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Il Super Bowl ai Patriots getta nella disperazione il resto dell’America

Mattia Ferraresi

Tutti gli americani, ad eccezione del New England, facevano il tifo per Seattle. La squadra della periferia di Boston è finita dentro a troppi scandali, ha cercato di rubare partite in modo sempre più esplicito e smaccato, fino al Deflategate, lo scandalo dei palloni sgonfi.

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New York. Ma perché ha lanciato? Perché non ha fatto fatto andare Marshawn Lynch in “beast mode” a spaccare la difesa e entrare nella red zone? La bestia un modo lo trova sempre. E la meta era lì, a una yard di distanza, 91 centimetri e rotti che nel football fanno la differenza fra la vittoria e la sconfitta, l’ha insegnato a tutti Tony D’Amato in Any Given Sunday. Tutta l’America tranne Boston s’è svegliata con quella domanda in testa: per quale inspiegabile motivo ha lanciato? Perché rischiare di essere intercettati e umiliati? Se lo chiedono al bar, in televisione, nella sala d’attesa del medico, se lo chiede il presidente degli Stati Uniti e la casalinga disperata, se lo domanda il malato di football e quello che ha guardato il Super Bowl per un minimo di senso del dovere sociale, più concentrato su Katy Perry che su Julian Edelman. Se lo chiedevano ad alta voce anche gli stessi giocatori dei Seattle Seahawks nello spogliatoio dopo la partita, mentre si leccavano ferite che forse non si rimargineranno mai.

 

Perché si può vincere e si può perdere da uomini – altra lezione di Tony D’Amato – e quella di domenica sera è stata una sconfitta da mezzuomini, di quelle che possono originare une delle leggendarie maledizioni dello sport americano, che poi vanno avanti per decenni. E’ stata la “decisione peggiore della storia del Super Bowl” (Seattle Times), “un orrendo crampo al cervello nel momento peggiore in assoluto” (Sports Illustrated), “la più scellerata giocata della storia” (Espn). Perché, dunque? Pete Carroll, l’allenatore in capo, dice che avevano ancora tre down e un timeout, erano certi di portare a casa la vittoria a venti secondi dalla fine, si trattava di aspettare, di non strafare, ma la palla è stata disgraziatamente intercettata e tutto è cambiato. Per quanto i data journalist di vox.com si sforzino di costruire grafici intorno alla ratio della scelta di Carroll ha ragione il linebacker Bruce Irwin: “Non lo capirò mai, bro”. Gli americani danno risposte più dirette, e quasi tutte coinvolgono qualche parente stretto del coach di Seattle.

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Il quarterback dei New England Patriots Tom Brady (foto LaPresse)


 

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Per capire la drammatica gravità della circostanza sportiva e culturale basta guardare la faccia di Tom Brady a bordo campo quando il suo compagno intercetta la palla della vittoria: per qualche secondo sembra che il quarterback da sogno, il marito di Gisele, l’uomo perfetto, bellissimo e sempre smagliante, con la faccia naturalmente voltata in favore di telecamera, il fisico ossessivamente curato, i figli che sembrano assemblati all’Ikea, la faccia di bronzo quando si difende dalle accuse di irregolarità e ruberie, torni a essere un uomo normale, anzi un bambino. Un bambino che salta a bordo campo perché non ci può credere quanto sono stati bravi i suoi e stupidi gli avversari, quelli che sono innanzitutto temuti per “la bestia” e sul più bello la tengono al guinzaglio.

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[**Video_box_2**]L’America intera, ad eccezione del New England, faceva il tifo per Seattle. I Patriots sono finiti dentro a troppi scandali, hanno cercato di rubare partite in modo sempre più esplicito e smaccato, fino al Deflategate, lo scandalo dei palloni sgonfi che è caduto proprio sulle spalle di Brady. Nel cuore dell’America non c’è posto per i “cheaters”, per chi gioca scorrettamente, e sebbene la pistola fumante non si trovi il verdetto popolare è inequivocabile. In più, i Patriots incarnano quella speciale strafottenza bostoniana che deriva da una percepita superiorità morale, roba da pionieri brahmin del New England contro gli zotici redneck dell’America di mezzo. L’America è una nazione di immigrati, chiunque può diventare un membro di questo grandioso esperimento sociale, ma non a Boston, con il suo accento irriproducibile e il suo fare europeo. Non c’è posto nell’epica dei pilgrim fathers e dei minutemen che hanno ottenuto l’indipendenza in cambio del sangue, non ci si può iscrivere al club, è un fatto di lignaggio e casata, un po’ come nell’Inghilterra che i new englanders detestavano. “We are all Patriots”, recita il motto della squadra, ma nello stordimento del giorno dopo nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.

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