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Parliamo di campo e non di Palazzo: è Verratti il nome da cui la Nazionale può ripartire dopo Prandelli

Beppe Di Corrado

Se vuoi parlare di campo e non di palazzo, di pallone e non di politica, di giocatori e non di dirigenti, è lui il nome. Si ricostruisce dai suoi piedi, dal suo cervello, dal suo coraggio. Quello che in Brasile non ci sarebbe dovuto andare è stato il meno peggio.

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Verratti, sì. Se vuoi parlare di campo e non di palazzo, di pallone e non di politica, di giocatori e non di dirigenti, è lui il nome. Si ricostruisce dai suoi piedi, dal suo cervello, dal suo coraggio. Quello che in Brasile non ci sarebbe dovuto andare è stato il meno peggio. Nello scontro generazionale vecchi-giovani tirato fuori da Buffon alla fine della partita contro l’Uruguay, Verratti è l’unico giovane a cui non puoi dire di non esserci stato, di non essersi sacrificato, di non averci creduto. “Tirare la carretta”, è stata l’espressione di Buffon per dire che lui, De Rossi, Pirlo, Barzagli, Chiellini alla fine si sono sentiti abbandonati dai ragazzi, dai nuovi, da quelli che l’Italia aveva invocato seguendo il vento giovanilista che soffia adesso nel paese e in molte altre Nazionali. I giovani, i giovani, i giovani: un’ossessione che ha tradito. Puoi dirlo al Balotelli contro la Costa Rica e contro l’Uruguay. Puoi dirlo a Immobile, spinto dalla retorica del “nuovo Schillaci” e che ha sbagliato ogni pallone dei pochi che è riuscito a toccare nel momento in cui è stato in campo contro Costa Rica e Uruguay. Puoi dirlo a Insigne, vuoto, evanescente, spaesato. Puoi dirlo a De Sciglio. Non puoi dirlo a Darmian che il suo l’ha fatto e soprattutto a Verratti. Perché Verratti e il suo Mondiale meritavano di più dell’umiliazione subita.

 

Lui è racchiuso in tre giocate, fatte paradossalmente tutte e tre nell’ultima partita. La prima è un recupero in scivolata nel primo tempo: una palla che rischiava di scivolare verso Suárez nella nostra trequarti. Lui s’è lanciato in scivolata, da dietro ha toccato la palla verso un compagno, s’è rialzato e se l’è fatta ridare. Testa alta, amici. La seconda giocata è quella in uscita dalla nostra area, sempre nel primo tempo: vieni Suárez, vieni. L’ha aspettato, l’ha visto, l’ha saltato con un colpo di tacco. La terza è una progressione dalla nostra metà campo a quella dell’Uruguay. Destro-sinistro, due avversari saltati, poi tocco di esterno destro a superare un terzo, poi passaggio alla sua sinistra. Di nuovo: testa alta. Tranquilli ragazzi, ci sono io. Infatti c’è, a prescindere dalla eliminazione.

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Non è Pirlo, né il suo erede, come in molti hanno raccontato. E’ diverso, ha ancora le movenze del trequartista anche se da Zeman in poi non l’ha più fatto. Indietro di venti-venticinque metri: regista o mezzala. Verratti può scegliere. Quando è andato a Parigi, il calcio italiano ha fatto partire forse il miglior talento degli ultimi anni. Ecco: gli ha fatto un favore. Perché Verratti è ciò che il Psg gli ha permesso di essere: ha giocato, ha fatto panchina, ha giocato ancora. La Champions, questa è la differenza. Ciò che Immobile proverà l’anno prossimo a Dortmund, Verratti lo prova da due anni. Indipendentemente dal ruolo s’è visto in Brasile. L’atteggiamento, la sicurezza, l’abitudine: del gruppo dei giovani della Nazionale, Marco è l’unico che sa che cosa significhi davvero il calcio internazionale. Balotelli a parte, certo.

 

E’ un altro talento confezionato, Verratti. Questo sì che l’ha ereditato da Pirlo. Uno di quelli che s’è impostato, s’è cercato un’identità. Il contrario del calcio da strada, anarchico, ribelle, individualista. Marco ha bisogno degli altri. Che Pirlo decida di smettere o meno con la Nazionale, Verratti è l’unico certo di avere un futuro. Perché fino al Mondiale era considerato appunto solo l’alternativa. E’ per questo che è stato in bilico fino all’ultimo giorno delle convocazioni: il secondo miglior centrocampista della Champions (dopo Xavi) per passaggi andati a buon fine e per rendimento complessivo rischiava di rimanere a casa perché nessuno, a cominciare da Prandelli, lo vedeva accanto ad Andrea. L’infortunio a Montolivo l’ha spinto prima nei 23 sicuri, poi titolare. L’abbiamo visto. Uno che a 23 anni è sicuro, tranquillo, convinto. E’ deciso, nonostante un fisico che non l’ha mai aiutato. Piccolo? “Sì, lo so, non ci posso fare niente”, dice lui.

 

A Parigi guadagna più di due milioni a stagione, gioca con Ibrahimovic e con Cavani. Può andare al Real, perché Ancelotti che l’ha voluto al Psg lo vorrebbe a Madrid. Intruso a chi? E’ un giocatore. Quello che prendi dalla palude del Mondiale brasiliano e tieni da conto. Perché da uno devi ricominciare e può essere lui. Per carattere, per ruolo, per disponibilità, per duttilità. Ha giocato da mezzapunta, da regista, da mezzala, ha una versatilità unica che gli ha consentito di arrivare a Parigi da sconosciuto e di giocare titolare, di essere fondamentale per Ancelotti e però anche per Blanc. E’ leggero, ancora gracile, forse non del tutto completo. Per qualcuno a disagio nella convivenza con un mostro come Pirlo. Tutte mezze verità sconfitte da una verità più grande. Con l’Uruguay, nel primo tempo quello che si faceva dare il pallone subito era lui. Datela a me. E’ un’idea, non un risultato certo. Ma un’idea di quelle buone. Nel disastro hai uno da salvare. Non un atto di fede. Semplice fiducia.

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