato perché le conseguenze già s’intravvedono e, sottolinea sempre Jenkins, coinvolgono direttamente la leadership della chiesa cattolica. A tutti i livelli. La geografia non è la bussola che guida lo Spirito né tantomeno i suoi vicari in terra, però da decenni ormai la geopolitica è tenuta in considerazione, con porpore distribuite anche secondo criteri continentali miranti a rendere più chiara e visibile l’universalità della chiesa. E allora, in pochi anni, potremmo avere un cambio sostanziale nella composizione del Collegio cardinalizio, con sempre più latinoamericani e africani e asiatici. Un collegio davvero katholikós che però porrà anche dei problemi, come peraltro s’è visto nel biennio sinodale, con gli africani – benché sia fuori luogo e banalizzante ricomprendere in tale sintetica definizione il variegato mondo delle chiese di quell’immenso continente – determinati a respingere ogni apertura in fatto di morale, schierandosi di fatto all’opposto degli esponenti delle vetuste chiese europee, che chiedevano di fare in fretta per dare una risposta chiara alle attese dei loro sempre più scarsi fedeli. “Ma di quali attese stiamo parlando?”, si domandava perplesso il cardinale Carlo Caffarra in un’intervista concessa a questo giornale più di tre anni fa: “Di quelle dell’occidente? E’ dunque l’occidente il paradigma fondamentale in base al quale la chiesa deve annunciare? Siamo ancora a questo punto? Andiamo ad ascoltare un po’ anche i poveri. Sono molto perplesso e pensoso quando si dice che o si va in una certa direzione altrimenti sarebbe stato meglio non fare il Sinodo. Quale direzione? La direzione che, si dice, hanno indicato le comunità mitteleuropee? E perché non la direzione indicata dalle comunità africane?”. Ecco il punto, siamo lì.

  

“Immaginatevi cosa accadrà quando nel 2050, su 120 cardinali elettori, cinquanta saranno latinoamericani, trenta africani e quindici asiatici”, aggiungeva Jenkins. Una situazione potenzialmente conflittuale con la vecchia chiesa europea e con il capovolgimento delle posizioni oggi consolidate. E’ davanti a questa sfida, al mutamento storico che sta avvenendo che si staglia il pontificato di Francesco. Alla base della sua missione c’è la constatazione che un’epoca s’è conclusa, che la stagione delle grandi battaglie pubbliche per l’affermazione di valori e princìpi è finita, che l’arroccamento in fortini sempre più diroccati non porta più a nulla. Lo disse bene ai vescovi americani, nel 2015, nella cattedrale di Washington, quando li esortò a uscire dalle ridotte, evitando di brandire la croce come un vessillo – e questi, solo pochi giorni fa, hanno risposto bocciando la candidatura alla guida del comitato pro-life del migliore interprete locale della linea di Bergoglio, il cardinale Blase Cupich, arcivescovo di Chicago. “I vescovi hanno alzato il dito medio a Francesco”, ha scritto perentorio sul National Catholic Reporter Michael Sean Winters .

 

"I vescovi americani hanno alzato
il dito medio contro Francesco",
ha scritto Michael Sean Winters
sul National Catholic Reporter

Al di là di questo, c’è la presa d’atto che è necessario ripartire dalla base, quasi da capo, magari dai dodici che sparsero il germe della chiesa di Cristo. E’ qui la rivoluzione di Francesco, quella vera e non la riforma delle strutture, le costituzioni apostoliche da approvare per l’accorpamento di qualche dicastero vaticano. “Una riforma che il Papa vuole irreversibile”, dice al Foglio Guillaume Goubert, direttore del giornale francese La Croix, che per corroborare il concetto invita a guardare i nomi dei cardinali creati da Jorge Mario Bergoglio. E come sovente accade, le rivoluzioni irreversibili hanno anche tanti oppositori. Non tutti uguali, però. C’è chi lo fa alla luce del sole, confutando in coscienza e fede i cardini di tale processo e chi, invece, scava i tunnel sotto le mura, all’ombra e in segreto, come fecero le truppe di Saladino con il Guado di Giacobbe, nel 1179. “La grande riforma di Francesco è il risultato del processo della chiesa latinoamericana iniziato ad Aparecida nel 2007, che è ispirato a una conversione pastorale”, spiega Austen Ivereigh, autore di The great reformer. Francis and the Making of a Radical Pope, con ogni probabilità la migliore biografia di Jorge Mario Bergoglio pubblicata finora. “Conversione pastorale significa andare più vicino alle persone nelle loro realtà concrete, aiutandole a trovare la grazia e un approccio essenzialmente missionario in cui la proclamazione sia kerygmatica e indichi la misericordia di Dio”.

 

“Il nemico della conversione spirituale – prosegue Ivereigh – è la mondanità spirituale, che poi è una chiesa autoreferenziale in cui la dottrina diventa una sorta di ideologia più che un meccanismo di conversione e di grazia, e un legalismo in cui la legge si trova in una specie di bolla staccata dalle realtà concrete. La conversione pastorale è essenzialmente la missione di questo pontificato”. Per capirlo, il saggista inglese suggerisce di tornare alle congregazioni generali del pre-Conclave. “Bisognerebbe ricordare che il cardinale Bergoglio, allora, usò l’immagine della donna chinata narrata nel Vangelo di Luca per descrivere la chiesa autoreferenziale. Ricordò che Gesù aveva guarito la donna di fronte alle autorità religiose, i guardiani della tradizione e della legge, che erano furiosi. Perché erano furiosi? Rispondere a questa domanda aiuta a comprendere gran parte della furia irrazionale contro Francesco di coloro che in passato si consideravano custodi della dottrina e della legge”.

 

Però la divisione c’è, ormai palese e acclarata. Schieramenti disposti l’uno contro l’altro, a contendersi la patente di cattolicità. Con il Papa in mezzo, strattonato e interpretato, con la lettura spesso interessata dei suoi interventi, calati in un contesto che il più delle volte c’entra poco o nulla con l’intento originario. “Un clima di terrore”, si è spinto a dire il Catholic Herald lo scorso ottobre, descrivendo la guerra mossa ai teologi “non dai secolaristi, ma dagli stessi credenti”. Si citava il caso del professor Josef Seifert, l’autorevole filosofo cattolico austriaco licenziato dall’arcivescovo di Granada dalla sede locale dell’Accademia internazionale di filosofia per essersi espresso contro Amoris laetitia, quindi il benservito – peraltro annunciato da tempo – dato al cardinale Gerhard Ludwig Müller, infine la reprimenda pubblica al cardinale Robert Sarah, il prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti reo d’aver frainteso completamente il motu proprio papale Magnum principium sulla traduzione dei testi liturgici, competenza che per volontà di Francesco è stata delegata pienamente alle conferenze episcopali nazionali. Epurazioni, si sostiene da una parte. Pulizia, dall’altra.

 

"Questa situazione è destinata
a peggiorare. Le vecchie linee
di battaglia degli anni Settanta vengono ridisegnate e le etichette 'laico' e 'politico', 'conservatore'
e 'progressista' sono di nuovo rilevanti", dice R. R. Reno, direttore dell'americano First Things, la bibbia della culture war

C’è quasi la sensazione che il pontificato di Bergoglio abbia aperto il vaso di Pandora contenente tutte le tensioni accumulatesi nel post-Concilio e tenute a bada nella lunga stagione giovanpaolina, giunta al termine con la rinuncia di Benedetto XVI. Un redde rationem scontato e inevitabile, quindi. Magari non univoco e uguale a ogni latitudine – “in Francia lo scontro non ha questa portata perché abbiamo vissuto la lunga crisi con i lefebvriani e le tensioni postconciliari le conosciamo da oltre quarant’anni”, dice Guillaume Goubert, “ma questo è invece certamente vero per l’Italia e ricorda in qualche modo le tensioni tra Siri e Benelli degli anni Settanta” – ma presente e sentito.

