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L’altro rigore

Renzi e i necessari tagli alla spesa per resistere alla frusta di Schäuble

Municipalizzate, numeri, programmi e la scommessa sulla spending review: governare senza guardare i sondaggi.

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Roma. Il governo a vocazione bum bum, inteso come un esecutivo guidato da un presidente del Consiglio abile nel trasformare con costanza promesse, intenzioni, propositi e tweet in accecanti e mirabolanti fuochi di artificio, una volta archiviata la settimana dei grandi impegni e dei grandi annunci (domani c’è il famoso Cdm in cui il premier illustrerà il programma dei mille giorni) entro la metà del prossimo mese, ovvero entro il 15 settembre, termine per la presentazione della legge di stabilità, sarà costretto a indicare quali saranno i punti chiave di quello che in Europa, insieme con la riforma del lavoro, viene considerato un provvedimento chiave per misurare il tasso del riformismo del governo Leopolda: il taglio alla spesa pubblica. I giornali di ieri, dopo un’estate in cui l’unico taglio messo in cantiere dal governo riguarda quello del commissario alla Spending Review, il tenebroso Carlo Cottarelli, hanno annunciato un altro bum bum del governo che questa volta riguarderebbe il settore delle municipalizzate. A dire il vero, gli obiettivi posti da Renzi sulla spending review sono ambiziosi (32 miliardi di euro da tagliare in modo strutturale entro il 2016 non sono pochi, sono circa il 2 per cento della spesa corrente) così come è ambiziosa l’idea di destinare gran parte degli introiti ricavati dai tagli alla riduzione delle tasse. I numeri sono importanti e centrali ma per capire se, su questo punto, il governo Renzi avrà il coraggio di agire senza paura di essere impopolare ci sono anche altri criteri importanti che andranno tenuti sotto osservazione. “La spending review – dice al Foglio Nicola Rossi, economista, ex parlamentare Pd, autore di un recente e dettagliato paper sul taglio alla spesa pubblica pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, di cui Rossi è stato presidente fino al 2013 – diventa fattore di cambiamento del paese se è strategica e cioè se parte dalla domanda ‘è utile e/o opportuno che l’operatore pubblico produca questo bene o questo servizio?’. Detto in altri termini, la spending review strategica non si limita a ‘riqualificare e riallocare’ la spesa ma conduce a un ripensamento sul ruolo dell’operatore pubblico e sulla ampiezza delle sue attività. Un esempio su tutti: le municipalizzate”.

 

Da questo punto di vista, è il ragionamento di Rossi, il mondo delle municipalizzate è un buon terreno su cui sarà utile osservare il coraggio del governo e la sua capacità di rottamare il socialismo municipale. “La chiusura delle partecipate in perdita è una misura di igiene elementare, ovvio. Ma da un leader che si auto descrive come uno straordinario riformista ci si aspetta qualcosa di più. Ci si aspetta, per esempio, che inviti gli enti locali azionisti di queste partecipate a portare avanti azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori che non hanno tutelato gli interessi degli investitori – a meno che non preferisca che siano i magistrati della Corte dei conti a fare quello che invece dovrebbe fare la politica, ovvero vigilare sul dolo che si nasconde dietro gli sprechi. Spending review significa questo. Significa rottamare quella politica benecomunista che si è diffusa in Italia dopo il referendum sull’acqua e che ha imposto un modello neo statalista nel nostro paese che mi sembra che neanche Renzi – ma spero di sbagliarmi – sia intenzionato a rottamare fino in fondo”.

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Rossi, sempre a proposito di municipalizzate, ricorda che sono quasi 2 mila su 7 mila le società partecipate dai comuni che oggi si trovano in rosso (secondo la Corte dei conti, nei 5 mila organismi privati e partecipati da enti locali, l’indebitamento è pari a circa 34 miliardi di euro). Ricorda che (dati Confcommercio 2013) gli sprechi delle municipalizzate sono la ragione principale della quintuplicazione delle tasse locali negli ultimi vent’anni. E ricorda che, da ex sindaco, Renzi ha in qualche modo il dovere morale di dimostrare coraggio nel rendere efficiente un settore che, da ex sindaco, non può non essersi accorto che non funzionava come avrebbe dovuto (“Il settore delle municipalizzate – come certificato nel 2013 dalla Corte dei Conti – è il cancro degli enti locali con incarichi e consulenze dai compensi fuori mercato che non hanno prodotto niente”).

 

“Conosco il ministro Padoan da molto tempo – continua Rossi, che con il ministro dell’Economia ha lavorato fianco fianco a Palazzo Chigi ai tempi del governo D’Alema, nel 1998, quando entrambi erano consiglieri dell’ex premier – e credo sia culturalmente disposto e disponibile ad agire con coraggio sulla spesa. I 32 miliardi promessi dal governo costituiscono un obiettivo importante ma mi permetto di fare il gufo e di dubitare che Renzi avrà gli attributi per fare una qualche mossa impopolare”. In che senso? “Renzi è drogato di consenso e non c’è nulla di più pericoloso che un’eccessiva attenzione al consenso per mettere mano alla spesa pubblica. In più, lo dico sempre travestito da gufo, mi chiedo se questa maggioranza abbia la forza di dare un’impopolare frustata alla spesa pubblica. Francamente non credo. E non lo credo per una ragione semplice. Con buona pace degli esponenti del centrodestra che ne fanno parte – dice con perfidia Rossi – quello attuale è un esecutivo abbastanza chiaramente socialdemocratico. Come appare da gran parte delle sue scelte. Che a volte possono anche essere condivisibili o ‘non dannose’ ma che certo non incidono sulla cultura della sinistra italiana”. Rossi concorda sul fatto che fino a che l’Italia non presenterà un programma serio e competitivo sui temi del lavoro e della spesa pubblica in Europa continueranno per molto tempo a esserci scene simili a quelle osservate ieri. Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, in un’intervista al quotidiano Passauer Neue Presse ha detto, con tono severo, che le recenti dichiarazioni di Draghi sulla necessità di un allentamento delle politiche di rigore “sono state interpretate troppo in una direzione”. E che in Europa “abbiamo bisogno di riforme strutturali per assicurare la nostra competitività”. Il messaggio implicito è ancora una volta molto chiaro: fino a che i paesi che chiedono una mano all’Europa, e alla Bce, non dimostreranno a chi comanda in Europa di aver imboccato la giusta via delle riforme la direzione dell’Europa non sarà molto distante e differente da quella imboccata finora. Semplice, no?

 

“L’Italia – dice Rossi – sa da circa vent’anni cosa dovrebbe fare per mettersi in condizione di affrontare i mercati e giocare un ruolo nelle istituzioni che hanno preso forma negli ultimi decenni. La lettera della Bce del 2011 ne è certamente una buona sintesi, e Renzi farebbe bene a tenere quel testo sulla sua scrivania di Palazzo Chigi. Il problema è che il passaggio del tempo non è indifferente e questo è particolarmente vero in una situazione complessiva caratterizzata da molte criticità che possono, anche improvvisamente, far risaltare la estrema vulnerabilità italiana (di cui il debito pubblico è l’espressione più evidente). Spiace dirlo, ma continuiamo a perder tempo. Spesso in questi mesi ho avuto l’impressione che sono stati rottamati gli uomini ma non ancora le vecchie idee. E questo, solitamente, non ha molto a che fare con il cambiamento”.

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