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Se l'università vuole insegnare la felicità siamo messi male

Antonio Gurrado

L’Università di Torino ha organizzato un laboratorio di felicità per gli aspiranti infermieri. Due considerazioni

Abbracci, meditazione buddista, restituzione di oggetti caduti per strada: ecco alcune delle pratiche contemplate dal laboratorio di felicità organizzato dall’Università di Torino per gli aspiranti infermieri. Secondo la Stampa il neuroscienziato che terrà il corso ha l’obiettivo di “trasmettere positività” a “studenti che sembrano spenti e con poco entusiasmo”. Il percorso consiste nell’“educare la mente a non dare nulla per scontato”, raccontarsi le cose belle che sono accadute, riflettere su come i pregiudizi limitino la generosità, tenere un “giornale della felicità e della qualità” in cui segnare i momenti di gioia, e iniziative consimili volte a dimostrare come “fare del bene è la cosa che ci fa più felici”.

 

Bene, due considerazioni.

 

Questo è il primo corso di felicità organizzato da un’università italiana quindi, se è necessario che sia un’università a farsi carico d’insegnare banalità da shampista, vuol dire che siamo arrivati al punto di svolta in cui si dà per scontato che gli studenti siano ingenui o allocchi, impreparati alla vita prima ancora che allo studio. Poi, per fortuna, come la felicità il corso dura poco ed è facoltativo; altrimenti chissà quanto sarebbero stati ancora più spenti e ancora meno entusiasti gli studenti costretti a esercitare l’insopportabile felicità obbligatoria.

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