Alessandro Florenzi ha debuttato in serie A il 22 maggio 2011, entrando in campo al posto di Francesco Totti (foto LaPresse)

Er bello de nonna

Giovanni Battistuzzi

Non solo quel bacio in tribuna. Come Alessandro Florenzi, bravo ragazzo di Acilia, è entrato nel cuore dei tifosi giallorossi. Romano, cresciuto a Trigoria all’ombra di Totti e De Rossi, ma a differenza loro mai considerato un predestinato

Fosse colore, giallo-rosso, anzi oro e porpora, fosse film, “Il maratoneta”, fosse musica, “La cavalcata delle valchirie”, fosse animale, lupo, anzi lupacchiotto, per passato e passione, o meglio camaleonte, che è meno banale e descrive meglio il soggetto. La storia è simile ad altre, ma proprio per questo inusuale, almeno nel calcio moderno, quello delle valigie sempre pronte e dei giocatori che seguono le leggi del mercato più che quelle della maglia. Ma non qui, non a Roma, dove permane ancora un minimo di senso romantico, di pazzia generalizzata, di confusione e cortocircuito del normale e del quotidiano. E così piccoli pupetti crescono affianco al simbolo di questa piazza, che di nome fa Francesco, di cognome Totti e di professione ottavo re di Roma, oltre a numero dieci e capitano. Il protagonista è Alessandro Florenzi, che uomo nuovo non è del tutto, che al pallone ci gioca da sempre, che alla Roma pure, ma che continua a bruciare tappe e a scalare posizioni nel cuore dei tifosi. E qui la corsa sulla scalinata per “bacia’ nonna” non c’entra, la sostanza è altro.

 

Ale avanza alle spalle del Pupone e di Daniele De Rossi, da ormai una vita Capitan Futuro, nonostante l’età non sia più quella di un regazzino, i 30 anni superati e le stagioni in giallorosso, 14. Dei due illustri predecessori ha la cittadinanza, romana, il pedigree, le giovanili della Roma, e la fede, giallorossa, da sempre, senza possibilità di equivoco e di discussione. Ma Alessandro a differenza dei suoi due capitani la fedina giallorossa immacolata non ce l’ha, perché se non hai l’etichetta del predestinato, almeno un anno in prestito ti tocca farlo. Lui l’ha passato a Crotone, per provare a far capire a tutto l’ambiente la sua voglia di Roma e il suo talento. Perché Florenzi è uno che tutti dicevano, “sì è bravo”, ma che in pochi pronosticavano potesse far la differenza in serie A. Nelle giovanili, al suo fianco, brillava Federico Viviani, Capitan futurissimo almeno per soprannome, talento puro, “cristallino” scrivevano ai tempi del debutto in serie A – stagione 2011-2012 – ma smarritosi, temporaneamente, in campi di provincia. Di Florenzi dicevano che correva, che col pallone ci sapeva fare, ma che non era né carne né pesce, solito problema di chi sa giocare ovunque e che proprio per questo non trova una sua precisa collocazione in campo, sballottato tra zone centrali e corsie esterne, tra compiti offensivi e di interdizione.

 

Florenzi titolare, ma non sempre, panchinaro, ma non troppo, utile a colmare defezioni e turnover, ma indispensabile quando c’è da unire qualità, quantità e velocità. Capace soprattutto di trovare una nicchia nel cuore dei tifosi. “Perché se lo vedi giocare lo capisci subito che è come noi”, sottolinea Stefano che di professione è pizzaiolo a Garbatella, ma che nella vita è soprattutto tifoso della Magica. “I tifosi lo percepiscono subito quando il cuore che batte nel petto di un giocatore è veramente giallorosso. E’ per questo che ad Ale gli vogliamo bene. Certo non ancora a livello di Totti e De Rossi, ma per arrivare al loro livello ci vuole tempo, loro sono bandiere, valori insostituibili”.

