La serata finale dell'ultima edizione del Premio Strega (foto LaPresse)

Così il Booker Prize ha scampato il pericolo di trasformarsi in una specie di Premio Strega

Antonio Gurrado

La vittoria di Milkman è una buona notizia poiché conferma che l’ambizione in base a cui sono selezionati i concorrenti non è il vendere ma il perdurare 

C’è maretta nel mondo editoriale britannico in quanto il romanzo vincitore del Booker Prize – “Milkman” di Anna Burns – potrebbe rivelarsi troppo difficile per essere letto davvero. La voce narrante procede imperterrita per capoversi di pagine e pagine senza mai attribuire un nome a sé stessa né ai personaggi; qualcuno azzarda l’ipotesi che la strategia migliore per cavarsela sia ascoltarlo in audiolibro mentre si fa altro e i giurati hanno insistito sulla soddisfazione che il lettore può trarre da una fatica così improba, se resiste fino alla fine. Non proprio la frase più incoraggiante da stampare sulla fascetta.

 

Che però un premio di vasta fama vada a un romanzo sperimentale è una buona notizia poiché conferma che l’ambizione in base a cui sono selezionati i concorrenti non è il vendere ma il perdurare (e infatti vincono i Naipaul, i Golding, i Rushdie, oltre a qualche Nobel sparso tipo Ishiguro o Doris Lessing). Dopo che nel 2017 aveva vinto George Saunders con un romanzo composto di brani tratti da citazione vere o finte, davanti a Paul Auster con mille pagine sulle quattro possibili vite parallele di una sola persona, la vittoria di “Milkman” segnerà il definitivo distacco fra qualità e quantità. Da qualche anno in effetti le vendite dei romanzi selezionati non subiscono significativi incrementi dopo l’annuncio dei finalisti: non adeguandosi ai gusti del pubblico, il premio non pretende d’imporgli letture irrinunciabili in società. Anche se oggi tutti ne parlano, quasi nessuno comprerà “Milkman” e il Booker Prize scamperà al pericolo di trasformarsi in una specie di Premio Strega.

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