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Cari governanti, ora non lasciate solo il prussiano Draghi

Mario Draghi ha aperto una nuova èra per un’Europa ingessata da un establishment fiacco e agli occhi degli osservatori più autorevoli appare come un condottiero appena partito per una battaglia dagli esiti imprevedibili.

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Roma. Mario Draghi ha aperto una nuova èra per un’Europa ingessata da un establishment fiacco e agli occhi degli osservatori più autorevoli appare come un condottiero appena partito per una battaglia dagli esiti imprevedibili. Le Borse, dopo l’euforia del D-day, sono rimaste attorno alla parità e – cosa più importante – l’euro ha continuato a deprezzarsi aggiornando i minimi decennali (l’1,12 sul dollaro). Il rendimento dei titoli sovrani è continuato a scendere, soprattutto di Germania e Finlandia – i bond hanno subìto un crollo – traendo grande profitto dall’accoglienza dei mercati al piano Draghi. La domanda chiave è se basterà un piano da oltre mille miliardi per almeno diciannove mesi oppure, se ciò non bastasse, da estendere ad libitum finché l’inflazione non tornerà a crescere vicino al 2 per cento? La chiosa dell’editoriale di  Martin Wolf  sul Financial Times racchiude dubbi e speranze comuni tra i commentatori e gli analisti. “Nessuno sa se funzionerà. Ma almeno è un inizio. L’intensità dell’opposizione in Germania potrebbe minare la credibilità dell’azione. Ma almeno la Banca centrale europea si muove. Tutto ciò è molto distante da una complessiva soluzione della crisi dell’euro. Ma è un benvenuto tentativo di tenere in piedi lo spettacolo dell’Eurozona”. La penna di Wolf antepone il coraggio di Draghi ai mille caveat esterni che lo circondano. Di certo il banchiere sarà costretto a una continua ricerca di consenso esterno e interno al consiglio direttivo della Bce per rivedere il piano di acquisti in corso d’opera.

 

“Troverà più difficile espandere il programma, come hanno fatto le altre banche centrali, o ammorbidirne le condizioni. La battaglia più difficile è alle porte”, dice l’Economist consigliando a Draghi di indossare l’elmo chiodato dell’esercito prussiano con cui i giornali tedeschi lo incoronarono nel 2012, finalmente convinti della sua rettitudine.  Le frecciate tedesche restano però una minaccia costante. A Berlino, nella Bundesbank, e tra l’opinione pubblica tedesca, è diffusa la strumentale opinione che l’Eurozona non stia precipitando in una spirale deflattiva e che uno stimolo così imponente – 1.150 miliardi, pari al 10 per cento del pil dell’Eurozona, dice la banca Rbs – demotiverà gli stati dal fare riforme strutturali. Il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann – che non s’è opposto all’intervento – l’ha ribadito ieri. La Cdu, partito della cancelliera Angela Merkel, nell’immediatezza dell’annuncio di Draghi aveva deplorato i lenti governi di Francia e Italia. Da Parigi e da Roma sono arrivate rassicurazioni sulla prosecuzione delle riforme annunciate e in parte attuate: la promessa è che l’abbondante liquidità non sarà una comoda distrazione. L’operazione di Draghi è uno stimolo che senza reale impegno politico avrà effetti molto ridotti: il condottiero non può insomma essere lasciato solo a combattere la crisi dell’euro come Don Chischiotte. Appello da rivolgere anche alle banche private. Draghi, poi, dovrà già scontare un costo politico non trascurabile. Il rischio dei titoli acquistati sarà per la maggiore parte in capo alle Banche nazionali e per una minima frazione condiviso dalla Bce. La scelta incontra i desiderata tedeschi e ha importanti risvolti politici. “Quando l’euforia sarà svanita si capirà l’effetto simbolico – dice Silvia Merler, economista del think tank Bruegel, – perché l’Eurosistema è sempre stato l’unico elemento genuinamente federale in Eurozona rispetto a quello fiscale, balcanizzato. Si pone una questione: non è più così ovvio che ci sia una ferma unità monetaria”.

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