 

Florenzi còre de Roma, cresciuto ad Acilia, prima, e a Trigoria, poi, romano e romanista, tifoso prima che giocatore. “Se nun sei de Roma nun poi capi’ che significa”, dice Angelo che gestisce uno dei tanti bar dove “la domenica nun c’è altro che la Magica e la Magica la si vede ar bar, cogli amici, tutti assieme, perché ‘a Roma è ‘na famija e ce fa canta’, gioi’ e piagne tutti in coro”. Florenzi che è “‘na fortuna pe’ sta squadra, tanto che quanno so’ uscite ‘ste fregnacce che Garcia lo voleva fa’ anna’ via nun ce volevo crede. E ho fatto bene a nun crederce, perché erano tutte fregnacce. Ale è un pischello serio, uno che è cresciuto a pane e Roma. E a noi tifosi ce basta questo. E poi sa gioca’ ovunque, che vòi deppiù”.

 

 

Florenzi che è ancor Ale e basta, perché per i tifosi un soprannome vero ancora non ce l’ha. Una mancanza che non è segno di poca stima, ma un attestato di familiarità, vicinanza all’ambiente. Qualcosa però è in cantiere e il vuoto alla casella nomignoli potrebbe essere colmato da “l’Elfo giallorosso”. Per ora un’idea, saranno il tempo e i tifosi a decretarne il successo. Al battesimo ci ha pensato The Pills, “collettivo d’autori comici romani”, almeno per autodefinizione sulla pagina YouTube, che ha trovato notorietà grazie a una serie di sketch diffusi sulla piattaforma web di video sharing e che ha ospitato il calciatore in tre episodi realizzati per lanciare l’ultimo modello della PlayStation. “Il soprannome è nato casualmente, non ci abbiamo pensato, è uscito così, mentre si girava e si parlava di videogiochi di ruolo”, dice Luigi Di Capua, uno degli ideatori – assieme a Luca Vecchi e Matteo Corradini – della serie.

 

 

Se il soprannome è questione sospesa, quello che è già arrivato al popolo giallorosso è il suo spirito: “Spacca di brutto. E’ tranquillo, non sembra nemmeno un calciatore. E’ pensiero comune pensare ai giocatori come inarrivabili, chiusi nei loro templi, ma lui è tutt’altro, uno alla mano, uno che quando vede un nostro video ci scrive: ‘che tajo che era’, oppure ‘era meglio quello prima’. E’ spontaneo, senza sovrastrutture, sveglio, alle cose ci arriva subito. Per girare c’abbiamo messo un attimo, perché ha capito subito lo spirito, cosa doveva fare e come doveva farlo. C’ha stupito”, aggiunge. In campo invece “è come vedere un bambino al parco, nonostante sia in serie A gioca con la stessa passione, come fosse solo un gioco, senza ansia, senza timori”.

 

 

L’Elfo ha capito subito anche come funzionano le cose nel calcio che conta. Anni di giovanili, un campionato Primavera vinto, il debutto in A il 22 maggio 2011 subentrando a Totti, poi un anno in prestito a Crotone, a fare anche il terzino desto se c’era necessità. Dodici mesi dopo il ritorno a Roma, riscattato dai calabresi per 1,2 milioni e minimo sindacale in busta paga. E’ l’anno del ritorno di Zeman, quello del sogno del calcio spettacolo, evaporato poi in un’ecatombe di risultati. Prima dell’inizio del campionato è uno dei tanti, un giovanotto che ancora, almeno nella massima serie, non ha dimostrato niente. Giovane, ma dalle idee chiare: “Non penso a giocare, ma a onorare la maglia”, dice in estate intervistato dal Romanista. Detto, fatto. Per Zeman da uno dei tanti diventa Florenzi, per Aurelio Andreazzoli, che sostituì l’allenatore ceco dopo il 4-2 in casa col Cagliari, anche. 36 partite su 38, non sempre titolare, ma valore aggiunto a una squadra che fatica e delude: non male per uno che ad agosto sarebbe potuto partire per un’altra stagione in prestito in serie B. Nelle prime settimane di ritiro il boemo lo scruta, lo studia, blocca le trattative: resta qui. Zeman ne apprezza la corsa, lo spirito di sacrificio, la grinta e la qualità che riesce a distribuire a cento all’ora. Centrale di centrocampo di quantità e inserimento, esterno offensivo quando serve, pressing difensivo e sgroppate verso l’area avversaria. Un motorino inesauribile: “Siamo pagati per correre e non dobbiamo crearci problemi per questo”, risponde ai microfoni di Sky dopo essere stato interrogato sui carichi di allenamento di Zeman, “io lo faccio volentieri”.

