L'oblio su Sciascia politico

Gianfranco Spadaccia

Non soltanto i rapporti contrastati col Pci, né la sua elezione con i Radicali. Lo scrittore siciliano divise l’establishment con le domande su giustizia e potere. La politicità non sminuisce la grandezza letteraria, anzi. Perciò ogni suo libro ha profondamente diviso opinione pubblica e critici

Pubblichiamo stralci della prefazione di Gianfranco Spadaccia a “La memoria di Sciascia”, collezione di saggi e articoli dello scrittore messicano Federico Campbell (1941-2014), appena pubblicata in Italia da Ipermedium Libri.

 

A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita a una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il Pci o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato Radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura.

 

E’ strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’Enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondanti scrittori e anche a se stesso. E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere a offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise.

 

In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni 60 ne “Le Parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’Inquisitore”, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni 70 e dei primi anni 80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche delle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore”.

 

[**Video_box_2**]Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni Ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il “primo” Sciascia del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa.

 

Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al Pci magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”. Sciascia, che non amava la parola “intellettuale” a cui preferì sempre quella di letterato o di uomo di lettere, non fu mai, neppure nel periodo di vicinanza al Pci siciliano, intellettuale “impegnato” e tanto meno “organico”. L’unico impegno che concepì, fu nei confronti delle proprie convinzioni e della propria coscienza. Campbell ricorda che, per questo, ebbe come riferimenti Gide che, da comunista, si impegnò nella condanna di Stalin e dello stalinismo e Bernanos che, da cattolico, combatté il sostegno offerto al generale Franco da parte della chiesa cattolica nella guerra civile spagnola.

 

La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della “Controversia liparitana” ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del Pci e degli intellettuali più vicini al Pci, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni 80 gli stessi princìpi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia.

 

Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista e anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle.

 

E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo una grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le Br, ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”). La seconda rottura fu provocata da un articolo sul Corriere della Sera in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei Radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti Radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate rosse e al fatto che nei primi anni Sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere a occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri princìpi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere.
Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’onorevole Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle Br, impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della Dc quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle Br quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Urso, che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.
***

(…) Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. (…) Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. (…) Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”.

 

C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora – Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente”.

 

(…) Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità. (…)
* Già segretario, deputato e senatore
del Partito radicale

Di più su questi argomenti: