“Il Papa presente è una mediocrità. Non è capace di levarsi a grandi altezze”, disse di Benedetto XV (Papa dal 1914 al 1922) il segretario della legazione britannica a Roma, J. D. Gregory

Un Papa mai amato

Matteo Matzuzzi

Cent’anni fa Benedetto XV salì sul Soglio di Pietro. Inascoltato sulla guerra e criticato in chiesa. Ma il suo fu un pontificato profetico. Ricordò agli ordini missionari che il loro compito era di imparare le lingue locali, formare un clero e poi andarsene. Se li inimicò tutti.

Non aveva nulla del physique du rôle dei predecessori. Gracile, affetto da una forte miopia, di statura assai basso. “Con la sua figura non impressionante e il suo viso privo di espressione, in lui non c’è né maestà spirituale né temporale”, commentava un giornalista americano che l’aveva osservato durante la sobria incoronazione nella Cappella Sistina, nel settembre di cent’anni fa. Lui, il Papa, ne era cosciente: “Mio caro, ti sei dimenticato di me?”, disse all’imbarazzato sarto vaticano che l’attendeva nella Stanza delle Lacrime per spogliarlo delle vesti rosse cardinalizie e rivestirlo con l’abito papale. Nessuna delle tre talari bianche confezionate andava bene, perfino quella di taglia più piccola risultava eccessiva per Giacomo Della Chiesa, da poco eletto Pontefice con il nome di Benedetto XV. Trentotto voti e non uno in più, avrebbero rivelato decenni più tardi i diari del cardinale austriaco Friedrich Gustav Piffl. Esattamente il numero richiesto per l’elezione, tanto che il cardinale Gaetano De Lai, fervente oppositore di quella minuta Eminenza che aveva ottenuto la porpora solo tre mesi prima e ora succedeva addirittura a un Papa santo già in vita come Pio X, s’alzo dallo scranno ancora sormontato da baldacchino e chiese che fosse aperta e controllata la scheda di Della Chiesa. All’epoca, infatti, i voti potevano essere riconosciuti tramite una sigla, sistema di sicurezza che all’occorrenza serviva per controllare che l’eletto non avesse conquistato la tiara grazie al proprio voto. Il fato volle che fosse proprio Della Chiesa uno degli scrutatori, e così poté confermare – carta alla mano – che lui il voto l’aveva dato ad altri.

 

Finita la procedura a dir poco umiliante, “il piccoletto”, così chiamato fin dai tempi in cui era il pupillo del già segretario di stato Mariano Rampolla del Tindaro, pure lui umiliato undici anni prima dal veto austriaco, ultimo della storia, nel Conclave chiamato a scegliere il successore di Leone XIII, tornò a sedersi aspettando la domanda canonica sull’accettazione. Benedetto XV iniziò così i suoi otto anni di permanenza sul Soglio di Pietro. Anni di bombe e trincee, del guerrone che Papa Sarto aveva previsto e temuto con orrore. Anni in cui il mondo cambiò come forse mai s’era visto prima: il conflitto di trincea con i suoi milioni di morti, la dissoluzione di quattro imperi plurisecolari, la rivoluzione bolscevica, l’esplosione del nazionalismo, l’insorgere della questione mediorientale.

 

Ma furono anche anni in cui la lungimiranza di un Papa riservato, forse troppo intellettuale e freddo, spinse definitivamente la chiesa nel Ventesimo secolo, con metodi e decisioni che ai contemporanei parvero incomprensibili, tanto da relegarlo ben presto all’oblio dal quale ancora non è riemerso. Capì come le cose stavano cambiando, la direzione che il mondo stava prendendo, basti pensare all’enciclica Maximum Illud, testo “fondamentale perché imponeva al mondo missionario di sganciarsi dal colonialismo europeo”, dice al Foglio il professor Gianpaolo Romanato, storico e autore del recente volume “Pio X - Alle origini del cattolicesimo contemporaneo” (Lindau): “In quell’enciclica si dice chiaramente che i missionari dovevano sganciarsi dal mondo da cui provenivano, imparare le lingue locali e (soprattutto) considerarsi provvisori. Ossia, dovevano darsi da fare per formare un clero locale e, quindi, andare via”. La Maximum Illud – per altro considerato il maggiore pronunciamento papale sulla chiesa nelle missioni fino alla Evangelii Nuntiandi di Paolo VI – “è rilevante anche perché dimostra che in questo caso il Vaticano cerca – come tante altre volte è accaduto nel Novecento – di trascinare la chiesa verso il futuro mentre le chiese periferiche frenavano in maniera assai forte”, aggiunge Romanato. “Benedetto XV vide lontano, ricordava che le missioni non erano proprietà degli ordini religiosi, bensì patrimonio della chiesa. E non si guadagnò di certo la simpatia degli ordini missionari”.

 

[**Video_box_2**]Anche questo è stato Papa Della Chiesa, il cui pontificato è stato ridotto quasi esclusivamente alla inascoltata Nota alle potenze belligeranti dell’agosto del 1917, a quella definizione della guerra come “inutile strage” che creò più risate di scherno che apprezzamenti nelle ottuse cancellerie europee. Di lui esiste un solo filmato di ventuno secondi, collage in cui lo si vede ammantato mentre benedice in San Pietro e a passeggio nei Giardini vaticani, più impacciato che ieratico. Le fotografie sono poche, e sono sufficienti per comprendere almeno in parte perché il suo nome sia ignoto ai più: “Il suo aspetto fisico, così dimesso e poco appariscente ebbe un impatto notevole sui contemporanei. E’ rimasto schiacciato tra due personalità fortissime e con forte appeal sull’opinione pubblica, seppur per ragioni diverse. Pio X per il suo tratto umano e Pio XI per il cipiglio del grande comandante”, spiega lo storico.

 

Eppure, quello di Benedetto XV è stato un pontificato decisivo, spartiacque tra la Belle époque tramontante e il secolo Ventesimo in tutte le sue tragiche manifestazioni. “E’ stato sfortunato”, nota ancora Romanato: “A determinare la fortuna di un Pontefice c’è anche una componente emotiva, che ha a che fare con la percezione che di lui ha l’opinione pubblica, che è stata grandiosa per Pio X, forte per Pio XI e molto più debole per Della Chiesa”. Walter H. Peters, nella sua “Vita di Benedetto XV” avrebbe sottolineato che con l’ascesa del nuovo Pontefice “qualcosa di romanticamente semplice e casalingo aveva lasciato il Vaticano”. E poi, sul pontificato dell’aristocratico genovese cresciuto nella diplomazia di Rampolla, c’è un grosso punto interrogativo che ha un nome e cognome, Rudolph Gerlach. Cappellano segreto papale e sospettato d’essere il perno di un sistema di spionaggio messo in piedi da tedeschi e austroungarici. Fu accusato anche di avere mantenuto contatti con Vienna e Berlino servendosi della posta diplomatica vaticana.

 

Uno scandalo capace di demolire il già fragile legame tra quel che all’epoca era la Santa Sede – un residuo del vecchio Stato pontificio, isolata diplomaticamente e ostile all’usurpatore piemontese – e l’Italia, anche perché non di spia qualunque si parlava, bensì di una delle persone più vicine al Papa. Della Chiesa fino all’ultimo difese Gerlach, tanto da mostrare – come ha scritto lo storico britannico John Pollard ne “Il Papa Sconosciuto” (San Paolo, 1999) – tutto “il peggio di Benedetto, la sua ostinazione, la sua notoria irascibilità e non poca paranoia”. Tratti che l’allora segretario della legazione britannica a Roma, J. D. Gregory, notava già nei primi mesi di pontificato: “Il Papa presente è decisamente una mediocrità. Ha la mentalità di un parroco italiano che a stento abbia viaggiato e un modo tortuoso di condurre le questioni. Non è capace né di levarsi a grandi altezze né di controllare efficacemente lo svolgimento ordinario dell’amministrazione. E’ terribilmente ostinato e stizzoso”.

