Ignazio Marino (foto LaPresse)

Vacca Capitale

Redazione
Lo sprofondo romano che si nasconde dietro le chiacchiere vuote su Marino. A suo favore però giocano tre fattori dei quali Marino approfitta a mani basse: l’indecisionismo che sconfina nell’immobilismo del Pd, l’inchiesta per mafia, anzi per Mafia Capitale, la grande bella vacca gonfia di un “sistema Campidoglio”.

D’accordo, ormai Ignazio Marino più che un sindaco è un genere letterario; parafrasando Bernardo Bertolucci la sua si potrebbe definire “la tragedia di un uomo ridicolo” se non fossimo convinti che a differenza di Ugo Tognazzi non sarà infine lui a pagare dazio.

 

A suo favore giocano infatti tre fattori dei quali Marino approfitta a mani basse. In ordine crescente: primo l’indecisionismo che sconfina nell’immobilismo del Pd e del segretario del partito Matteo Renzi nel non staccargli la spina, alla luce del sole, togliendogli la fiducia nella giunta capitolina (quest’ultima sarebbe oggetto di una “aggressione straordinaria”, secondo il sindaco dal vittimismo facile). Un trattamento diverso da quello riservato giustamente a Enrico Letta, anche se in quella circostanza non c’era il rischio del bagno elettorale che il partito affronterebbe a Roma. Secondo l’inchiesta per mafia, anzi per Mafia Capitale (scriviamo in maiuscolo perché è maiuscolo l’ego romano pure quando si tratta di gonfiare addirittura la malavita locale al rango di criminalità organizzata per non svelare che in fondo in fondo si tratta della solita sòla, in questo caso giudiziaria). La magistratura e le varie altre sovrastrutture legalitarie hanno appunto impiantato un’inchiesta ipertrofica e tracotante contro quello che invece è un malaffare amministrativo e cialtrone, di quartiere e medio cabotaggio, appalti, trucchi e vanterie, tutto tranne che tritolo e lupara. Terzo, infine, c’è la grande bella vacca gonfia di un “sistema Campidoglio” al quale si nutrono 63 mila bocche con relative famiglie, indotto e amicizie, ossia i 26 mila dipendenti diretti e i 37 mila delle tre principali municipalizzate Acea, Atac e Ama.

 

Del rapporto Renzi-Marino, di come il sindaco si faccia costantemente scudo di una mafia che lui avrebbe debellato, se solo esistesse (“Roma si risolleva dal fango in cui era stata gettata” ha ripetuto ieri, così come 24 ore prima aveva rivelato di aver “liberato la città dai nazifascisti”), si scrive quotidianamente, fin troppo, e ora c’è pure il fronte Vaticano. E ce ne fregherebbe relativamente se non fosse che le vicende municipali fanno da alibi al sindaco e a una vasta pletora di municipali sussidiati indistintamente rispetto all’incarico ricoperto. Dirigenti e supersindacalizzati dipendenti si prestano mutuo soccorso quando esternano e manifestano a iosa sapendo di sparare al bersaglio più facile, Marino, esattamente come fanno i tassinari, i vigili urbani, i bancarellari, i custodi del Colosseo o dei Fori Imperiali.

 

Sistema e sindaco, insomma, si sorreggono come due pugili sul ring a un soffio dal ko. E appunto, parlare delle fattezze della “vacca” ci interessa assai di più, anche perché in questo oramai stucchevole mutuo soccorso tra sodali supposti nemici chi ci rimette è sempre l’utilizzatore finale dei malconci servizi pubblici cittadini, i romani o (peggio) i turisti.

 

[**Video_box_2**]L’ultimo caso è quello dell’Atac: presidente, amministratore delegato e direttore generale si dimettono per protesta contro il progetto di Stefano Esposito, neoassessore renziano ai Trasporti, di prendere 400 autobus con una gara di leasing privato funzionale, cioè compresa la manutenzione. L’ad dimissionario Francesco Micheli lascia balenare inconfessabili interessi lobbistici, perfetti per il clima da Cosa nostra de noantri ideato per Roma (il mostro divora chi l’ha creato, tipo Jurassic Park). L’assessore fa capire di aver scoperto altre nefandezze proprio in quell’area lì, la manutenzione, e nel frattempo viene giù il soffitto della stazione più centrale del metrò, quella di Piazza di Spagna.

 

La privatizzazione di Atac e Ama – che oltretutto dovrebbe scattare per legge visto che le aziende sono in deficit cronico – passa in cavalleria: anni fa per Atac si era fatto avanti il gruppo francese Veolia, leader mondiale, oggi la tendenza è piuttosto di darsela a gambe benché il sindaco avesse annunciato lo sbarco, con un miliardo di euro, di un fantomatico imprenditore cinese (ma non sarà forse stato il solito italiano col codino?).

 

I sindacati intanto scatenano scioperi (del venerdì e non solo) e blocchi contro ogni ipotesi di arrivo dei privati (potrebbero fare una joint venture con i centri sociali e relativi rimastini anti globbbalizzazio’). Ma è evidente che in questa situazione possono dormire sonni tranquilli. Acea, Atac e Ama sommano dipendenti quanto tutte le altre municipalizzate italiane messe assieme; in totale il Campidoglio ne retribuisce 10 mila più di quanti ne ha in Italia la Fiat, con una certa quanto evidente differenza di risultati. Nell’analisi delle venti maggiori città europee di Global City Report, citata ieri al convegno dei costruttori romani, svettano Londra, Parigi, Vienna e Berlino. Milano, anche grazie all’Expo, sta risalendo diverse posizioni, e comunque sovrasta Roma per efficienza dei trasporti e della nettezza urbana. Mentre la capitale della “verybella” Italia se la batte agli ultimi posti con Atene e Lisbona.

 

Infatti indovinate dove vanno in Italia gli investimenti immobiliari dei fondi sovrani? La realtà è che Milano funziona e lo ha dimostrato gestendo in sei mesi 20 milioni di visitatori: metropolitana efficiente, musei aperti, strade pulite. Roma è bloccata, in perenne emergenza, forse ormai bollita, ma in fondo la danno per bollita da che si ricordi. E però questa lenta e pallosa lessatura di durata decennale costa di tasse ai suoi cittadini più di tutte le altre città d’Italia. E tra due mesi c’è il Giubileo, un evento impegnativo per il quale la città sembra (ma vorremmo sbagliarci) oltremodo impreparata.

 

Ma l’importante è che la grande mucca del Campidoglio, dell’Atac, dell’Ama continui a dare latte copiosamente per tutti i suoi figli e per gli amici dei figli. E se poi la mucca è anche pazza – o pazzo è il suo pastore – tanto meglio. Anzi: mejo, ahò ma che ce frega.

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