2001. Senato. Votazione della legge sulle rogatorie internazionali. Tumulti dei deputati del centrosinistra contro il presidente Marcello Pera (foto LaPresse)

Per una rissa onorevole

Stefano Di Michele

Strategia, provocazione, molta atleticità. Manuale di sopravvivenza alle scazzottate parlamentari. La prima rissa della Seconda Repubblica la iniziò il camerata Nicola Pasetto, leader degli ultrà del Verona. Ma occorre la provocazione. Paradossalmente, quando la tensione è massima, è massimo pure il controllo e non accade nulla.

Il colpo risolutivo, quel 20 ottobre del 1994, venne dal camerata Nicola Pasetto (che purtroppo giovanissimo sarebbe morto, pochi anni dopo, in un incidente stradale), leader degli ultrà del Verona. Ricorda Mario Landolfi, in seguito ministro delle Comunicazioni, allora deputato appena eletto: “Fu la prima rissa in Aula della Seconda Repubblica. Nicola uscì da una porta dell’Aula e rientrò da un’altra, sbucando proprio nella zona dei deputati di sinistra. Come dire: andò a fare l’incursore in partibus infidelium…”. Fu rissa memorabile, quel giorno, alla Camera. Sempre Landolfi, che lì ebbe il suo battesimo di fuoco: “E mentre Nicola li accerchiava da dietro, il mitico Benito Paolone calava dall’alto: con una mano reggeva il borsello anni Settanta che portava sempre con sé, con l’altra si faceva largo tra gli avversari”. Con una certa efficacia, fu il generale riconoscimento. “Beh, insomma, Benito da ragazzo si era distinto come valido rugbista…”. Ad accendere la miccia era stato Mauro Paissan, deputato progressista, relatore del decreto salva Rai – un po’ relatore, e un po’, a giudizio dei freschi post missini, e pure della presidente Pivetti (“lei è un relatore o un provocatore?”), appunto provocatore – che a un certo punto passa dal salva Rai all’affondo verso quelli di An: “Ma oggi siete voi i tangentari e i tangentisti!”. E’ il parapiglia, il tana libera tutti. E mentre Pasetto accerchia da dietro, e Paolone cala dall’alto, una manovra a tenaglia la tenta anche Francesco Marenco, da Genova, che arriva al corpo a corpo con un deputato di Rifondazione. (“Ho ricevuto un colpo in piena faccia, ho visto le stelle”, denunciò il deputato comunista; “Mi hanno bloccato i commessi e uno di Rifondazione mi ha aggredito”, spiegò il missino, ancora in transito verso Fiuggi. “Poi i due sono pure diventati amici”, ricorda oggi ridendo Landolfi). Intanto da sud, da Latina, s’avanza Vincenzo Zaccheo, leader missino della città: “Tangentaro io che ho lottato per la politica trasparente? Quando ho sentito sono sceso verso il muro dei commessi e l’ho aperto”. Il giorno dopo, sul Corriere, Marenco spiega alla buvette la strategia adottata: “Noi eravamo qui. Loro, i rossi, si erano preparati in anticipo, lo dimostra il fatto che quando è scoppiato il casino sono arrivati prima di noi nell’emiciclo. Allora mi è venuta l’idea di aggirarli. E’ inutile che Tatarella mi venga a dire che dovevo stare fermo…”. Quasi ammirata, la descrizione della simil orda post missina da parte di Alessandro Meluzzi, psichiatra, eletto di Forza Italia e socio di maggioranza di quelli di An: “Un esercito di zulu, barbari, ma non ancora sfiorati dal cinismo…”. Lassù in alto, dalla presidenza, urla la Pivetti: “Deputato Marenco, la richiamo all’ordine!”. “Deputato Pasetto, la richiamo all’ordine!”. Figurarsi.

 

Intanto Pinuccio Tatarella, autonominatosi ministro dell’Armonia, vicepresidente del Consiglio, con raccapriccio dai banchi del governo osserva l’assalto dei suoi. “Me lo ricordo subito dopo, in pieno Transatlantico, aggirarsi sorridendo per l’intero pomeriggio per cercare di parare coi giornalisti il colpo mediatico – rievoca Landolfi – Era incazzato con noi. ‘Vi siete fatti fregare’, ci diceva. ‘Te lo dico francamente, hai commesso un errore’, rimproverava a quelli che avevano partecipato alla rissa. ‘Voi tutti siete caduti nella trappola’…”. E Pasetto che spiegava: “Fini avrà il suo aplomb, ma io tangentaro non me lo faccio dire!”. Marenco (sempre al Corriere): “E’ inutile che Tatarella mi venga a dire che dovevo stare fermo. Tangentaro a me, detto da una donnina come Paissan?”. A Paissan, in realtà, fu detto di tutto – e “bastardo” e “frocio” e di peggio, mentre quelli di sinistra urlavano “squadristi!” e “fascisti!” e “topi” e di peggio, e proprio dentro quel parapiglia alto risuonò l’urlo di Francesco Storace (che pure: “Deputato Storace, la richiamo all’ordine!”, si udì urlare dalla Pivetti) destinato a restare nelle cronache: “Quella checca di Paissan mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso! Io non l’ho toccato, vi sfido a trovare le mie impronte digitali sul suo culo!”. Al ricordo di quel giorno, mentre lo rievoca, è divertito Storace: “Rispetto a quello che si vede oggi in Aula – una cosa indecorosa, una vera e propria caccia all’uomo – quelli erano esempi di amore e di signorilità e di garbo… Il trionfo della goliardia, al massimo… A un certo punto, un paio di anni dopo, io ero presidente della Vigilanza e Paissan mio vice. ‘Fammi vedere le tue unghie!’, gli dissi ridendo mentre entrava nel mio ufficio… Comunque, sempre meglio che i tumulti scoppino in Aula piuttosto che nelle piazze”. Spiega Landolfi, con certa sapienza, quale deve essere la buona strategia per accendere una rissa: “Innanzi tutto ci vuole qualcuno capace di fare un’efficace provocazione. Quel giorno, Paissan fu bravissimo in questo. E poi ci vuole del materiale infiammabile, come eravamo noi – non solo per via del simbolo nel partito, se mi capisci”. E oggi? “Beh, oggi Renzi è certo efficace nelle sue provocazioni. Pure Brunetta non scherza”. E il materiale infiammabile? I grillini, forse? “Mah, i Cinque stelle sono tristi, ripetitivi, stantii, prevedibili, sepolcrali, non hanno guizzo nella reazione…”.

 

In Aula, perciò, serve la strategia d’attacco, e ovviamente quella di difesa. Il giovane Andreotti, per esempio, ha raccontato di quando, sottosegretario del governo De Gasperi, rimase immobile al suo posto, al Senato, quel 29 marzo 1953, domenica delle Palme, mentre si discuteva della “legge truffa” e intorno comunisti e socialisti scatenavano l’inferno. Volava di tutto: copie del regolamento, tavolette dei banchi staccate e usate per battere ritmicamente, come tamburi da battaglia, libri. I microfoni strappati e gettati nell’aria. Il povero Meuccio Ruini, presidente del Senato, se la vede brutta davvero: “Traditore! Porco! Venduto ai gesuiti!”, mentre i senatori della sinistra si arrampicano sulle colonnine di legno della presidenza, le staccano, provano la scalata, cercano di assaltarlo. C’è chi afferra il sacchetto delle palline per il voto nominale e le lancia in aria. “Quaranta minuti di botte da orbi”, resta annotato nelle cronache. Lo spaventato Ruini, che cercava di difendersi riparandosi dietro la sua borsa, fu persino colpito da una delle tavolette di legno volanti – lo ricorda pure Pietro Ingrao, in un suo libro. E la fatale conseguenza ha segnalato Ugo Zatterin, allora cronista parlamentare: “Il vecchio uomo politico non si trattenne dal farsela nei pantaloni”. Botte da orbi, occhiali rotti, morsi qua e là, cazzotti ovunque. E Andreotti, si diceva? Restò immobile, fermo al suo posto, le carte ordinate davanti. Solo, prudentemente, si piazzò un cestino della carta sulla testa, come elmo difensivo. Per inciso, mentre Andreotti se ne stava così combinato, tra Brancaleone e “il buon soldato Sc’vèik”, il comunista Spano lo avvertiva poco amichevole: “Dopo il voto avrete un nuovo piazzale Loreto!”.

