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il ritratto

Storia di Gian Marco Chiocci, reporter borderline

Marianna Rizzini

Ritratto di Giamma e del suo giornalismo d’assalto, tra scoop assassini e origliamenti maligni, in luoghi e ambienti della destra romana da combattimento

C’è un altro uomo e c’è un altro luogo, nel brogliaccio di intercettazioni e suggestioni che gira attorno alla cosiddetta Mafia Capitale. L’altro uomo ha le caratteristiche giuste per entrare nel romanzo che precede e segue l’inchiesta del pool di Pignatone: ha frequentato ambienti della destra romana, anche tangenzialmente; è in qualche modo a contatto col “mondo di mezzo”, per motivi professionali; è conosciuto di nome e per il suo lavoro nel suo ambiente, ma non è volto abituale da teleschermo; ha una camminata futurista, petto in fuori e testa alta. Può stare nel canovaccio, e se sta nel canovaccio il sospetto può attecchire in modo naturale, sotto forma di noncurante sberleffo alla romana (“anvedi ao’, c’è pure questo”) o semplicemente fino a prova contraria, per qualcosa che forse è qualcosa, ma forse è nulla. E capita che il sospetto porti a indagarlo, l’altro uomo – Gian Marco Chiocci, direttore del Tempo – per presunto favoreggiamento di Massimo Carminati, ex Nar e presunto dominus della presunta Mafia Capitale, a causa di un sempre presunto avvertimento da parte di Chiocci a Carminati, a proposito dell’inchiesta in corso su di lui, arrivato a Carminati due mesi fa, tramite Salvatore Buzzi, l’uomo delle coop solidali nel mirino degli inquirenti. La cosa suonava così: stanno indagando su di te, me l’ha detto il direttore del Tempo. Ma questo è ciò che dice Buzzi, intercettato al telefono con Carminati a ottobre, e tra verità e intercettazione c’è un mare di possibilità. Carminati è l’uomo nero della faccenda: chi lo sfiora finisce nel girone, fino a che qualcuno non lo ripeschi.

 

Non c’è certezza ufficiale sullo status di indagato di Chiocci, ma soltanto certezza ufficiosa, ché è lo lo stesso Chiocci (e non altra fonte) a dare pubblica notizia del fatto di essere indagato, sul suo giornale, in prima pagina, spiegando di essere stato informato da un collega giornalista. E accade a Roma anche questo: che l’altro uomo (Chiocci Gian Marco, per gli amici “Giamma”) e l’altro luogo (quotidiano il Tempo) diventino la sotto-storia che non quadra alle orecchie sospettose (vedi quelle di Roberto Saviano sull’Espresso), tanto più che il canovaccio, appunto, si presta: ecco comparire nella sceneggiatura il Tempo, giornale di centrodestra edito da un costruttore, in gergo detto, a Roma, “palazzinaro” (Domenico Bonifaci) – e già solo la professione, in questi giorni, è vista come la peste (anche se Bonifaci non c’entra con il caso in esame); ecco emergere, dal sottosuolo dell’inchiesta carsica, l’ex sindaco Gianni Alemanno, colui che presenta a Chiocci la “fonte” incriminata e interessata Salvatore Buzzi, ed ecco Chiocci che fa di tutto per vedere e intervistare Massimo Carminati, tramite l’avvocato di quest’ultimo, Ippolita Naso, che lo difende con il padre Giosuè (ma dopo che Chiocci incontra Carminati nello studio avvocatizio che cosa succede? Nulla: Chiocci non ottiene, alla fine, la sognata intervista al grande cattivo della Roma nera d’antan). E se il canovaccio si presta, il marcio a prescindere diventa mezza certezza (nell’articolo di Saviano il Tempo viene definito “compiacente” col “gruppo mafioso” o “clan”). Dove sia la verità importa a tratti, non sempre, ché in questa storia prevale, per ora, almeno a livello mediatico, la plausibilità, l’orecchiabilità del romanzo criminale medesimo.

 

L’altro luogo, quello che si vorrebbe crocevia un po’ per caso di ulteriori movimenti della cosiddetta Mafia Capitale, è però luogo alieno rispetto alle ormai celebri pompe di benzina di frontiera (ma a Roma nord), ai bar da appuntamento losco (ma al quartiere di Vigna Stelluti) e alle cooperative del magna-magna (ma in nome della buona causa). Né l’altro luogo ha l’aria sfatta e avveniristica dei viadotti che portano verso le vie consolari. E’ un posto di tranquilla solidità, il Tempo, persino invisibile per quanto è data per scontata la sua presenza nel palazzone a due passi dallo struscio del sabato pomeriggio, dal Parlamento e da Palazzo Chigi. L’altro luogo, il quotidiano storico del generone romano e, prima ancora, della città aperta (il Tempo è nato nel 1944, prima dell’arrivo degli americani a Roma, per volere del direttore-editore Renato Angiolillo), se ne sta seminascosto dentro Palazzo Wedekind da così tanti anni che quando passi sai che c’è anche se non lo vedi, e anche se non ricordi o non conosci la sua storia. Al Tempo scrivevano Vitaliano Brancati e Guido Piovene, Alberto Moravia ed Emilio Cecchi, e al Tempo molti correvano nei mesi dopo la Liberazione, dopo la chiusura di alcuni giornali per via del precedente collaborazionismo col regime. Ma oggi il Tempo, ex foglio da Dolce Vita (negli anni Sessanta era il giornale più venduto a Roma), è emerso a sorpresa dalle intercettazioni come nome incongruo tra il “Guercio” Carminati e la pletora di presunti complici del “Guercio”, senza evidenza di reato, in mezzo al fumo di tutto il resto. Ed è rimasto impigliato nelle maglie del “ciò che dice Buzzi” anche il suo direttore Gian Marco Chiocci, già cronista da scoop e figlio d’arte – suo padre Franco Baldo è un’istituzione del reportage estero, generazione Oriana Fallaci, e ha scritto un libro di ricordi professionali da fronti e crisi pre e post Guerra fredda: dal Vietnam, dall’Irlanda, dall’Iran e dall’India. Ed è un libro che si intitola “C’era una volta l’inviato speciale, memorie e rimpianti di un giornalismo che fu” (ed. il Cerchio), monumento al tempo in cui non ci si sentiva come si è sentito Chiocci padre al ritorno dalla guerra in Iraq, quando si è accorto che gli ascoltatori delle sue conferenze, grazie al web, ne sapevano più di lui che in Iraq c’era stato davvero. Chiocci figlio, invece, dicono i giornalisti (colleghi e non) che l’hanno visto all’opera, è in origine “un cronista d’assalto di giudiziaria, anche spregiudicato, genere Walter Matthau in ‘Prima pagina’, di quelli che per paura di essere intercettati escono dalla stanza appena squilla il telefono e richiamano da fuori e da altro numero”. Lo ricordano, i colleghi, come “l’uomo sempre in cerca di scoop, segugio dall’archivio smisurato, anche autore di un famoso salto acrobatico da un terrazzino ai tempi della sua inchiesta-feticcio, ‘Affittopoli’, con cui praticamente sfrattò Massimo D’Alema”, dice l’ex compagno di stanza al Giornale Luca Telese, a proposito dei giorni in cui Chiocci si occupava dell’inchiesta sulle case degli enti, affittate a prezzi più bassi di quelli di mercato ad esponenti del mondo politico (D’Alema lasciò l’appartamento al Portuense, venne anche lodato dai “nemici” del Giornale per questo, ma anni dopo litigò furiosamente con Alessandro Sallusti che a “Ballarò” aveva accostato il suo caso a quello di Claudio Scajola, proprietario “a sua insaputa” – la lite finì sui giornali, con D’Alema che sottolineava come non fosse possibile comparare le mele con le pere).

 

Ai tempi di Affittopoli, Chiocci, già collaboratore pluridecorato del Giornale nonostante la giovane età (per via della sfrontatezza dimostrata come segugio), veniva assunto da Vittorio Feltri grazie ai galloni ottenuti sul campo. Il compianto collega Gianni Pennacchi lo guardava con stupore: “Ma com’è che è saltato dal terrazzo, questo?”, e lui, Chiocci, insediatosi in una stanza con tre armadi per i suoi ritagli, prendeva in giro i colleghi di sinistra apostrofandoli al grido di “mo’ me tocca sta’ qqua con ’ste du’ zecche” (ex figiciotti o simpatizzanti della sinistra operaista). Erano tempi divertenti, dicono gli ex colleghi (“arrivava sempre l’ora in cui Chiocci, sfoderando la sua vena cazzona, andava al bar e risaliva con la bottiglia di vino e le tartine per l’aperitivo, appena prima della chiusura-pezzi”).

 

Pur non essendo un mondano classico, Chiocci ha avuto, spiega chi lo conosce, “un’evoluzione mondana negli ultimi anni: non è onnipresente ma in qualche salotto compare”. Due testimoni ricordano la sua festa per i cinquant’anni, l’inverno scorso: in un teatro, colonna sonora di Raffaella Carrà e Bob Sinclar (“A far l’amore comincia tu”, come nel film “La Grande bellezza”). C’era anche un gruppo di ballerine vestite da suora, forse citazione ironica dei trascorsi deliri mediatici sulle feste ad Arcore (Chiocci si era molto speso, come cronista, per rovesciare il mainstream sulle escort a Palazzo Grazioli). Ha cambiato anche modo di vestire, Chiocci, che è più volte padre e due volte marito: “Ora lo si vede vestito in borghese”, scherza un amico, mentre prima “si acconciava alla parà”, dicono al Giornale, con lupetto, pantalone simil-militare e giubbotto da  Top Gun, a differenza del suo “gemello” Massimo Malpica, con cui ha condiviso dieci anni di inchieste scomode (tipo Telekom Serbia). E Chiocci, anche nei suoi articoli, ci tiene a ricordare di essere stato molto pedinato, perquisito e intercettato. Una volta al Giornale la perquisizione durò sette ore, motivo per cui la paranoia giunse a livelli di guardia: entrati in possesso di una valigetta piena di carte importanti sull’inchiesta, ma costretti a usare l’interprete dal serbo per tradurre un voluminoso plico, Chiocci & Malpica decisero di vedersi tutte le mattine all’alba, loro due più l’interprete, a casa di un collega che apriva la porta in vestaglia (o in pigiama), si preparava per andare al lavoro, usciva e metteva a disposizione l’appartamento per la giornata (lì i cronisti si sentivano al sicuro da cimici e occhi indiscreti).

 

In anni più recenti, per la contro-inchiesta sulle escort a Palazzo Grazioli, la coppia Malpica & Chiocci si ritrovò a Bari, per giorni, senza che mai qualcuno li udisse litigare, al contrario di altre coppie di scrittori di pezzi a quattro mani (d’altronde è l’incubo degli stagisti: dover scrivere a quattro mani un articolo col collega senior, con conseguente clash di stili e soprattutto di caratteri). A Bari il “bastian contrario” Chiocci, uno che, racconta un conoscente, “è garantista pure nei casi di garantismo impossibile, vedi sui poliziotti del G8 di Genova ai tempi del processo”, fece a Malpica uno dei suoi scherzi: in uno dei grandi alberghi al centro delle indagini qualcuno della reception, per errore, aveva fatto visionare a Chiocci una stanza esclusivamente per bambini, con lettino da Sette nani e mini-poltrona, dove Chiocci si sedette immediatamente, per poi telefonare a Malpica, che era in giro per riscontri, convocandolo con il tono delle emergenze, tipico di quando uno dei due aveva trovato la conferma alla notizia con la “n” maiuscola. E però Malpica, precipitatosi, invece della notizia trovò un Chiocci seduto sulla mini-poltrona, tutto storto, una specie di gigante a Lilliput che rideva e faceva finta di lavorare al computer.