 

“Siamo in uno stato di ansia intensa”, osserva R.R. Reno, direttore di First Things, la rivista cattolica americana baluardo della culture war: “Possiamo guardare indietro e constatare che i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono stati un unico, lungo pontificato. I due uomini erano naturalmente diversi, ma perseguivano un’analoga ermeneutica della continuità finalizzata a far progredire i risultati del Vaticano II resistendo al radicalismo scatenato dal Concilio. In più, erano uomini di notevole talento e capacità. Giovanni Paolo II ha vissuto gli eventi determinanti della cultura occidentale del Ventesimo secolo, Benedetto XVI è stato uno dei giganti intellettuali della sua generazione. Ciò, per così dire, ha dato al vertice della chiesa peso e serietà. Questo però – prosegue Reno – ha determinato forse un falso senso di stabilità, mascherando la nostra debolezza, benché negli Stati Uniti lo scandalo degli abusi sessuali nel clero avesse già esposto il marcio che c’è nella chiesa e quindi avevamo compreso che non tutto andava per il meglio. A questo punto, Francesco è in sella da quasi cinque anni. Noi ora sappiamo che lui vuole annullare certi aspetti del pontificato giovanpaolino e ratzingeriano, o almeno andare in nuove direzioni. Ma gli mancano la ponderatezza di Wojtyla e il peso intellettuale di Benedetto XVI. Bergoglio si è circondato di consiglieri che potrebbero avere talento politico o retorico, ma che non sono uomini di peso e serietà”. Che fare dunque? “Siamo in attesa, non avendo adeguate informazioni su dove questo Papa stia andando o se abbia la capacità di andare verso qualcosa di sostanziale oltre i gesti e le battute”. Ecco la difficoltà, così diffusa e palese, a comprendere la svolta di Francesco.

 

Ma davvero il confronto anche intellettuale con i predecessori depone a sfavore del vescovo preso alla fine del mondo? “Le ragioni di questa difficoltà a comprendere Francesco sono diverse”, spiega Massimo Borghesi, filosofo e autore del recentissimo Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale (JacaBook): “Una è data dal retroterra culturale e intellettuale di Bergoglio che – come dimostro anche nel mio libro – non è stato finora indagato. Quando fu eletto Papa Giovanni Paolo II, ci furono studiosi che cercarono di rendere comprensibile la formazione e gli studi di Karol Wojtyla, le sue radici culturali e religiose. Anche allora l’impatto del Papa ‘polacco’ con l’Europa dell’ovest non fu ovvia né scontata. Così ora, nei confronti dell’‘argentino’ Francesco, molti ripetono la litania di un Papa che non avrebbe la formazione adeguata, lo sguardo adatto sulla complessità del mondo contemporaneo. Il Papa – spiega Borghesi – in realtà ha una formazione complessa e ricca che deve molto ai gesuiti europei, francesi in particolare. La semplicità del Papa non va equivocata. Ha scelto la semplicità come metodo. Non siamo di fronte a una persona che non possiede le categorie per affrontare il mondo contemporaneo”.

 

Non basta questo, però, a spiegare la mole di petizioni e suppliche devote e filiali che s’accatastano, giorno dopo giorno, sulla scrivania di Santa Marta, la residenza del Pontefice: “Il secondo motivo che osta alla comprensione di Francesco è che il Papa ha dato una scossa a una chiesa che si era adagiata. Bisogna guardare i processi di lungo periodo”, dice Borghesi, che spiega: “Dopo il 1989, con la scomparsa del comunismo, la chiesa si è adagiata. E’ comparso il mondo nuovo che non corrisponde minimamente alla rinascita della fede in occidente, profetizzata da taluni in seguito alla caduta del Muro di Berlino.

La cacciata del professor Josef Seifert, la rimozione del cardinale Gerhard Ludwig Müller,
la sconfessione pubblica
del cardinale Robert Sarah.
Un "clima di terrore" secondo
il Catholic Herald. "Ma non
c'è nessuna cesura con Wojtyla", dice il biografo di Bergoglio,
Austen Ivereigh

