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Veni, vidi, Lego

Ascesa, declino e rinascita della fabbrica danese di mattoncini di plastica colorata. L’etica religiosa, il rischio “indigestione” negli anni 2000, la risalita con un ceo 34enne, il film da record e quelli con la dipendenza.

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Milano. Il mese scorso, poco prima della Giornata della Memoria, uno studente inglese di 16 anni ha riprodotto con i Lego gli avvenimenti più importanti della Seconda guerra mondiale. L’ascesa al potere di Adolf Hitler, l’incendio del Reichstag, i roghi di libri, le leggi razziali, la Notte dei cristalli, la guerra, i campi di concentramento, fino al suicidio del Führer, tutto costruito con gli omini e i mattoncini colorati danesi. Sui social network le foto hanno avuto una diffusione globale, con centinaia di migliaia di visualizzazioni. E’ solo l’ultimo esempio in ordine cronologico, nell’èra del digitale e della grafica 3D, della potenza evocativa della più famosa fabbrica di mattoni del pianeta.

 

Eppure, prima della rinascita degli ultimi anni, Lego era a un passo dalla bancarotta. In soli due anni, tra il 2003 e il 2004, l’azienda danese aveva accumulato perdite per oltre 400 milioni di euro. E questo appena tre anni dopo che la rivista Fortune aveva incoronato il mattoncino danese come “giocattolo del secolo”. Cos’è successo all’azienda fondata dal falegname Ole Kirk Christiansen che in pochi anni è arrivata a un passo dal fallimento e poi è improvvisamente ritornata la numero uno al mondo? Da quando negli anni Trenta Ole Kirk inizia a produrre nella sua falegnameria giocattoli di legno e sceglie per la sua impresa il nome Lego, dal danese “leg godt” che significa “gioca bene”, l’azienda cresce sempre senza mai registrare una perdita.

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Nonostante Christiansen sia costretto a ripartire da zero a causa di un paio di incendi, la Lego va sempre avanti, anche quando alcune innovazioni, come l’uso della plastica al posto del legno, non vengano all’inizio accolte positivamente. In 50 anni i mattoncini della Lego invadono il mondo, i giochi entrano nell’immaginario collettivo dei piccoli e dei genitori. Castelli, pompe di benzina, ambulanze, pompieri, pirati, macchine da corsa: sulla terra ci sono più omini gialli che persone in carne e ossa e 80 mattoncini per ogni essere umano, che fanno della Lego l’impresa di costruzioni più grande del pianeta. In questi 50 anni la famiglia Christiansen diventa la più ricca di Danimarca e tra le più ricche del mondo, ma in Lego non si parla mai di profitti, una parola quasi volgare per un’azienda votata ai valori etici e religiosi del capostipite, un modello di qualità e di virtù educativa, più che di business. Si racconta che quando la Lego era ancora una falegnameria, Gotfred, il figlio di Ole Kirk che poi farà grande l’azienda, disse orgoglioso al padre di aver risparmiato un bel po’ di soldi passando solo due mani di vernice, anziché le consuete tre, su un lotto di giocattoli di legno. Il padre si alterò e mandò il figlio in stazione a riprendere i giocattoli per dare l’ultima passata. Etica del lavoro prima della logica del profitto.

 

Di profitti però se ne inizia a parlare quando non ci sono più, come nel 1998, con il primo bilancio in rosso della storia della Lego. L’azienda si risolleva con la serie “Stars Wars”, la prima in partnership con l’industria cinematografica, superando le resistenze di chi in Lego non voleva un giocattolo che contenesse la parola “guerra”. Sarà il prodotto più venduto di sempre, ma non basterà a evitare il tracollo del 2003-2004. Si ritorna a parlare di profitti, che mancano, anche perché Kjeld Kirk Christiansen, la terza generazione alla guida della casa di Billund, deve mettere mano al suo salvadanaio e prendere centinaia di milioni per tenere l’azienda in piedi. Per dare una scossa Kjeld Kirk si fa da parte e nel 2004 mette alla guida della Lego un ragazzo di 34 anni, Jørgen Vig Knudstorp, ex McKinsey da qualche anno in azienda, il primo al di fuori della famiglia. La società è in crisi perché per stare al passo coi tempi ha allargato i suoi interessi ai parchi divertimento, i Legoland, a giochi per ragazze, programmi tv, orologi, magliette e videogiochi, perdendo di vista il suo core business. “Molte società non muoiono di fame, muoiono d’indigestione”, dice il giovane ceo di Lego. “Lego è un sistema unico di costruzioni, che rende capaci i bambini di mettere dei pezzi insieme in migliaia di combinazioni e costruire. L’abbiamo dimenticato. Eppure era così ovvio! Nell’azienda per anni tutti pensavano a nuovi progetti innovativi, a fare cose che non erano quello, ciò che ti rende unico. La cosa più importante per noi è stampare ognuno di quei pezzi in maniera perfetta e consegnare i giochi puntualmente”. Non è stata una passeggiata, sono stati chiusi uffici, vendute sedi, delocalizzata la produzione in Messico e Repubblica ceca, licenziati migliaia di dipendenti, venduti Legoland e rami d’azienda. “Le imprese in genere come strategia puntano a crescere per fare profitti, noi abbiamo programmato una crescita zero ma un aumento della produttività”. Prima ci volevano due anni per trasformare un’idea in una scatola sugli scaffali, dopo la cura Knudstorp i tempi si sono dimezzati. Al consolidamento e alla terapia d’austerità il nuovo ceo ha aggiunto la tradizionale creatività della Lego. Vengono mandati a casa top designer e strateghi di marketing che avevano consigliato le avventure nei nuovi mercati e si dà ascolto ai fan, a chi ha passato gli anni montando mattoncini. Le prime uscite di Knudstorp sono alle convention Afol (Adult fan of Lego), per ascoltare i consigli e i suggerimenti degli appassionati e qualcuno di loro viene assunto come designer. In poco tempo l’azienda ritorna a fare profitti, quadruplica le vendite e il marchio si diffonde in oltre 130 paesi. Quando le aziende concorrenti affrontano la crisi finanziaria del 2008 entrano in un mare tempestoso in cui Lego ha imparato a navigare da tempo. Dopo aver consolidato il suo core business dei mattoncini di plastica colorati, Lego innova e si lancia in campi come il cinema. Con “The Lego movie”, che costa 60 milioni e ne incassa 470, nel 2014 l’azienda sorpassa per la prima volta la Mattel, la casa che produce la Barbie, diventando la più grande azienda di giocattoli del mondo.

 

[**Video_box_2**]Il fascino di Lego supera le barriere del gioco ed entra in quello dell’arte, con scultori-carpentieri che reinterpretano i murales di Banksy, veri e propri artisti come Nathan Sawaya riproducono con decine di migliaia di mattoncini colorati opere d’arte come l’“Urlo” di Munch, la “Gioconda” o il “David” di Michelangelo. I Lego tornano a diventare una mania, tanto che negli Stati Uniti nascono bande criminali specializzate nel furto di set Lego, mettendo a segno colpi dal valore di centinaia di migliaia di dollari. Per molti diventano una droga. Ad Amsterdam è stato arrestato un tossico che pagava lo spacciatore con scatole di Lego rubate: “I Lego sono molto ricercati – ha detto l’avvocato – e facili da rivendere a normali padri di famiglia. Hanno bambini che dopo aver avuto tra le mani il primo mattone sono completamente in fissa”. I veri drogati sono loro.

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