 

[**Video_box_2**]“Per uno scoop Chiocci farebbe e avrebbe fatto di tutto”, dice chi lo conosce (lui qualche giorno fa ha detto: per intervistare Carminati “mi sarei venduto anche la moglie”). Ma chissà se il profilo da cronista puro che per un’inchiesta arriva a due passi dal patto col diavolo può, nel turbinio di nomi usciti dalle intercettazioni di Buzzi, e nell’abnormità o assurdità del tutto, fare da scudo al direttore del Tempo, uno che nella sua carriera di cronista anti mainstream è stato anche autore, con Simone Di Feo, di una biografia non autorizzata dell’ex astro dei manettari Luigi De Magistris (“Il pubblico mistero”, ed. Rubbettino).

 

Dopo aver letto l’articolo di Saviano, e subito dopo l’uscita dell’intercettazione in cui Buzzi parla di lui, Chiocci si è difeso in prima persona con due articoli e una lettera aperta sul Tempo, spiegando quando e perché ha incontrato il capo della coop 29 giugno: me l’ha presentato Gianni Alemanno, ha scritto, descrivendomelo come uomo delle coop e della sinistra che aveva delle carte interessanti da farmi vedere. Il Tempo si è molto occupato di scandali legati ai centri d’accoglienza e ai campi rom, ha scritto.  E quel Buzzi “anche simpatico”, è la versione di Chiocci, “mi ha portato carte che ho fatto verificare”. Trattavasi di un ricorso al Tar fatto da una cooperativa concorrente del Consorzio Eriches 29 di Buzzi, il quale nel frattempo aveva ottenuto un appalto per un centro-accoglienza a Castelnuovo di Porto, il “Cara” (per cercare appoggi in vista dello sbarco a Castelnuovo di Porto, Buzzi aveva fatto di tutto per incontrare Gianni Letta e il prefetto Giuseppe Pecoraro). Il ricorso al Tar dell’altra cooperativa (una coop francese) era stato poi accolto dal giudice Linda Sandulli e Buzzi, informato da qualcuno, aveva detto a Chiocci e ad altri (al telefono) che il giudice era in conflitto di interessi perché suo marito aveva indirettamente legami con una delle coop escluse – e la circostanza sarà poi oggetto di un pezzo sul Tempo. “Dopo verifiche”, ha scritto Chiocci, il Tempo ha pubblicato sul caso del “Cara” un articolo che il Ros definisce “caratterizzato da un approccio critico alle ragioni che l’azienda francese intendeva far valere in sede giudiziale” (secondo Chiocci il Ros “scagiona” indirettamente il Tempo). Con Buzzi intrattenevo un rapporto cronista-fonte, ha detto il direttore del Tempo in risposta a Saviano che ci ha visto immediamente il clan (tra notizie vere e fanfaronate, Buzzi aveva promesso a Chiocci anche un’intervista, poi realizzata, a Pino Pelosi, condannato per l’assassinio di Pier Paolo Pasolini e oggi lavoratore nella cooperativa 29 giugno di Buzzi).

 

Ma questi fatti restano al di qua della suggestione, alimentata con immagini da film: ecco, in un frame dell’indagine, il giovane avvocato Ippolita Naso che esce dal Tempo con un “voluminoso volume” tra le braccia (un libro dell’ex capitano SS Erich Priebke, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine e morto nel 2013). Il libro, ha confermato il Tempo, era stato davvero prestato a Chiocci dall’avvocato Naso (già difensore di Priebke con il team dello studio paterno). Poi un giorno l’avvocato era venuta a riprenderselo, il libro, e in quell’occasione Chiocci, come faceva saltuariamente e da tempo, aveva insistito per chiedere la sua intercessione per l’incontro con l’ex Nar Massimo Carminati, dei cui giri romani altri colleghi (come Lirio Abbate sull’Espresso) si erano occupati. Ma l’incontro, come si è visto, non sfocerà mai in intervista. Chiocci dice: “Niente di più, niente di meno”. E gli altri?

