E’ stata beffarda, persino ingiusta, la sorte con Amato – che ora continuerà a lavorare in quel palazzo della Consulta e, chissà, magari lo farà presto da presidente…

Troppo Amato

Stefano Di Michele

Mattarella è stato la sorpresa, lui quasi l’ovvio. Ha pagato l’allure da eterno presidente in pectore, e il peso di alcuni grandi elettori ingombranti (diciamo). "Ah, Giuliano, che gran presidente sarebbe!"; lui stesso prova a spiegare: “Mattarella era il mio preferito, dopo me”.

Lì in terza fila, dentro questo salone dei Corazzieri – lui che la prima avrebbe potuto lesto scavalcare, e direttamente sul palco finire, doverosamente addobbato di Gran Croce e Gran Cordone, a condividere onori e tamburi militari col cagnetto Briciola – Amato Giuliano sta. Su una seggiolina dorata, con cuscinino rosso, sta. Pare autorevole, il manufatto; senz’altro scomodo, a occuparlo nella ressa. Allunga la testa – testa da roditore, da astuto topino, come i vignettisti l’hanno sempre immaginato e ritratto: ma pure testa da pulcino, che guarda con stupore un po’ sperso fuori dall’uovo, che quasi pare non riconoscere il posto dove si trova. Ha davanti un cardinale tondo e perfettamente intonato, col suo color nero tonaca/rosso fascia. Lì vicino, appena due file davanti, Matteo Renzi, oggi persino col fazzolettino bianco nel taschino, il tamarro dell’Arno che lo ha lasciato cadere, “ognun vede quel che tu pari”, e poi condurre via dalle acque limacciose, abbandonato al sabba mediatico e selvaggio degli anticasta a tutti i costi. A lato, una signora bionda dalla folta e impegnativa capigliatura. Così sta messo, Giuliano Amato – mentre ognuno festevole a rendere omaggio al nuovo capo dello stato si attrezza, e nessuno i palmi plaudenti volge verso di lui, la testa china sullo schermo del telefonino – in terza fila, appunto, alle spalle la quarta e la quinta e la sesta: di quelle che producono e gettano le ombre dell’anonimato. Certo, non c’è chi non l’abbia riconosciuto, negli anni e persino nelle settimane passate, a ridosso di questi tristissimi giorni della merla: – ah, Giuliano, che gran presidente sarebbe!; lui stesso, con felicissima ironia, dentro l’evocativo salone prova a spiegare – “Mattarella era il mio preferito, dopo me”; e i bookmaker su di lui scommettevano, il meglio piazzato, quadrupede di razza che il traguardo finale non doveva mancare. Eccolo lì, adesso, che scompare nel parapiglia, la diretta televisiva acchiappa ogni tanto un disordinato ciuffo, occhiali danzanti sulla punta del naso: nella giornata in cui si consacra Mattarella, Amato bisogna intuirlo, piuttosto che vederlo. Ora che la partita si è chiusa, nessuno come Amato risulta perdente. Perché nessuno, come Amato, è stato così vicino a farcela, a farsi vincente. Perché nessuno, come Amato, sembrava così perfetto per quel ruolo: per acclarata dottrina, per sperimentata capacità. E perché, a settantasette anni, si tratta di una partita che non potrà mai più essere riaperta – e “quel che resta del giorno”, come nel bellissimo film con Anthony Hopkins, molto potrà ancora riservare, ma forse l’essenziale adesso è andato perso per sempre. Magari Amato si sarà sentito, lì stipato un po’ alla rinfusa, mentre osservava i giganti con l’elmo lucido che vigilano su porte e corridoi, con dottissima autoironia, come il simpaticissimo corazziere Renato Rascel alla sua altezza allineato, “io di quei cavalli forse non son degno”, e perciò a mesta conclusione così richiamato, “e c’ho un cavallo a dondolo de legno”.

