Sbatti Jill in prima pagina

Un editore autoritario. La discriminazione sessuale. Litigi interni. Un pessimo carattere. Trattative sottobanco. L’ego smisurato. Le interviste concesse con troppa leggerezza. La fiducia tradita. L’incompatibilità dei caratteri. Le frizioni con l’azienda. La crisi dei media. Ciascuno può scegliere la spiegazione che preferisce per giustificare il licenziamento di Jill Abramson, che nel giro di qualche giorno è diventata, a seconda del verso in cui si legge la vicenda, un’icona delle aspirazioni femminili vilipese dalla fallocrazia giornalistica o un’arpia egocentrica che tramava nei corridoi del New York Times e distribuiva pugnalate alla schiena, lei che sulla schiena si è tatuata la proverbiale “T” gotica della testata e giura che mai se la cancellerà di dosso.

    Un editore autoritario. La discriminazione sessuale. Litigi interni. Un pessimo carattere. Trattative sottobanco. L’ego smisurato. Le interviste concesse con troppa leggerezza. La fiducia tradita. L’incompatibilità dei caratteri. Le frizioni con l’azienda. La crisi dei media. Ciascuno può scegliere la spiegazione che preferisce per giustificare il licenziamento di Jill Abramson, che nel giro di qualche giorno è diventata, a seconda del verso in cui si legge la vicenda, un’icona delle aspirazioni femminili vilipese dalla fallocrazia giornalistica o un’arpia egocentrica che tramava nei corridoi del New York Times e distribuiva pugnalate alla schiena, lei che sulla schiena si è tatuata la proverbiale “T” gotica della testata e giura che mai se la cancellerà di dosso. Le circostanze del licenziamento sono complicate da decifrare, la sostanza del dibattito interno è appesa a poche dichiarazioni pubbliche di circostanza e a milioni di sussurri anonimi che i filologi dei media mettono insieme come possono o come vogliono. Non mancano, com’è ovvio, depistaggi, imbeccate, interpolazioni, falsi d’autore, ricostruzioni arbitrariamente fraudolente o ingannevoli ma senza dolo. Ironico: il racconto del licenziamento del direttore del giornale più autorevole del mondo è viziato dalle stesse patologie giornalistiche che fanno inorridire i rappresentanti del giornale più autorevole del mondo. E’ il rischio che si corre quando il cronista diventa il fatto di cronaca. Il fatto, per l’appunto, è che dopo giorni di ricostruzioni e divinazioni nessuna delle spiegazioni addotte per il licenziamento di Abramson – gestito nel più brutale e impulsivo dei modi, senza l’onore delle armi per la direttrice uscente e con pasticci comunicativi che farebbero sbiancare le nocche di qualunque professionista delle pubbliche relazioni – sembra sufficiente a spiegare l’accaduto.

    Le lamentele di Abramson sulla disparità di salario rispetto ai predecessori (maschi, s’intende) riportate per primo dal massimo filologo della Gray Lady, Ken Auletta, possono aver contribuito al deterioramento dei rapporti fra il direttore e l’editore, Arthur Sulzberger Jr., ma non appaiono sufficienti a giustificare una rottura tanto velenosa. Il Times ha ammesso, pasticciando anche qui con la comunicazione, una certa disparità nel trattamento economico, motivandola però con differenze circa gli anni di servizio e con la ridefinizione degli aumenti scattata nel 2009 per tutti i dipendenti, a prescindere dal grado, dalla mansione, dall’anzianità professionale ma soprattutto dal genere. Non solo. Da quando, nell’agosto 2013, dopo la vendita del Boston Globe e il conseguente riassetto societario, Abramson è entrata nel comitato esecutivo del giornale, il suo stipendio è decresciuto leggermente, ma il suo bonus è aumentato di parecchio. A conti fatti guadagnava oltre il 10 per cento in più di quanto facesse Bill Keller dopo una carriera trentennale, così dice il Times.

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    Anche l’accusa di mancanze nella “gestione del personale”, modo gentile per qualificare Abramson come un’arbasiniana solita stronza, sembra inevitabilmente scritta nel regno dell’opinabile. Le rappresentazioni del clima all’interno del grattacielo sull’Ottava avenue da almeno un anno indicano una frattura all’interno della redazione e reciproci scambi di scortesie fra Abramson e il ceo dell’azienda, Mark Thompson, su questioni di metodo e di merito (pubblicità, rapporto fra carta e digitale, l’invio di un bellicoso team d’inchiesta in Inghilterra per indagare sullo scandalo della pedofilia nell’ex azienda di Thompson, la Bbc). Circola peraltro anche la versione opposta, quella di una Abramson tosta e determinata e proprio per questo meritevole della stima di sottoposti e colleghi, stimolati dalla guida di una leader coriacea e poco propensa all’accondiscendenza. Niente a che vedere con la lunatica e “pushy” raccontata dai maligni – aggettivo carico di sottintesi discriminatori, dicono per soprammercato – che andava a bersi amichevolmente delle birre con le sue yes women e per il resto praticava l’arte ossessiva del controllo e l’esercizio malizioso del potere. Secondo questa versione la rottura era scritta nel destino, soltanto questione di tempo. L’altra osservazione che circola riguarda poi i risultati del Times sotto l’egida di Abramson, positivi in fatto di raccolta pubblicitaria, copie, espansione digitale e profitti, dati che i difensori dell’ex direttrice tendono a esibire come prova che all’origine del licenziamento non c’è alcuna motivazione di natura professionale, ma è tutto un gioco di rancori, antipatie, tradimenti, caratteri infiammabili e magari di discriminazione, ça va sans dire. Più complicata la faccenda della trattativa che Abramson ha condotto personalmente con Janine Gibson del Guardian per portarla al Times con i gradi di vicedirettore, stesso livello di Dean Baquet – ora nominato direttore – il quale però non ne sapeva nulla. Sulzberger e Thompson sapevano della conversazione con Gibson, ma entrambi rappresentano l’azienda, vivono dall’altra parte del firewall che separa la compagnia editoriale dalla redazione, mentre l’escluso Baquet era il punto di riferimento dei giornalisti.

    Non c’è articolo sulla crisi del Times che manchi di ribadire che Baquet è l’indiscusso beniamino dei giornalisti. Ironicamente è stata la stessa Gibson a rivelargli della trattativa con il giornale, convinta che Abramson l’avesse informato, seguendo una regola di cortesia non scritta ma che è prudente non violare: “Jill è stata esplicita nella nostra prima conversazione quando mi ha detto, ‘la prima cosa che devo fare è parlare con Dean’”. A quanto è dato di sapere, però, quella conversazione non è mai avvenuta. Baquet, livido di rabbia, ha messo Sulzberger di fronte a una scelta del genere “o lei o me”, e l’editore a quel punto ha preso l’iniziativa nel più feroce dei modi, lasciando intendere che anche la pur grave violazione del protocollo e della fiducia del numero due del giornale era tutto sommato un incidente che s’innestava su un sostrato già gravemente danneggiato, con ampie ramificazioni nel reame del non detto, se non dell’indicibile. “Decisioni arbitrarie, mancanze nel consultare e coinvolgere i colleghi, comunicazioni inadeguate e maltrattamento pubblico di colleghi”, questi i capi d’accusa formulati da Sulzberger dopo un primo round di spiegazioni formali che non avevano soddisfatto nessuno. Nemmeno questa circostanza, tuttavia, è in grado di spiegare completamente come l’avvicendamento di un direttore si sia trasformato nel tormento di un’istituzione americana e globale, il simbolo di una cultura d’establishment con la sua gloriosa tradizione e i princìpi etici inflessibili, il volto imperturbabile del potere che perde il self control e si lancia in un litigio da mercato rionale, con tutto il mondo giornalistico attorno intento a scavare nelle scenate e nei battibecchi di lega poco nobile, altro che questione femminile e attentato ai diritti civili. Auletta scrive che “il modo in cui il Times ha gestito la crisi dovrebbe essere insegnato alla Harvard Business School come caso di pessimo management e ancora peggiore comunicazione. E’ una vicenda in cui nessuna delle due parti si è comportata in modo corretto o con delicatezza e l’istituzione, così rilevante per il giornalismo americano, ne ha sofferto”. Un bisticcio sul posto di lavoro è sfociato in uno psicodramma nazionale.

    Il New York Times aveva già visto le teste di direttori saltare, aveva visto stagisti plagiari e cronisti manipolati dalla politica, aveva lavato i panni sporchi in pubblico, si era affidato a miliardari messicani, si era umiliato davanti a tutti e aveva chiesto scusa, “ma niente di tutto questo è stato surreale quanto quello che è successo la settimana scorsa”, ha scritto David Carr, il critico dei media del New York Times, forse l’unico che poteva scrivere dall’interno della redazione un articolo non imbarazzato e persino ironico: “Quand’è che il nostro posto di lavoro si è trasformato in una puntata particolarmente cruenta di ‘Game of Thrones’?”. Una cosa, scrive Carr, “sono i pettegolezzi e le lamentele sul capo, un’altra è vedere la sua testa fatta a pezzi alla luce del sole. La mancanza di decoro è stata sbalorditiva”. A Carr l’editore, che della mancanza di decoro è almeno corresponsabile, ha spiegato che Abramson “aveva perso la fiducia dei suoi colleghi e non avrebbe potuto riconquistarla”. Non è stato difficile per il cronista trovare la conferma che le cose stavano effettivamente così. Sulle prime sembrava che Abramson potesse facilmente vincere la battaglia dello spin, la guerra di percezione, pareva che la sua versione della faccenda, quella in cui lei era la vittima di una congiura interna in cui l’elemento femminile c’entrava e non c’entrava – a volte è più efficace lasciare intendere che esplicitare – potesse affermarsi sulla trama opposta, quella del tiranno sfiduciato ed esautorato con gesto rudimentale ma sostanzialmente legittimo. Mettere la faccia all’Università di Wake Forest, dove era già in programma un “commencement speech” davanti agli studenti freschi di laurea, è stato un gesto coraggioso, ma il discorso sulla “resilienza” non ha funzionato come avrebbe voluto. Il passaggio del “siamo sulla stessa barca”, detto a neolaureati che, fra le poche certezze che hanno, c’è quella che non troveranno Abramson a fare la fila per un piatto di minestra in una soup kitchen di Harlem, trasudava affettazione e snobismo, tratti che di rado suscitano simpatia nell’uditorio. E’ quando il vento s’è messo a girare dalla sua parte che Sulzberger ha deciso di dare un’intervista a Vanity Fair in cui ha confermato le ricostruzioni dei litigi con Baquet e la perdita di fiducia della dirigenza. “La persona che non potevamo perdere era Baquet”, ha detto Sulzberger, “perché avremmo perso molto più di lui, ci sarebbe stata una fuoriuscita enorme di persone”.

