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Il processo dimenticato e la vergogna della carcerazione preventiva

Massimo Bordin
La morte di Mario Dalmaviva, ricordato ieri sul manifesto con un bell’articolo di Alberto Magnaghi, rimanda a una ormai antica ma incresciosa vicenda giudiziaria, il processo 7 aprile, archetipo della giustizia dell’emergenza, con la sperimentazione spregiudicata della figura del pentito in un codice ancora inquisitorio.
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La morte di Mario Dalmaviva, ricordato ieri sul manifesto con un bell’articolo di Alberto Magnaghi, rimanda a una ormai antica ma incresciosa vicenda giudiziaria, il processo 7 aprile, archetipo della giustizia dell’emergenza, con la sperimentazione spregiudicata della figura del pentito in un codice ancora inquisitorio. Eppure è un processo dimenticato, non solo per il tempo passato quanto per la connotazione politica degli imputati, estrema quanto minoritaria. Erano tutti ex militanti e dirigenti di Potere Operaio. Eppure in quel processo esplose in modo clamoroso la vergogna della carcerazione preventiva, che raggiunse, per non pochi di loro, i 5 anni di carcere speciale, prima della sentenza. Per la quasi totalità di quelli che conseguirono questo poco invidiabile record, arrivarono condanne di poco superiori al tempo già trascorso in carcere, e fu così anche per Dalmaviva. La pena non poteva non far pensare a una sorta di giustificazione a posteriori di un sistema comunque vessatorio. Furono pochi, naturalmente, a denunciare un evidente abuso. I radicali candidarono Toni Negri per questo motivo, non certo per sintonia con le sue tesi politiche. E ancora oggi continuano a battersi, purtroppo senza Pannella, sul fronte del diritto e del carcere. Ma sono fuori dal Parlamento, che ne risente. Pensavo questo, ieri, seguendo le polemiche sulla prescrizione.
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