 


Una rissa al Parlamento ucraino


 

Si biasima molto, oggi. Si depreca. Ci si indigna. Ma sono cucciolini indisciplinati, questi noiosi grillini – “onestà! onestà!”: che mappazza, che cicagna, che abbiocco! – rispetto alla vera e propria armata rossa che poteva tenere in scacco il Parlamento nel Dopoguerra – come si può benissimo leggere nel libro di Sabino Labia, “Tumulti in Aula. Il presidente sospende la seduta”. Strateghi massimi della guerriglia dei gruppi togliattiani erano tra gli altri i fratelli Pajetta – sveltissimi nello scavalco dei banchi, agilissimi negli assalti (altro il sindacalista di Sel ultimamente issato sui banchi sovrastanti: “Sono un po’ sovrappeso, ma mi curo”). I Pajetta’s brothers, invece, erano smilzi, magri (pure perché reduci da parecchi onorevoli anni nelle carceri fasciste), coraggiosi, abilissimi: tanto che, si legge, Giuliano era detto “la tigre rossa” e il più noto Giancarlo “il giaguaro”, a ragione di felina abilità. “A catapulta”, si trova testuale annotazione nei verbali d’Aula. Ottima strategia, la catapulta, il salto sull’avversario. Che fu messa alla prova già nel 1949, con l’adesione dell’Italia alla Nato, quando in Aula la guerriglia fu anche canora: a sinistra intonavano l’inno di Garibaldi (“Va’ fuori d’Italia! Va’ fuori ch’è l’ora! / Va’ fuori d’Italia! Va’ fuori stranier!”), gli altri rispondevano con quello di Mameli (“l’Italia s’è desta!”). Dai diari di Andreotti: “La seduta durò ininterrottamente per tre giorni e tre notti per stroncare gli ostruzionismi e fu contraddistinta da pugilati, scambi di percosse e persino da un morso alla mano del mite Achille Marazza, azzannato dal comunista Di Mauro che cercava di aggredire De Gasperi alle spalle”. Dalla cronaca di Zatterin: “Ho il ricordo del Parlamento simile a un atrio di stazione con gente stravaccata dappertutto, scamiciata, la cinta dei pantaloni in mano, senza scarpe, a sputare per terra, a disseminare cicche, cartacce e resti di cibarie, a tirarsi le cose, darsi schiaffi, ingiuriare, a bestemmiare…” – e chissà a cosa mai potevano servire, quelle cinte strette nelle mani. Quindici minuti di scontro caldissimo. Altrettanti nella votazione alla Camera per la “legge truffa”: divelti i tavoli degli stenografi, microfoni strappati, vassoi d’argento che volano nell’aria, il cassetto di un tavolo che attraversa l’Aula. Strategia del massimo disordine. Conteggio finale: tre feriti a destra, tre a sinistra. Persino la sempre sacrale evocata Assemblea costituente, venne mutata in ring, stavolta tra monarchici (“comunisti assassini!”) e, appunto, i sunnominati comunisti (“fascisti, tornate nelle fogne!”), calci e pugni e tavolette che volano alla ricerca di teste friabili. Umberto Terracini, che sedeva alla presidenza: “Ma santa miseria!”.

 



 

Dunque: occorre la provocazione, occorre la massa che la provocazione attende (o che, poco saggiamente, alla provocazione non resiste). Spiega Landolfi, testimone diretto di quasi vent’anni di scontri dell’èra berlusconiana: “Ma deve essere un bravo provocatore a freddo, qualcuno capace di accendere la miccia quando tutto sembra tranquillo. Allora diventa tutto molto più facile, quando nessuno se l’aspetta. Paradossalmente, quando la tensione è massima, massimo è pure il controllo, quasi sempre non accade nulla”. Poi servono gli strumenti adatti – e qui la fantasia dell’onorevole può essere e può dirsi illimitata. Non c’è stato solo il cappio da boia ondeggiato dal leghista, ma fenomenale fu Teodoro Buontempo, inteso er Pecora, che si tirò dietro un megafono da piazza, e con quello provò ad arringare l’Aula: seguì fuga dello stesso con lo strumento in mano, lungo le scale dell’emiciclo, inseguito dai commessi. Il fischietto della deputata Cobas (e di Rifondazione) Malavenda, che presentò da sola quasi 120 mila emendamenti alla Finanziaria del ’98. Quando le vietano di illustrarli in Aula, ecco che magicamente compare il fischietto tra le sue labbra, e comincia a soffiare. Violante la espelle. Lei allora con un foulard si lega al suo banco. Intervento dei commessi, nodi che resistono, si provvede al taglio del fazzoletto malavendiano, grida altissime, trasporto della stessa fuori dall’Aula a braccio, che poi si posiziona “di traverso, davanti all’entrata dell’Aula” (agenzia Ansa), e “cerca di rotolare strisciando” verso il centro del Transatlantico (agenzia AdnKronos). Sempre, si capisce, fischiando: “Vi do fastidio? Ma noi operai siamo abituati alle catene di montaggio!”. Tra gli strumenti più surreali per la strategia dello scontro-provocazione in Aula (dopo assalti e sputi e insulti, “sei un ceso corroso!”, a un povero senatore Udeur, finito in lacrime e accasciato causa svenimento), a festeggiamento della caduta del governo Prodi: due fette di mortadella. Artefice Nino Strano, brioso senatore di An (“esteta fottuto, amico di travestiti, troie e gay”, si raccontò a Repubblica), che goduriosamente ingoiò il tutto, e cinematograficamente si giustificò: “Tutto il cinema di Almodovar si nutre della carne viva come scena fondante…”. A soccorso, con un paio di bottiglie di champagne, il collega Domenico Gramazio, inteso er Pinguino, con schizzi del prezioso liquido sulla non meno preziosa moquette di Palazzo Madama. Urlava, il presidente del Senato, Franco Marini: “Non siamo all’osteria!”.

 

A volte, per la rissa, bastano le sole parole. Come quella epica, tra il Gramazio di cui sopra e Massimo Mauro, ex calciatore della Juve e deputato veltroniano, causa discussione parlamentare su arbitri e calcio. O quella – lessicalmente memorabile – attorno ai coglioni. Così fu: che si discuteva di una frase rivolta da Sgarbi a un paio di poliziotti, “c’è una guardia che vuole rompere i coglioni!” – e rivendicando il suo il critico, ché “io dei miei coglioni faccio quello che voglio!”. Tutto nello stenografico. Notò il presidente Violante: “Oggi è la serata delle finezze!”. Sbottò, dopo ampia discussione, il leghista Rizzi: “E’ da due ore che si parla dei coglioni di Sgarbi. Sinceramente, ne ho pieni i coglioni! A me è venuta l’orchite, signor presidente!”. Leggendaria la disquisizione, nel dibattito, del dotto e sempre spiazzante Filippo Mancuso: “Non mi sarei mai aspettato di dover rimproverare all’onorevole Sgarbi, uomo di grande sapere, una lacuna culturale. Egli poteva dispensarsi da questa vicenda semplicemente ricordando che Giacomo Leopardi definiva questi organi di cui si è avvalso nel linguaggio come ‘i tommasei’, essendo letterariamente avverso a Niccolò Tommaseo. Sarebbe bastato che egli dicesse ‘non mi rompa i tommasei’ e il fatto non sarebbe neppure sorto”. Lì, per fortuna, la rissa fu solo verbale – anche se l’argomento, come strategia, era meglio del calcio e del fischietto e persino della mortadella. Quella volta in Aula non finì a calci, come pure era già accaduto. Mettendo a rischio gli onorevoli coglioni (non è metafora da antipolitica, per carità; da intendersi: i coglioni degli). O “tommasei” che fossero.

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