    Sui metodi spicci – la testa fatta a pezzi, la mancanza di decoro – l’editore è chiaro: “Quando prendi una decisione del genere, lo fai e basta. Non devi tagliare un braccio, poi aspettare e tagliarne un altro”. E poi aggiunge il dettaglio velenoso: il licenziamento era stato preparato come un divorzio dignitoso, con lunghe sbrodolate di circostanza sulle qualità di Abramson e altrettanto lunga esibizione di dati positivi raccolti durante il suo regno di due anni e mezzo, dati che avevano anche l’incidentale pregio di essere veri. Sulzberger, insomma, dice che l’onore delle armi era garantito, tanto che sarebbe stato difficile per il pubblico, sulle prime, capire se si trattava di licenziamento o di dimissioni. Ma “Jill ha detto no”. E’ stata lei, dice, a rifiutare il cerimoniale farlocco e i falsi “non ti dimenticheremo mai”, forse proprio per far apparire l’avvicendamento come un’esecuzione editoriale impietosa, vilipendio per giunta consumato in absentia, cosa inaudita nel tempio del giornalismo che pure di teste ne ha viste rotolare. La versione di Abramson ha perso così parecchio del suo appeal, ma la “battaglia non è ancora finita” come ha scritto la figlia dell’ex direttrice su Twitter, dopo aver postato l’immagine, perfino eccessivamente didascalica, della madre con guantoni, sacco e tatuaggio del gettone della metropolitana di New York in bella vista.

    La guerra delle pubbliche relazioni è ancora in corso, ci vorrà tempo per stabilire chi, presso l’opinione pubblica, farà la parte dell’“hero” e chi sarà il “villain”, di certo l’editore sta combattendo, con assertività che sconfina nella ribalderia, per evitare che lo scontro interno danneggi ciò che il New York Times rappresenta: un modo d’intendere il mondo, un raffinato circolo di potere, una macchina che distribuisce legittimazioni e censure, un mistero imprescindibile della grande liturgia civile americana. Come gran parte dei misteri americani, anche quello del New York Times si tramanda per via dinastica, è una faccenda squisitamente famigliare, e come tale riflette le idiosincrasie della casata. Da fuori il New York Times è un pilastro globale dell’informazione a schiena dritta organizzato secondo criteri di merito e gestito con la razionale freddezza che si addice alle grandi multinazionali; dentro è una bolgia dove si afferma chi ha la protezione della famiglia. Alex Jones, storico della famiglia Sulzberger, scrive che il licenziamento ex abrupto di Abramson non è per nulla estraneo al carattere dinastico, che prevede trattamenti anche molto abrasivi per chi esce dalle grazie della famiglia. Non è per un caso che Arthur, il padre dell’editore in carica, era soprannominato “punch”. E’ riuscito a licenziare il direttore generale dell’azienda per due volte, una perché non si era presentato alla faraonica festa organizzata per festeggiare i cent’anni dalla nascita della pubblicazione.

    Il New York Times è un’azienda a conduzione famigliare da 120 anni. Cambiano le quote, gli azionisti, i modelli di business e tutto il resto, ma al vertice della compagnia c’è sempre stato un membro della famiglia, e ancora oggi si notano i tic da piccola azienda a conduzione famigliare, dalle scelte impulsive ai goffi tentativi di aggiustare gli errori in corsa, fino ai licenziamenti ordinati per pura frizione epidermica, senza curarsi delle performance. Si possono trovare decine di interpretazioni al licenziamento di Abramson e certamente molti altri dettagli faranno chiarezza sulle esatte circostanze della sua cacciata e sullo psicodramma americano che è sgorgato dalla sua pubblica umiliazione. Ma forse ogni cosa si potrà comunque ricondurre a un unico fattore essenziale: la signora è uscita dalle grazie della famiglia.