 

Abnegazione. Prima regola e primo comandamento. In allenamento marcia forte, in partita dà tutto e dopo aver convinto Zeman e Andreazzoli, l’anno scorso convince pure Rudy Garcia che in estate aveva a più riprese fatto notare la mancanza di un centrocampista. Pjanic-De Rossi-Strootman in mediana, Gervinho-Totti-Ljajic in avanti, lo schema tattico nella testa dell’allenatore francese. Ma se la formazione titolare alla vigilia diceva questo, il campo parlava d’altro e nella stagione giallorossa il più presente, almeno per numero di partite alla fine è stato il numero 24, Alessandro Florenzi: 37 gettoni su 38, oltre 2.000 minuti giocati. Per Garcia diviene imprescindibile, titolare o subentrato non conta, in campo lui c’è sempre, sarà perché può giocare sia a centrocampo sia in attacco, sarà perché si trova a suo agio sia sulla fascia destra sia su quella sinistra, sarà perché il serbo ex Fiorentina si è dimostrato giocatore a metà, talento cristallino, ma troppo timido nel rettangolo di gioco e incapace di trovare una sua dimensione, sarà perché soprattutto Florenzi in campo non ci butta solo i polmoni, ma tutto se stesso.

 

[**Video_box_2**]Calciatore moderno e antico allo stesso tempo, figlio di un calcio di continuo movimento, che cura il fisico più che la tecnica, che, almeno a livello europeo, gioca a velocità impensabile sino a qualche anno fa. Pressing e ripartenze, intensità e giocate a gas completamente aperto. Modernissimo in questo, “vintage” per altro, per spirito e capacità di stare in campo. Discendente di una stirpe di giocatori come ormai non ne fanno più, gente da tutto campo, da qualsiasi posizione, da dove li metti stanno e stanno bene. Romano di nascita, olandese di discendenza, figlio di un modo di giocare fatto di sacrificio ed estrema duttilità, ricerca dello spazio e assalto alle zone libere, di calci presi e dati. Quello dell’Ajax e della Nazionale oranje dove tutti attaccavano e tutti difendevano e i giocatori si muovevano all’unisono ed erano in grado di coprire quasi tutte le posizioni dello schieramento. Neeskens il prototipo, il modello, il centrocampista più completo che la storia del pallone ricordi, l’esemplare purosangue di un non ruolo che nel predominio dei moduli sigla, 3-5-2, 4-3-3 o 4-2-3-1 che sia, si è perso. Giocatore ovunque, abile a interdire l’azione avversaria, a fare ripartire la squadra, ad aggredire gli spazi, a concludere e segnare. L’olandese mostro sacro inarrivabile, altri i padri putativi di Florenzi. Uno è Junior, brasiliano, una vita al Flamengo ad applaudire Zico e servirgli palloni, poi Torino e ancora Flamengo, il tutto tra anni Settanta e Ottanta. Terzino in origine, centrocampista eccellente, ala a chiamata. Veloce e intelligente, dotato di piedi delicati e potenti, letali molte volte su punizione. Infine Alberigo Evani, anche lui nato terzino, trasformato in esterno, ma impiegato spesso e volentieri anche da centrale in mezzo al campo di quel Milan che a cavallo tra anni Ottanta e Novanta vinse tutto. Di Chicco, Arrigo Sacchi era innamorato: ne rappresentava in pieno lo spirito, il gioco, l’idea di calcio. Ma è Arie Haan l’archetipo dell’Elfo giallorosso. Faccia da cattivo, fama di duro perché non tirava via la gamba e perché nell’Ajax dei fenomeni degli anni Settanta era quello più umano, ma giocatore inesauribile, bravo con entrambi i piedi, un moto perpetuo che dalle zone centrali del campo spesso migrava in quelle esterne con naturalezza estrema, come se per lui il calcio non fosse altro che una partita con dei ragazzini appena conosciuti ed era quindi doveroso adattarsi a ricoprire gli spazi vacanti.

 

 

Giocatori senza fissa dimora sul rettangolo di gioco, abituati a correre in lungo e in largo, a ricercare posizioni, spazi, minuti. Essenziali, di cuore, sacrificio e movimenti. Potevano essere titolari o comparse, comunque imprescindibili nel corso di una stagione. Non uomini copertina, ma adorati dagli allenatori che a loro si aggrappavano quando i campioni si prendevano pause e tempi di riflessione.

 

Florenzi un po’ Tardelli e un po’ Marchisio, come il primo a tutto campo, come il secondo letale negli inserimenti senza palla, ma soprattutto senza ruolo preciso, senza posto assicurato, senza tutele di posizionamento. Eppure insostituibile. E chi se ne frega del posto fisso, del contratto garantito per fare sempre la medesima cosa, se l’alternativa è giocare ovunque, se si può essere un giorno 8, l’altro 11, l’altro ancora 7. Un po’ Aquilani, tanto ora si può dirlo, “il rancore è passato, il tradimento c’è stato, ma la colpa non è di Alberto: servivano soldi e hanno fatto cassa vendendolo. Ovviamente quando ritorna all’Olimpico non è che lo applaudiamo, ma nemmeno gli facciamo trovare un muro di fischi”, sottolinea Stefano dietro al banco della sua pizzeria.

 

Florenzi è giocatore, certo, ma soprattutto maglia, cuore, colore giallorosso e inno “Grazie Roma”. Uno che pur di giocare “spende tutto, anche troppo in fretta, corre talmente tanto che dopo un’ora è già spompato”. Pazienza, perché “è sempre ovunque, per un allenatore una manna dal cielo”, sia questo reale o virtuale. Manlio è di Roma, di professione fa il programmatore part time e nell’altra mezza giornata recensisce videogiochi per due riviste e tre siti internet. Poliglotta, due lauree, una in Ingegneria informatica, l’altra in Chimica, una passione spropositata per la Roma, “vado in Curva da quando avevo 15 anni”, per i videogame e soprattutto per Football Manager – il gioco manageriale di calcio più venduto e più attendibile al mondo, tanto che diverse squadre professionistiche, prima di tutte l’Everton, lo consultano annualmente, fonte imprescindibile per lo scouting reale – nel quale si è specializzato a tal punto da entrare nella top cinque europea della versione online per quasi un anno. “La mia squadra non può prescindere da Florenzi. Magari molte volte non partiva da titolare, perché davanti a lui c’erano giocatori più bravi, almeno a vedere le statistiche, ma a ogni campionato finiva sempre che Alessandro era quello che aveva giocato più partite. Non avrei vinto quello che ho vinto senza di lui”. 

 

“E che je voi di’ a uno come Florenzi? E’ uno che ama ‘sta maja, uno de còre. Nun è un fenomeno, è uno che se fa er culo, ma è bravo, na roccia de quelle bbòne”. Florenzi “o vedi che con la maglia giallorossa c’è nato”, che questa maglia l’ha prima sognata, poi indossata, infine meritata a polmoni e sudore. Ermanno ha 66 anni, abita a Trigoria e al centro sportivo della Roma ci è andato spesso, prima da giovanissimo a giocare, poi a portare suo figlio, “troppo pigro pe’ fa’ carriera”, e ora il nipote, “che promette bene e c’ha ’n ber destro, ma che è mejo che studi che ner calcio ce vole tanta fortuna”. Un tempo mediano “dal tanto fiato e dalla poca classe”, “tre anni nelle giovanili della Magica, due anni a Frosinone e dieci a spasso tra Caserta, Benevento, Lecce e Ancona”. Comunque romanista da sempre, un tatuaggio col lupacchiotto sulla spalla, una passione che oltre all’Olimpico lo portava a guardarsi pure la Primavera e le giovanili: “So’ malato de Roma, sta squadra me fa impazzi’ e da quanno me ne so’ annato in pensione me guardo tutto”. Come le finali del torneo Primavera del 2010-2011. “Bella squadra quella lì. L’allenava De Rossi, Alberto, er padre, e pensa che Florenzi era sì capitano, ma nun era er più forte. Ce sapeva fa’ certo, ma altri erano quelli che avresti detto che avrebbero fatto strada. C’erano Montini, che de gol ne faceva a grappoli, Antei, che in difesa le prendeva tutte, Viviani, che a centrocampo ce dava e molto e Verre, uno che coi piedi dava der tu ar pallone”. E infine Alessandro, “che però ha fatto più strada di tutti, perché è quello che c’aveva più còre. E quanno er còre pompa pe’ davero sangue giallorosso e giochi all’Olimpico c’a maja giusta, allora poi esse capace de tutto”.

Di più su questi argomenti: