Rivoluzione sanitaria. “Siamo sull’orlo del precipizio: ognuno di voi vada a casa e pensi a come rimettere in piedi la situazione”, disse Giuseppe Rotelli all’inizio del salvataggio (11 maggio 2012)

Manifesto San Raffaele

Alberto Brambilla

Il rilancio dell’ospedale milanese, sotto la regia dei Rotelli boys, è l’esempio di com’è possibile falciare sprechi e inefficienze investendo nella salute dei cittadini. Dal quasi fallimento al quasi pareggio. Il “buco” di don Verzé è stato riparato: le perdite si sono ridotte da 65 a 2 milioni di euro.

Roma. Il rilancio dell’ospedale San Raffaele di Milano è la storia di come sia possibile ridurre drasticamente gli sprechi e le inefficienze nella Sanità senza per questo umiliare le maestranze, azzoppare la ricerca scientifica o mutilare le prestazioni cliniche e lasciare dunque intatta la qualità del servizio offerto ai clienti/cittadini, o ambire a migliorarla. E’ l’esempio di come nella Sanità, in questo caso privata-convenzionata con il pubblico – ma la stessa cosa si potrebbe realizzare nella Sanità pubblica – si possano applicare criteri di efficienza economica, discernere tra spesa buona e cattiva. Di come anche in un settore per sua natura esposto all’aggressione parassitaria di interessi particolari, tanto estesi quanto è complessa la macchina ospedaliera, coi suoi eterogenei fattori di produzione, sia in ultima istanza salutare “assetare il cavallo” affinché cominci a bere davvero. Ecco come i manager del San Raffaele, discepoli dello scomparso imprenditore della Sanità, il professore Giuseppe Rotelli, hanno risollevato l’ospedale lombardo, portandolo dall’anticamera del fallimento a sfiorare il pareggio di bilancio in pochi anni, fino a quasi azzerare le perdite accumulate.

 

Per capire la portata della rivoluzione basta un confronto: a fine 2011 il San Raffaele era gravato da oltre un miliardo di debiti e soffriva perdite annue per 65 milioni di euro, retaggio della gestione allegra di don Luigi Verzé, fondatore dell’ospedale e principale artefice, anche, del suo dissesto. A fine 2013, dopo un anno e mezzo di cura Rotelli, il pareggio di bilancio sarebbe stato raggiunto, se non fosse stato per il taglio dei finanziamenti pubblici  piovuto all’indomani del cambio di gestione che ha pesato per 36 milioni di euro. Non solo. Stando agli ultimi dati semestrali (gennaio-giugno di quest’anno), comunicati ai vertici di recente, le perdite si sono ridotte a poco meno di due milioni di euro annui (dai 65 ereditati).

 

Eppure le parole con cui Rotelli, scomparso nel giugno dell’anno scorso, inaugurò il nuovo corso non erano confortanti, ma schiette e trasparenti come la personalità specchiata dell’uomo: “Siamo sull’orlo del precipizio: stasera ognuno di voi vada a casa e pensi a come rimettere in piedi la situazione”, disse davanti a tutto il personale dell’ospedale l’11 maggio 2012 quando prese ufficialmente il via l’operazione di salvataggio. La Velca, finanziaria della famiglia Rotelli, quel giorno concluse l’acquisto del capitale sociale del San Raffaele. Se l’era aggiudicato in sede d’asta giudiziaria per 405 milioni battendo il ticket composto dallo Ior, la banca del Vaticano, e dagli imprenditori genovesi Malacalza che stavano di fatto tentando la scalata ma, alla fine, non presentarono alcuna controfferta formale (al di là della proposta ventilata di rilevare la struttura per soli 200 milioni). Così il San Raffaele è diventato il 18esimo istituto dell’impero Rotelli, che va sotto il nome di Gruppo Ospedaliero San Donato, conta 5.039 posti letto e macina un fatturato da 1,4 miliardi di euro l’anno. I manager e i dirigenti hanno cominciato da subito a tradurre in pratica le idee rimuginate quella sera. L’amministratore delegato del San Raffaele, Nicola Bedin, classe ’77, trevigiano laureato all’Università Bocconi e pescato tra le fila di Mediobanca da Rotelli stesso quando aveva 28 anni, comincia con lo spedire una lettera ai dipendenti. Prognosi riservata per l’ospedale: la necessità è di iniziare a ridurre i costi, quelli per il personale amministrativo vengono decurtati da subito del 20 per cento. Agli altri, invece, è riservata una scelta a dir poco coercitiva: o il taglio del 9 per cento del salario o l’avvio della procedura di licenziamento collettivo per 224 dipendenti del comparto. Quella di Bedin, vista oggi, appare una tattica bellica cui però sottende una strategia più sottile. Viene facile il parallelo avanzato da Bedin stesso quando, ricordando Rotelli, ha descritto il suo “maestro” come un uomo audace nel senso spiegato dal generale e filosofo prussiano delle guerre napoleoniche, Carl von Clausewitz. Rotelli era animato da “un’audacia accompagnata dal giudizio ponderato”, giacché “tanto più il comando è elevato, tanto più cresce la responsabilità della conservazione degli altri e del benessere collettivo”. Solo questa miscela rende l’audacia “una forza veramente creatrice”, diceva il generale raccontato da Bedin, sia che sia alla testa di un battaglione o alla guida di un impero finanziario. Dopo l’annuncio dei tagli, i dipendenti del San Raffaele protestarono a lungo, tra blocchi stradali e ascese sui tetti. La vertenza sindacale si è esaurita solo otto mesi più tardi, dopo due referendum e tre tavoli al ministero del Lavoro dagli esiti negativi.

 

[**Video_box_2**]L’esigenza del management non era soltanto quella di chiudere definitivamente con la dispendiosa gestione Verzé, che si riverberava pure sui compensi, ma anche quella di fare fronte ai tagli dei finanziamenti pubblici, decisi dal governo Monti, che avevano peggiorato una situazione già critica di per sé. Così per il venir meno di queste risorse si è reso indispensabile anche ridimensionare in parte la retribuzione dei dipendenti, attraverso la riduzione di una parte delle componenti economiche extra (premi, superminimi, e altri benefit che prima erano stati concessi pur non potendone garantire la copertura economica), senza intaccare la paga base. Il risultato è che gli stipendi sono stati tagliati del 9 per cento in media ma nessuno è stato licenziato, e anzi nel corso del 2014 l’azienda ha proposto ai sindacati di ridurre la decurtazione delle retribuzioni nella misura del 15 per cento circa del taglio prima subito; pari in taluni casi a oltre 100 euro al mese in più in busta paga rispetto alla situazione precedente. Ad oggi non c’è accordo sindacale sulle modalità del recupero.

 

Altro fronte da intaccare era quello dei costi delle forniture e dei servizi, un universo di appalti che servì alla precedente gestione per alimentare un meccanismo clientelare verso alcuni – selezionati – fornitori. Un canovaccio che si ripete pure nella Sanità pubblica, dove i meccanismi corruttivi e gli sprechi pesano per 23 miliardi su una spesa sanitaria annua di 110 miliardi, dice l’associazione Transparency International Italia. Il primo intervento, cominciato immediatamente con la nuova gestione, ha riguardato la rinegoziazione delle condizioni economiche del materiale di consumo per le forniture biomedicali – dalle garze fino alla riduzione della gamma di strumenti più ricercati come le canule chirurgiche o gli stent – che ha portato risparmi complessivi che vanno dal 10 al 20 per cento. Un intervento robusto è stato realizzato anche sui servizi in appalto, come quelli alberghieri (pulizie, mensa, cambio lenzuola) attraverso una verifica dei capitolati (clausole dei contratti di appalto) e la rinegoziazione delle condizioni di fornitura: manovre che hanno condotto a risparmi che vanno dal 10 al 35 per cento circa.

 

La stragrande maggioranza dei fornitori ha accettato l’accordo e nessuno è fallito (anche perché, in sede di concordato, avevano ricevuto il 75 per cento dei crediti vantati nei confronti della gestione Verzé). I risparmi complessivi, tra personale e forniture, ammontano a 10 milioni di euro, quasi un sesto delle perdite ereditate all’epoca dell’acquisizione. Ciò ha consentito di salvare l’azienda senza esuberi e mantenendo gli impegni di pagamento verso dipendenti e fornitori. Il tutto senza intaccare né il livello dei servizi offerti alla clientela né quello della ricerca scientifica del San Raffaele, già centro d’avanguardia in Italia. Nel 2013 si sono registrati valori record di produttività scientifica (l’impact factor, il numero medio di citazioni ricevute sulle riviste scientifiche specializzate, è cresciuto dell’8 per cento) e di approvazione di bandi ministeriali per progetti di ricerca (sono stati assegnati 46 progetti). Non hanno stupito, dunque, le graduatorie dell’Agenzia per i servizi sanitari delle regioni (Agenas) pubblicati nell’ottobre scorso: il San Raffaele risultava il primo ospedale italiano per standard della struttura assitenziale, quando si parla di interventi particolari come l’aneorisma dell’aorta, o quello con il più basso tasso di mortalità post-operatoria, dopo interventi di cardiochirurgia o asportazione del cancro allo stomaco e al polmone. “Non mi sorprende”, disse in quel frangente Gabriele Pelissero, presidente del cda del San Raffaele – il vicepresidente è il figlio di Rotelli, Paolo – nonché responsabile scientifico del Gruppo San Donato da trent’anni e una delle persone più vicine a Rotelli. “Il San Raffaele – aggiunse in una rara intervista al Giorno, giacché la riservatezza è una delle cifre dell’epopea di Rotelli e di tutti i suoi manager – è al top non solo in Italia ma anche in Europa ed è in grado di confrontarsi con le principali realtà ospedaliere del mondo”. Tuttavia “non abbiamo completato l’opera” anche se “il futuro promette molto bene”, disse. A febbraio il San Raffaele ha annunciato investimenti per 40 milioni di euro spalmati sui prossimi tre anni, con alcuni interventi già conclusi e altri in via di esecuzione o di progettazione. A marzo ha ricevuto l’incarico da parte del governo algerino di costruire e gestire il nuovo Policlinico universitario di Algeri, la più importante struttura sanitaria del paese con 700 posti letto. Una commessa superiore al miliardo di euro, scriveva il Sole 24 Ore.