All’indomani della fine del comunismo, è venuto un mondo fortemente materialista, edonista, immemore della dimensione religiosa. A fronte di ciò la chiesa, invece di rilanciare una prospettiva missionaria, si è chiusa in se stessa. Ha denunciato il venire meno dei valori cristiani dentro la società secolarizzata. E’ qualcosa di giusto e anche di necessario, però la chiesa non può chiudersi dentro il recinto di tre o quattro valori non negoziabili. L’orizzonte della chiesa non può non essere missionario. Davanti all’ateismo libertino – e cito Augusto Del Noce – Methol Ferré, il più grande intellettuale cattolico latinoamericano della seconda metà del Novecento, diceva che bisogna ritrovare il fattore che ci permette di riscoprire l’amico nel nemico. Bisogna riscattare nell’ateismo libertino il desiderio frustrato della felicità, ed è qui che si inserisce Bergoglio”. Borghesi, a questo punto, ricorre a un parallelismo storico utile a comprendere il discorso: “Von Balthasar, in Abbattere i bastioni (1952), diceva più o meno le stesse cose. Anche allora la chiesa di Pio XII si era chiusa, intimorita dall’avanzare del comunismo. Oggi siamo tornati nel recinto e questo rischia di clericalizzare la chiesa, con i cristiani terrorizzati da un mondo tornato pagano. Di fronte a esso pare che l’unica opzione possibile sia quella di denunciare i crimini di Nerone. In questo recinto – il ‘maso chiuso’ di cui parlava Galli Della Loggia – molti hanno però capitalizzato rendite di potere e, ovviamente, ci si trovano bene. Da qui la reazione verso il Papa ‘straniero’. Chi lo critica da un lato non possiede le categorie per comprenderlo, dall’altro è urtato dalla sua libertà di movimento. Il Papa risulta essere destabilizzante per chi ama un mondo trincerato”.

 

Viene allora da domandarsi da dove tragga origine questa realtà trincerata, questa idea di chiesa poco ospedale da campo e tanto fortezza circondata da una sorta di cortina di ferro protettiva. Forse dal quarto di secolo giovanpaolino segnato dalla lotta contro il comunismo e l’alleanza con l’America reaganiana? “No”, dice Ivereigh, che non vede alcuna cesura tra Bergoglio e il pontificato wojtyliano. “Penso che Francesco stia prendendo i valori non negoziabili di Giovanni Paolo II e li stia estendendo. Quando recentemente ha dichiarato che la pena di morte è contro il Vangelo, si è confermato coerente con la dottrina pro-life di Wojtyla”. 

 

“L’ecologia integrale dell’enciclica Laudato si’ – prosegue Ivereigh – riprende l’ecologia umana di Benedetto ma afferma con la stessa logica che i cristiani devono prendersi cura del pianeta. Sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI hanno riconosciuto che c’erano situazioni di divorzio e nuove nozze che non erano adulterine e richiedevano una speciale attenzione pastorale (da qui il Sinodo e Amoris laetitia). Francesco è sulla scia dei suoi predecessori e può portare avanti la sua rivoluzione pastorale perché Wojtyla e Ratzinger hanno risolto le questioni dottrinali alla luce del Concilio Vaticano II. Io – spiega il biografo di Bergoglio – vedo solo continuità, e quanti sostengono che siamo davanti a una rottura sono colpevoli dello stesso errore ermeneutico fatto dai progressisti negli anni Settanta e Ottanta”.

 

"Francesco fa appello
a una conversione
dei comportamenti. Che senso
ha riformare le istituzioni
se i costumi rimangono gli stessi?", dice il direttore de La Croix, Guillaume Goubert. "Il Papa
è guidato dal principio secondo
cui la realtà è più importante dell'idea", e questo concetto
spesso sfugge

Insomma, Austen Ivereigh non vede alcuna situazione caotica, se non quella alimentata da chi fatica a sintonizzarsi sulle frequenze di Francesco, non comprendendo che il suo pontificato non è altro che la quasi naturale conseguenza dei due precedenti. R.R. Reno però vede molta nebbia scendere sul Cupolone, una chiesa liquida che non si sa bene dove vada. “L’ambiguità è il nemico della concordia”, dice. “Francesco governa con i gesti. Sembra voler allentare certi standard morali, ma rifiuta di ridefinirli, scegliendo invece di riformulare questioni controverse in termini di discrezionalità pastorale. Si rifiuta di rispondere alle richieste di chiarimento. Questa ambiguità – prosegue il direttore di First Things – crea un’atmosfera di aspro conflitto, mentre coloro che hanno visioni molto diverse continuano a battersi per il futuro della chiesa. Questa situazione, con ogni probabilità, è destinata a peggiorare. A un livello che mi pare scioccante, le vecchie linee di battaglia degli anni Settanta vengono ridisegnate e le etichette ‘laico’ e ‘politico’, ‘conservatore’ e ‘progressista’, sono di nuovo rilevanti. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI furono in grado di minimizzare questo scontro perché erano entrambi ‘progressisti’ al Concilio, e tuttavia respinsero il radicalismo che ne seguì. Wojtyla e Ratzinger hanno formulato potenti sintesi personali di diverse tendenze presenti nel cattolicesimo del Ventesimo secolo e hanno avuto la capacità intellettuale di articolare le loro sintesi in modo convincente. Papa Francesco non ha avuto alcun ruolo nel Vaticano II e non sembra avere un’idea articolata di come gli impulsi contrastanti della riforma e della continuità si uniscano nel cattolicesimo post conciliare. E’ – aggiunge Reno – un poeta della sensibilità, non un filosofo o un teologo, e come molti gesuiti si fa strada intuitivamente. Di conseguenza, è improbabile che Francesco esprima una visione sintetica del dopo-Vaticano II. Questo crea un vuoto e ripropone alcune delle vecchie battaglie degli anni Settanta tra conservatori e progressisti, anche se ovviamente in forme diverse”.

 

Ivereigh vede le cose in maniera diversa, ne fa un problema di lenti sfocate usate per guardare lo stato delle cose: “Francesco non è un liberal che cerca di diluire o adattare la dottrina alla modernità, e coloro che lo attaccano sostenendo che l’ha fatto soffrono di cecità”. Ma c’è un però, e neppure troppo piccolo: “E’ vero che esiste una ricontestualizzazione della dottrina, nel senso che viene messa in tensione con le realtà pastorali. Quella tensione è implicita nel Vangelo ed è lì che deve essere la chiesa”. Insomma, “il cristianesimo non è un sistema etico, ma un mezzo per l’azione salvifica di Dio. In questo senso, Francesco sta recuperando la dinamica pastorale del Concilio Vaticano II, che si è persa nel (necessario) processo di stabilizzazione post conciliare, in cui l’attenzione era rivolta all’ortodossia e all’obbedienza. E’ come se Francesco stesse dicendo ‘bene, abbiamo risolto le questioni dottrinali, ora salviamo e guariamo’. Alcuni – aggiunge il biografo del Papa – temono che in questo spostamento di priorità ci sarà un ritorno al caos postconciliare, e con la loro paura e rabbia danno l’impressione di divisione e confusione. Ma penso che la maggior parte dei vescovi e dei cattolici siano con Francesco, comprendono la necessità di trovare un nuovo orientamento e stanno bene con lui”. Capiscono soprattutto che il Pontefice ha a cuore una riforma non delle strutture, ma “dello spirito”, sottolinea Guillaume Goubert. “Il Papa fa appello a una conversione dei comportamenti, pensiamo al discorso sulle malattie della curia. Che senso ha riformare le istituzioni se i costumi rimangono gli stessi?”. Quel che sfugge, e che secondo il direttore de La Croix è all’origine della divisione nella chiesa, è che il “Papa è guidato dal principio secondo cui la realtà è più importante dell’idea. La curia, tradizionalmente, ha la missione di applicare regole severe. E per una parte della gerarchia è inquietante (o addirittura getta nel panico) non adottare automaticamente lo stesso atteggiamento nei confronti di tutti i divorziati risposati, per fare l’esempio più di stretta attualità”.

 

Eccola, la rivoluzione vera, la più profonda e più complicata che Francesco tenta di attuare. Non sa neppure lui se andrà a buon fine: l’importante è avviare processi, portare la barca al largo, generare dinamismi e risvegliare quella chiesa che – per dirla con Borghesi – si era da troppo tempo adagiata. Si tratta forse di strutturare o quantomeno delineare addirittura un nuovo “modello” di chiesa, che riparta dalle origini e che si tolga tutte le incrostazioni legaliste che secondo tanti ne hanno determinato una sostanziale immobilità? “Non so se Papa Francesco stia ‘progettando’ qualcosa”, risponde Reno: “Il suo stile sembra improvvisato, non sistematico. Ciononostante, la chiesa cambierà certamente sotto la sua guida, anche nel caso ciò non corrisponda a un progetto predeterminato. Il suo rifiuto di fornire chiarezza dottrinale con ogni probabilità diminuirà l’autorità dell’Ufficio, e ciò porterà la chiesa verso le espressioni più ortodosse. E questa potrebbe essere un’eredità positiva. Francesco, però, sembra voglia coinvolgere la chiesa in modo più esplicito su questioni politiche globali, come il cambiamento climatico e le migrazioni. E questa potrebbe essere un’eredità negativa. La chiesa – dice Reno – è già troppo una ong con l’incenso”. Tutto da buttare dunque? “Voglio essere chiaro, qualche simpatia per il pontificato di Francesco ce l’ho”, risponde il direttore di First Things, che spiega: “Giovanni Paolo II ha affrontato una sfida chiara. Il comunismo era un nemico della chiesa e un nemico della dignità umana. Di conseguenza, il ruolo politico più influente di Karol Wojtyla nel resistere alla dominazione sovietica nella sua terra natale fu innanzitutto un servizio al Vangelo e all’umanità. La sua testimonianza pubblica ha realizzato gli ideali di Gaudium et spes. Papa Francesco non è così fortunato. Le sfide globali cui siamo chiamati a rispondere sono moralmente più complesse, non chiare. Inoltre, esse non rappresentano direttamente minacce per il ministero della chiesa, ma spesso derivano da ideologie secolari approvate dal popolo stesso, quali la battaglia per resistere al cambiamento climatico, la promozione di maggiore uguaglianza economica, la resistenza al populismo”. Massimo Borghesi non concorda per nulla sulla presunta “improvvisazione” bergogliana, su un muoversi a tentoni cercando di capitalizzare qualche risultato o, peggio, di salvare la chiesa dall’incalzante minaccia portata dalla secolarizzazione. Ne è certo perché ha scavato nel retroterra culturale del Papa, in suoi scritti datati, rari, nascosti. Scritti che risalgono alla seconda metà degli anni Settanta, quando Bergoglio era provinciale dei gesuiti in Argentina. Oltre, naturalmente, alla bibbia del pontificato, l’esortazione Evangelii gaudium del 2013. “In questi scritti Bergoglio – dice il filosofo – rivela una visione dialettica della chiesa. Il cattolicesimo è, storicamente, una forma paradossale di continua sintesi degli opposti. E’ una visione molto originale,

"Francesco ha dato una scossa
a una chiesa che dopo il 1989 s'era adagiata", osserva il filosofo Massimo Borghesi: "Una chiesa che ha giustamente denunciato il venire meno dei valori cristiani dentro la società secolarizzata, ma che poi s'è chiusa nel recinto di tre o quattro valori non negoziabili"

che mi ha ricordato immediatamente Romano Guardini e la sua opposizione polare. Si tratta di un filone del pensiero cattolico che parte da Adam Möhler e prosegue con Erich Przywara, maestro di Von Balthasar, Guardini, Gaston Fessard, Henri de Lubac. E’ una prospettiva che permette di capire il pensiero originale di Bergoglio e le linee-guida del pontificato”. Ma da dove derivava questa concezione al giovane gesuita argentino che sognava di andare missionario in Giappone? “Non direttamente da Guardini, perché prima del 1986, anno del suo dottorato, la filosofia guardiniana non è al centro della sua attenzione. Gli scritti del futuro Papa non permettevano di dare una soluzione. Da qui, l’idea di rivolgersi direttamente al Pontefice che – aggiunge Borghesi – con somma cortesia, ha risposto. La sorpresa è che l’autore chiave della sua formazione è Gaston Fessard, gesuita, uno dei più grandi intellettuali del Novecento. Il giovane Bergoglio conosce Fessard attraverso il suo professore di filosofia Miguel Angel Fiorito. Attraverso di lui legge La dialectique des Exercices spirituels de Saint Ignace de Loyola. Da qui trae l’idea che la vita del gesuita sia dominata da una tensione tra opposti, tra grazia e libertà, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Bergoglio – sottolinea – trasferirà questo ideale travolto dalla crisi politica e sociale. La legge che governa l’unità della chiesa è basata su una dialettica polare che tiene uniti gli opposti senza annullarli. Una tensione che poteva trovare soluzione sul piano ‘superiore’ del Mistero divino che agisce nella storia”. Una polarità vissuta e sperimentata anche attraverso lo sguardo periferico, il mettersi distante dal centro per osservare e comprendere la realtà. L’Europa vista dai suoi confini, da Lampedusa all’Albania, dal Caucaso alla Svezia. Come un Magellano a circumnavigare il continente per coglierne tutte le sfaccettature, anche quelle in apparenza meno visibili e nitide. La periferia come concetto chiave del pontificato; idea che però non piace a R. R. Reno: “Non è un termine biblico e, come gran parte della retorica morale e politica del nostro tempo (diversità, inclusione, marginalità), il significato è vago e facilmente manipolabile. Ho sentito che i giovani cattolici conservatori delle università laiche parlano di se stessi come di ‘emarginati’. Intanto, un’epidemia di overdose da eroina colpisce gli americani meno istruiti. Queste persone, però, non si trovano nelle ‘periferie’. La nostra tradizione parla di un’opzione preferenziale per i poveri, un termine biblico di importanza centrale nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Questo è un modo migliore di parlare piuttosto che le vaghe evocazioni delle ‘periferie’. Inoltre, evocare le periferie non mette realmente in discussione la laicità dell’occidente. Basta vedere la storia degli ultimi cinquant’anni”.

 

Si sente odore di modernismo, dunque, usando categorie vecchie di un secolo, ma proprio su questo punto Borghesi cerca di fare chiarezza: “Tra coloro che amano dipingere il Papa come un pericoloso modernista – mentre Benedetto sarebbe un solido conservatore! – è comune la leggenda che Bergoglio debba le sue idee alla teologia di Karl Rahner. Senza qui entrare nel merito della valutazione su Rahner, quello che è certo è che Rahner non ha rivestito alcuna influenza sul futuro Pontefice. Un’influenza certa è invece da addebitarsi al critico di Rahner, Hans Urs von Balthasar. A partire dalla fine degli anni Novanta, Bergoglio ripropone l’estetica teologica di Balthasar, l’unità dei trascendentali dell’essere (bello-bene-vero), la priorità del bello come ‘manifestazione’ del bene e del vero. Per questo– prosegue il filosofo – chi accusa il Papa di essere un prassista, di subordinare la verità alla misericordia, dimostra di non comprenderlo. I trascendentali sono inseparabili. La misericordia non può essere contrapposta alla verità, sono due poli della stessa tensione tra universale e particolare, tra la dottrina e il caso specifico”.

 

Alla fine, gli effetti della grande rivoluzione di Jorge Mario Bergoglio si vedranno tra qualche tempo, forse intere generazioni. Ne è convinto il suo biografo, Austen Invereigh: “Bergoglio sarà ricordato come colui che ha aperto una nuova èra per la chiesa, nella quale la fonte del suo futuro missionario e del suo dinamismo evangelizzatore si sarà spostato dall’Europa all’America latina, e quindi nel sud del mondo. Sarà ricordato come colui che ha portato avanti il progetto pastorale riformista del Vaticano II, specialmente nell’ambito del governo, nell’attuazione della collegialità e della sinodalità e pure nei suoi grandi documenti magisteriali. Sarà ripristinata la credibilità della chiesa e la sua statura del mondo. Francesco, poi, sarà ricordato per uno stile carismatico e personale di grande calore e sincerità, che avrà reso il papato molto più vicino al Vangelo”.

 

L’ottimismo si fonde con la speranza, le finestre sono aperte per far entrare quell’aria fresca di cui tanto parlò, entusiasticamente, il cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, grande elettore di Bergoglio al Soglio di Pietro. All’ombra di San Pietro, però, in tanti la vedono all’opposto: “Non ho visto colombe volare nella Sistina”, disse un cardinale commentando il Conclave del febbraio 2013 dal quale risultò eletto Francesco.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.