 

Un’ostinazione che fu ben evidente durante il conflitto, quando scosse una curia intorpidita e spesso divisa in fazioni a sostegno dei belligeranti, organizzando personalmente un sistema d’assistenza senza precedenti, della quale beneficiò anche Francesco Saverio Nitti, che come ricordava il professor Romanato, riuscì a ritrovare il figlio primogenito in Austria. “Furono probabilmente più di un milione le pratiche di carattere assistenziale per profughi, morti e mutilati attivate grazie alla sua opera”, ricorda Romanato. Benedetto XV agì soprattutto sugli episcopati locali, con pressioni al limite del diktat, affinché non si facessero trascinare nella centrifuga nazionalista. Si faceva inviare dal fronte capillari e continui aggiornamenti sullo stato della guerra – anche dalla sorella Giulia, residente in Veneto – spingendo i vescovi a stendere rapporti che poi sarebbero giunti sulla sua scrivania in Vaticano senza alcun filtro.

 

Fin dal principio aveva capito come sarebbe andata a finire, quali sarebbero state le conseguenze di quella strage che avrebbe definito inutile. Nel 1918, mentre v’era chi guardava alla conferenza di pace ed era già intento a discettare di nuovi confini, compensazioni e accordi più o meno segreti, lui scriveva all’imperatore d’Austria che “chi decide della pace e della guerra non è né l’Italia, né l’Inghilterra, né la Francia, ma unicamente il presidente della grande repubblica americana. Egli solo può imporre come la conclusione della pace, così la continuazione della guerra”. Due anni più tardi, scongiurando ancora una volta inascoltato che i potenti lavorassero a una pace giusta e senza scorie velenose, ammonì profeticamente sui rischi di lasciare in vita “i germi di antichi rancori”.

 

Tre mesi dopo l’elezione, nel dicembre del 1914, l’Osservatore Romano pubblicò un decreto in cui si presentavano le misure di assistenza materiale e spirituale ai prigionieri. Nella primavera successiva, nei corridoi della segreteria di stato vedeva la luce l’Opera per i prigionieri, organizzazione che in quattro anni avrebbe smistato più di seicentomila plichi di corrispondenza, tra cui centosettantamila ricerche di persone scomparse e quarantamila richieste di aiuto per il rimpatrio di prigionieri di guerra malati. Fu equidistante fino all’eccesso dalle forze in campo, tanto da rifiutare perfino di guardare un film sulla guerra che gli era stato inviato dagli inglesi.

 

Sforzi vani. Nonostante queste precauzioni, finì nel mezzo del fuoco incrociato. A seconda delle sue mosse per una pace giusta e duratura, fu accusato di essere le Pape boche, il “Papa crucco” o il “Papa francese”. Dopo la disfatta di Caporetto e la ritirata italiana oltre le linee del Piave, fu accusato di aver diffuso il disfattismo tra le truppe del generale Cadorna, tanto da meritarsi l’appellativo di “Maledetto XV”. Da lui, solo alzate di spalle. Lui che non amava neppure passeggiare all’aria aperta sapeva bene di non essere amato come il predecessore, il ruspante Pio X. Ma non fece mai nulla per cambiare, per far ricredere i detrattori. Il suo rigore, la sua meticolosità e precisione non avrebbero subìto sbandamenti. Neppure quando si trattò di negare alla cognata un intervento in favore del figlio Pino, chiamato alle armi. La donna supplicava il Pontefice, uno di famiglia, di trovare al giovane un posto nella cittadella vaticana, in uno degli innumerevoli e spesso inutili uffici di cui era allora ricca. Ma dal Papa giunse un irremovibile e fermo diniego: il ragazzo doveva sacrificarsi per l’onore dell’Italia. Anche a costo di rischiare la vita. E pazienza se da quell’Italia gli piovevano addosso accuse di collaborazionismo con i tedeschi che gasavano i soldati nelle trincee del Grappa e del Montello, del Carso e dell’altipiano d’Asiago. “Lasciate che parlino, tanto che possono fare?”, domandava a chi andava a ragguagliarlo su tutto il male che di lui si diceva in giro, sulla stampa e nei salotti cosiddetti buoni. E magari anche nei pressi del palazzo apostolico, in quel vaticanetto dove si riunivano quelli della vecchia guardia, i fedeli alla linea intransigente di Pio X, che aveva nel cardinale Rafael Merry del Val, di Papa Sarto segretario di stato, il centro catalizzatore.

 

E’ questo il motivo per cui Carlo Monti, l’uomo che durante il pontificato di Della Chiesa fece da tramite tra le due sponde del Tevere, ha riportato nei suoi diari – dove annotava i particolari di ogni incontro con il Pontefice e i vertici della segreteria di stato – commenti non proprio lusinghieri di Benedetto su Merry del Val. Eppure, pare che a quest’ultimo Della Chiesa dovesse la porpora, considerata la diffidenza che Pio X nutriva verso quel taciturno diplomatico genovese, sorta di figlio putativo di Rampolla. Nota Romanato che dalle carte raccolte durante il processo di canonizzazione, di Della Chiesa Sarto temeva l’insincerità: “Riceveva da lui lettere piene di deferenza e ossequio, ma sapeva che dovunque e con tutti criticava gli indirizzi del pontificato”, soprattutto la campagna antimodernista, che non a caso Benedetto XV avrebbe attenuato, pur confermandone i princìpi generali dettati dal predecessore. Anche per questo, nonostante l’avesse nominato arcivescovo di Bologna nel 1907 – concedendogli quel necessario completamento pastorale verso il papato – non gli consegnò la berretta cardinalizia fino al giugno del 1914, solo due mesi prima di morire.

 

Giacomo Della Chiesa non era un modernista, benché vi fosse chi nella cittadella vaticana parlasse di lui come prima vittima della Pascendi di Pio X. Certo, non amava la caccia alle streghe, preferiva il basso profilo e s’indignò quando – dando notizia della sua nomina a pastore del capoluogo felsineo dopo la morte del cardinale Domenico Svampa, finito nel mirino del Sant’Uffizio per certe sue idee aperte e moderne – il Giornale d’Italia scrisse che era stato inviato là a “ripulire i covi dell’eresia”, ma da vescovo diocesano ricordò ai fedeli che quando si sentono nuove dottrine “non conformi a quelle approvate dal Pontefice”, non ci si “deve lasciare ingannare. Quando il Papa ha parlato, questo deve bastare”. Il suo approccio, però, era diverso, e non prevedeva la condanna a priori di ogni nuova tesi, neppure di quelle scientifiche. Sempre ribadì con fermezza, tuttavia, che le teorie innovative dovevano essere in linea con il senso della chiesa.

 

Uomo di grande cultura, poco meno di un anno prima della morte improvvisa – si spegnerà per una polmonite nel gennaio del 1922, all’età di sessantasette anni – dedicò la sua penultima enciclica, la In Praeclara Summorum, non a trattare complessi problemi di dottrina, bensì a Dante Alighieri, poeta definito da Benedetto “molto più moderno di alcuni contemporanei”. Di Dante, il Papa scrisse d’ammirare “la prodigiosa vastità ed acutezza del suo ingegno”, mettendo in rilievo “la sua intima unione con la Cattedra di Pietro”. La “Commedia”, osservava ancora, non è altro fine che il glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, tanto che essa può ritenersi “un compendio delle leggi divine”. Rispondendo implicitamente a quanti esaltavano il poeta riducendo la portata della sua fede cattolica, anche per gli attacchi ai papi del tempo, Benedetto osservava: “E’ vero. Del resto, poiché la debolezza è propria degli uomini, e nemmeno le anime pie possono evitare di essere insudiciate dalla polvere del mondo, chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente?”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.