 

[**Video_box_2**]Diversi osservatori considerano istruttiva la vicenda del San Raffaele, mentre il governo guidato da Matteo Renzi pretende di abbattere le inefficienze della Sanità pubblica e utilizzare i risparmi per investire. Nel contesto dell’opera di revisione della spesa statale, Renzi sta incontrando resistenze enormi, come accade a chi tenta di intaccare il moloch rappresentato dalle strutture dirigenziali delle Asl, dai sindacati e dalle regioni. Di recente i governatori di più regioni hanno opposto un muro di critiche all’idea (peraltro ufficialmente smentita dall’esecutivo) di tagliare del 3 per cento i finanziamenti al Servizio sanitario nazionale che ammonta a poco meno di 337 miliardi di euro nel prossimo triennio. In interviste dai toni allarmistici, più governatori hanno affermato che con meno risorse a disposizione si arriverebbe al deterioramento dei servizi, alla chiusura degli ospedali. Come se con meno soldi i cittadini venissero, per certo, lasciati senza cure. La realtà smentisce tali affermazioni: se a una maggiore spesa corrispondessero realmente migliori prestazioni, allora nelle regioni commissariate per eccessivo deficit sanitario – Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio e Molise – avremmo un’assistenza impeccabile, ma non è così. E il caso del San Raffaele dimostra il contrario: rimuovendo le inefficienze e gli sprechi è possibile ribaltare una situazione disperata e migliorarla. Certo, con le giuste scelte manageriali e la volontà di incidere, con audacia, dove c’è grasso che cola. D’altronde per anni i governatori di centrodestra e di centrosinistra hanno prodotto una difesa trasversale e corporativa pur di non aggredire, e risolvere, una serie inefficienze attorno alla quali ruotano gli interessi di una moltitudine di attori: dai fornitori che non vorrebbero essere scontentati, ai potentati politici che nominano il personale di vertice delle strutture ospedaliere e usano la Sanità per accumulare consenso; e la salute passa in secondo piano. Il premier Renzi ha esortato le Regioni “a spendere bene” ma è dalla penna di un suo amico fraterno, nonché consulente del premier stesso, Marco Carrai, che è arrivata la benedizione al “modello San Raffaele”. Carrai ha fatto qualche calcolo per capire cosa significherebbe replicare il “modello” su scala nazionale. “Se questo istituto fosse preso come benchmark per la regione Lombardia vi sarebbero risparmi per il settore di 1,8 miliardi annui. Considerando che la Lombardia rappresenta il 9 per cento del settore in Italia, i conti sarebbero presto fatti”, ha scritto Carrai in qualità di presidente della società di consulenza Cambridge Management Consulting Labs su MF/Milano Finanza del 13 settembre nell’articolo “Tre rimedi per superare gli ostacoli alla crescita”. A completare i calcoli ci ha pensato l’editore di MF, Paolo Panerai, sullo stesso numero citando “l’indagine” di Carrai. Se la Lombardia rappresenta il 9 per cento della Sanità nazionale, per farsi un’idea basterebbe moltiplicare 1,8 miliardi per 10 – 18 miliardi di risparmi – e “se poi si tiene conto che molte altre regioni sono molto più inefficienti e costose, la cifra potrebbe arrivare a 30 miliardi”. Il tutto “senza togliere niente agli assistiti”. Appunto.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.