 

Col “cavallo a dondolo de legno”, è restato dunque Amato. Ognuno altro, nel gran torneo che sulla spianata del Quirinale si è combattuto, qualcosa per il futuro è riuscito a preservare e/o conquistare: magari un ministero, visto mai, come per la Finocchiaro; magari il gusto stesso di essere sorprendentemente finito tra le infinite rose di candidati, tra i padri della Patria, come Fassino; magari un film, come Veltroni; magari una buona vendemmia, come D’Alema – che per Amato si è battuto, in memoria di ciò che fu, dei giorni studiosi di ItalianiEuropei e delle transumanze presso il socialismo continentale, ma che si è infine risolto in una sorta di bacio della morte, come fosse ormai l’antico capo baffuto che tremare il mondo faceva (“capotavola è dove mi siedo io”) una sorta di untorello, specie di suocera invadente e petulante, zia in là con gli anni da esibire in un paio di festività familiari, per una tombolata, e niente più. “E che c’entra D’Alema?”, si è chiesto Renzi. E che c’entra pure Bersani, che una parola per Giuliano l’ha spesa (ma due per Sergio)? E persino, che c’entra Napolitano, che sul Colle avrebbe lasciato volentieri a guardia, proprio insieme ai corazzieri, la scienza e la sapienza di Amato? E nientemeno il Cav., qualche sedia più in là dormiente, lo avrebbe voluto… Tutti, lo volevano, tutti: gran successo, gran pienone, gran delusione. La terza fila ingoia nell’ombra – c’è una foto di Amato, sul Corriere di ieri, che pare definitiva: tutti intorno in piedi, e tutti che gli danno le spalle (la fitta folla di cui ha fornito resoconto televisivo Enrico Mentana, “cani e porci”, così disse), e lui chino sul telefonino: triste solitario y final, una mestizia da WhatsApp, quasi soccorre l’ovvia citazione.

 

Certo che qualcosa per Amato è rimasto, qualcosa nel suo orizzonte ancora s’intravede: dubbi che così andrà quasi nessuno ne ha, di sicuro pure il “birichino” (il Cav. gliel’ha cantata chiara) toscano dovrebbe stavolta tacere, non potendo del resto sull’argomento intervenire. Ed è la presidenza della Corte costituzionale, quando e come spetterà rinnovarla. Per il giurista Amato potrebbe essere il massimo; difficile che lo sia per il politico Amato. E’ stata una curiosa gara, quella tra lui e Mattarella – due figli prediletti, speciali per capacità e per intelligenza, della Prima Repubblica. Il socialista e il democristiano. Il brillante Amato e il riservato Mattarella. Tutto, infine, intorno a loro si è condensato – e parevano, nelle cronache fino a sabato scorso, i due candidati al papato nel 1958, Roncalli e Siri, raccontati dallo stesso Giovanni XXIII: “Sembravamo come i fagioli nella pignata, che vanno su e giù. Ora io, ora lui”. Due legumi in pentola. Con gli strumenti della Prima Repubblica, si è combattuta una delle principali battaglie della Terza. Ma mentre Mattarella nelle nebbie di decenni lontani pareva fino a sabato scorso avvolto, Amato le cronache e gli scontri, anche recenti, aveva largamente attraversato, con puntiglio e una certa grazia polemica che ognuno gli riconosce – così che sul Fatto, già in gramaglie per l’abbandono di Napolitano, un’intera estenuante sua biografia a puntate è stata pubblicata, manco fosse il Piccolo Cesare: ad allertare gli ignari italiani, ad alleprare i distratti grandi elettori, a confermare Renzi nella convinzione che molto meglio l’antico democristiano – un po’ caduto nel dimenticatoio, che l’antico socialista – per sua sfortuna presente in ogni cronaca, nello specifico travagliesca.

 

Mattarella è stata la sorpresa, Amato era quasi l’ovvio. E questo suo essere quasi sempre scontatamente l’ottima soluzione per ogni problema – necessario capo del governo, inappuntabile ministro dell’Economia o dell’Interno, dotto da Enciclopedia Treccani, colto da Scuola Superiore e Antitrust, istruito su riforme varie, quasi dottrina esoterica sulla Convenzione europea, saggista eccelso, conferenziere brioso, l’Unità d’Italia nelle sue mani affidata, perfetto giudice costituzionale, a un soffio dall’essere ideale presidente, “ha messo insieme una collezione di poltrone – scrissero in disprezzo gli antipatizzanti della sua indiscussa versatilità – che nemmeno Divani&Divani” – si è rivelato infine il problema principale. Il pregio si è fatto difetto. E’ stato Amato, indispensabile consigliere del Principe, a sotterrare Amato stesso quando voleva farsi Principe – si è vista ridotta, dallo spirito dei giorni, proprio la sua riconosciuta eccellenza a peso morto, di piombo che trascina a fondo. A suo modo smisurato, Amato, per un lunghissimo periodo vissuto in un mondo di misure, adesso da altre smisuratezze, quella renziana innanzi tutto, viene superato e accantonato. Quella foto a pagina otto del Corriere è l’immagine perfetta, il sipario calato: quelle schiene voltate, quelle facce che altrove guardano, il momento di passaggio tra la gloria e la terra – che pure a ogni Migliore, quale Amato di sicuro è, tocca.

 

Singolare paradosso per Amato: l’uomo che hanno eletto al suo posto è quanto di più simile a lui si poteva trovare – altro giurista, altro membro della Consulta, altro esponente di partiti che non esistono più. Studiava da anni, per la presidenza, Amato – come certi cardinali che una volta, fin dalla mezza età, al papato parevano destinati. Già con Napolitano la prima e la seconda volta, poi come successore di Letta (e venne invece fuori il suo contrario e la sua nemesi: Renzi), mai escluso finché era possibile il sostegno dei due che le sorti d’Italia sembravano avere in mano, il Cav. e D’Alema. Nessuno c’era che poteva dire di negare il suo voto ad Amato, ancor meno chi facesse mancare la propria considerazione a un simile candidato. Persino la segnalazione dell’ultimo suo volume, “Le istituzioni della democrazia”, da sponsor ed estimatori doverosamente segnalato – “un impegno instancabile e fecondo, dedicato non solo a innovare ricerca e saperi, ma anche a coniugarli con le domande via via più urgenti poste dalle nostre democrazie…”, così, a mirabile composizione, e tra le infinite curiosità e coincidenze, ecco che il volume contiene pure un saggio di Sabino Cassese, altro eminentissimo giurista della Consulta, e di Giulio Napolitano, figlio di Giorgio – che molto Amato in gran conto teneva, e si è scritto che Amato come successore voleva. E’ stata beffarda, persino ingiusta, la sorte con Amato – che ora continuerà a lavorare in quel palazzo della Consulta, a pochi metri, appena attraversata la strada, da quel Quirinale di cui pure sarebbe stato impeccabile inquilino. Spietata coincidenza. Amato è stato nominato giudice costituzionale nel 2013 dal presidente Napolitano, e siccome un mandato dura nove anni, ha sette anni ancora da passare nei saloni e nei corridoi del palazzo trapezoidale della Corte: esattamente gli anni, proprio quelli, non uno di più, che Sergio Mattarella, da sabato presidente della Repubblica, passerà nel palazzo del Quirinale pochi metri oltre – che quasi pare di poterlo sfiorare con le mani, dalle finestre della Consulta. Curiose convergenze parallele.

 

[**Video_box_2**]Due anni in meno, forse sarebbero bastati ad Amato. Due anni appena. Se i barbari toscani non avessero conquistato il suo partito. Se la Ditta fosse stata quella che tutti conoscevano. Se il Cav. avesse conservato la sua forza. Se Massimo e Giorgio e io, fossimo presi ancora una volta per incantamento… E invece, semplicemente, le cose hanno cominciato a precedere, stavolta, le parole e i riti. “Oh quanti incantatori tra noi, che non si sanno!”, avrà pensato l’Amato a capo chino, e in solitudine, nella sala dei Corazzieri, citando l’“Orlando furioso” di cui qualche mese fa presentò, con la solita dottrina, l’elegantissima e bellissima nuova edizione. Ma alla furia di Amato, a un “Giuliano Furioso”, nessuno mai assisterà, a nessuno un simile piacere verrà riservato – persino sul suo blog, in epigrafe, ha fatto scrivere: “Quando tutti urlano, uno che ragiona a bassa voce a volte fa più rumore”. Al massimo, proprio al massimo, ecco, quella battuta su Mattarella come il candidato ideale, seppure sia chiaro, “ha qualità adattissime per questo incarico” – quasi come a dire, anzi, senza quasi: peccato per me, peccato soprattutto per voi.

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