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bandiera bianca

Peccato che quello sulle lezioni di tiro a scuola fosse un equivoco. Sarebbe stata una discussione utile

Antonio Gurrado

Se davvero, per far imparare qualcosa agli italiani, bastasse insegnarlo in classe, saremmo diventati una nazione di esperti di trigonometria e di letteratura barocca. Ma qui il punto è che cosa si deve insegnare ai ragazzi: una tecnica o una consapevolezza?

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È un peccato che la proposta di Giovanbattista Fazzolari, quella di insegnare a sparare nelle scuole, si sia rivelata frutto di un equivoco, di mezze frasi mal sentite: sarebbe stata una discussione utile. Non dico sulla liceità di inserire un’ora di tiro a segno fra quella di storia e quella di estimo catastale, riguardo a cui si sono messi prontamente a discettare i soliti boccaloni dall’indignazione pavloviana: se davvero, per far imparare qualcosa agli italiani, bastasse insegnarlo a scuola, saremmo diventati una nazione di cecchini allo stesso modo in cui adesso siamo una nazione di esperti di trigonometria e di letteratura barocca.

    

La discussione utile, invece, è su cosa si debba insegnare a scuola: una tecnica o una consapevolezza?

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Se la scuola deve insegnare a fare cose, allora insegnare a sparare dovrebbe essere un programma benvenuto per tutti i progressisti della didattica, i sostenitori dell’apprendimento pratico montessoriani e steineriani, tanto quanto portare gli studenti a piantare un albero, mungere una vacca o progettare una app.

  

Se invece la scuola è riflessione, se declina il sapere come conoscenza di motivazioni e contesti, imparare a sparare è del tutto superfluo, quasi quanto scegliere se usare la tempera o l’acquerello: l’unica cosa che la scuola dovrebbe insegnare è quando, come, perché si spara. E l’alunno capirà da solo che non è il caso.

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