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Il caso Dell'Utri e l'abuso del reato di "concorso morale"

Massimo Bordin

Considerazioni sulle polemiche (infondate) per la mancata scarcerazione dell'ex parlamentare di Forza Italia

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Una considerazione marginale intorno alle polemiche, da più parti infondate, sulla sentenza di qualche giorno fa in cui la Corte di cassazione negava la possibilità per Marcello Dell’Utri di fruire degli sconti di pena del cosiddetto decreto “svuota carceri”, che per la per la verità le carceri non le svuotò. Molti, indifferenti all’oggetto della sentenza, sono tornati a discutere più in generale del reato per cui Dell’Utri è detenuto, l’ormai famoso “concorso esterno in associazione mafiosa”. Non è vero che sia un reato non previsto dal codice, ha sostenuto in un suo intervento Antonio Ingroia, spiegando che nel codice sono presenti sia il reato di associazione mafiosa sia quello di concorso che può essere applicato ad altri reati. E’ oggi molto usato, per esempio, il reato di concorso in omicidio. Perché dunque non si potrebbe applicare al reato di associazione mafiosa? L’argomentazione è acuta, infatti non è di Ingroia ma di Gian Carlo Caselli, che rimanda a Giovanni Falcone l’idea originaria. Parte dei giuristi non è d’accordo e la questione è innegabilmente complicata. Storicamente un fatto è certo. Il reato di concorso per un omicidio fu applicato nel marzo 1977 nella sentenza per l’uccisione a Roma del giovane neofascista Mikis Mantakas. Umberto Terracini criticò fortemente l’uso del “concorso morale” in un processo dove le prove scarseggiavano e previde che quella innovazione avrebbe fatto cattiva giurisprudenza e infatti il reato di concorso fu molto usato, da raro che era, nei successivi processi di terrorismo. Ha una logica che poi sia tornato utile per quelli di mafia ma condanna la nostra giustizia a dilatare una logica “di emergenza” che è spesso causa di arbitrii.

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