 

Gli altri dipende: qualcuno fa due più due (“eh ma questo Chiocci viene da una famiglia della destra romana”). Qualcuno dice: “Boiate, Chiocci non è mai stato un militante, non è fedele a nessuno di quel mondo, al massimo si è iscritto alle associazioni della galassia radicale, da libertario”. “Si circondava di cimeli da oleografia post-fascista, ma per ridere”, dice Telese (vari testimoni riferiscono in effetti di un busto di Mussolini vagolante per la redazione del Giornale, quando Chiocci era al Giornale, e di un poster di Gianfranco Fini con sopra scritto “traditore”, poster che non doveva tanto testimoniare l’opposizione di Chiocci alla svolta di Fiuggi, con l’ex Msi che diventava An, quanto ricordare l’altra sua inchiesta feticcio, quella sulla “casa di Monte Carlo”, ereditata da An come partito e poi venduta in circostanze poco chiare al cognato di Fini (completano il quadro dei poster redazionali il duo Maurizio Gasparri e Vladimir Luxuria). Di lavoro Chiocci ha fatto sempre il giornalista, anche se nel giorno del suo insediamento al Tempo, il 5 settembre 2013, presente Gianni Letta, amico di famiglia ed ex direttore storico della testata, ha scritto che sì, veniva al Tempo con suo padre quando ancora i figli dei cronisti scendevano in tipografia e se erano buoni ricevevano in regalo il proprio nome scritto con il piombo, ma a quei tempi Chiocci junior voleva fare tutt’altro: “L’astronauta e il calciatore”.

 

“Ero nell’esercizio della mia professione”, ha detto Chiocci all’indomani dell’uscita dell’intercettazione incriminata. Gli incontri con Buzzi, dice, erano legittimi. Ma sospetti lo sono diventati, quegli incontri, di quella sospettabilità scivolosa e ondivaga che caratterizza i presunti atti di complicità con la cosiddetta Mafia Capitale: perché a un certo punto tutto può essere e tutto può non essere. Ci sono quelle parole di Buzzi a Carminati, a metà ottobre: l’ho saputo dal direttore del Tempo. E qui si apre un altro fronte nel mondo giornalistico, dove in molti si sono domandati se il “parlare al telefono come si fa di solito – e se c’è un’inchiesta chi segue la giudiziaria di solito qualcosa sa – possa diventare a un certo punto ipotesi di reato”. O se possa diventare reato “una occasionale leggerezza con la fonte”, seppure insolita in chi è stato cronista attentissimo. “Chissà cosa succederebbe se indagassero la mia o la tua principale fonte di notizie sulla Rai, sul Pd, su Forza Italia o sul comune di Roma”, hanno detto cronisti anche non conoscenti di Chiocci, interpellati sull’argomento, improvvisamente sospettosi verso il proprio cellulare: conterrà, tra i suoi mille numeri, qualche fonte abituale ma in futuro sospetta? Poi c’è quell’espressione usata dai carabinieri del Ros, secondo i quali Buzzi intratteneva costanti rapporti con Chiocci in virtù di “reciproci interessi”. Anche in questo caso ci si interroga: sarà “reciproco interesse” far uscire una notizia che è una notizia rispetto alla linea del mio giornale, ma che è anche indirettamente utile, una volta uscita, a una fonte abituale di notizie? Sarà “reciproco interesse” pubblicare una mezza notizia di cui non ti importa nulla per poter avere la notizia vera successivamente? (Il tema è buono per un corso di deontologia e aggiornamento obbligatorio per giornalisti, dannazione di fine anno). Il resto è romanzo, e supposizione: “Che Carminati fosse nel mirino degli inquirenti, a Roma lo si sapeva da tempo”, dice un cronista che ricorda le telecamere dei principali talk show sotto casa di Carminati a Sacrofano, fin dall’inizio dell’autunno. “Potevano averlo avvertito tutti, nessuno e centomila”, dice. Però è capitato al Tempo e a Gian Marco Chiocci, di finire nel maelstrom dell’inchiesta del pool di Pignatone, e quando è capitato Chiocci ha scritto in prima pagina: “Cari lettori, sono indagato anch’io”, non si sa se rimpiangendo i giorni difficili delle sue inchieste scomode, in cui lui e suo padre Franco Baldo furono intercettati mentre parlavano di vendemmie e olio (hanno una casa in campagna), e qualche solerte investigatore ci vide – eccesso di zelo? – una serie di nomi in codice per strani e oscuri disegni criminosi.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.