Fine di una storia

Le faide del NYT hanno fatto saltare Abramson, la crisi non c'entra

Jill Abramson diceva da mesi agli amici che avrebbe dato le dimissioni dopo le elezioni presidenziali del 2016, ma il piano era viziato da un ingiustificato ottimismo intorno alla solidità della sua posizione. La prima donna a dirigere il New York Times non è arrivata nemmeno alle elezioni di midterm, e il tesissimo cerimoniale dell’avvicendamento, annunciato allo staff con mezz’ora di preavviso, mostra che quello che è successo nei prestigiosi corridoi dell’Ottava avenue non potrebbe essere più lontano dall’idea delle dimissioni volontarie o di una separazione consensuale.

    Jill Abramson diceva da mesi agli amici che avrebbe dato le dimissioni dopo le elezioni presidenziali del 2016, ma il piano era viziato da un ingiustificato ottimismo intorno alla solidità della sua posizione. La prima donna a dirigere il New York Times non è arrivata nemmeno alle elezioni di midterm, e il tesissimo cerimoniale dell’avvicendamento, annunciato allo staff con mezz’ora di preavviso, mostra che quello che è successo nei prestigiosi corridoi dell’Ottava avenue non potrebbe essere più lontano dall’idea delle dimissioni volontarie o di una separazione consensuale. Abramson è stata cacciata ex abrupto, anche se forse non così “unexpectedly” come ha scritto lo stesso New York Times. Da almeno un anno circolano voci su dissapori interni, malumori redazionali, lamentele dai piani superiori e anche strane asimmetrie nel rapporto stato-chiesa, come chiamano in gergo la separazione fra la redazione e l’impresa editoriale. Non è un caso se Abramson è stata anche umiliata dall’editore, Arthur Sulzberger, che le ha riservato un trattamento che al confronto la dipartita di Howell Raines, cacciato a pedate per via dello scandalo dei plagi di Jayson Blair, sembra un’uscita a testa alta.
    Sulzberger non ha spiegato la manovra se non con un riferimento a “problemi nella gestione della redazione” e non ha nemmeno invitato Abramson a dire due parole di commiato ai suoi, escludendo senza colpo ferire la donna che il Times se l’è tatuato sulla pelle, tanto per dire della fedeltà alla causa.
    Ricostruire i reali motivi del divorzio è attività complessa in cui si stanno esercitando tutti i commentatori d’America, tirando in ballo la discriminazione di genere, lo stipendio, gli scheletri della Bbc e i pugni al muro del successore di Abramson, Dean Baquet. C’entra persino Alec Baldwin. Ma intanto vale la pena notare ciò per cui la direttrice non è stata cacciata: perché il Times andava male. Nei due anni e mezzo in cui ha diretto il giornale, periodo terribile per l’industria dei media, il Times è andato bene in termini di copie, ricavi, espansione digitale. La sua cacciata non è figlia della crisi o di insuccessi misurabili in termini economici.

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    Nel primo trimestre di quest’anno il Times ha avuto ricavi per 30 milioni di dollari, con un margine di profitto di 22 milioni, in crescita rispetto al trend dei mesi precedenti. Anche la pubblicità è cresciuta. Se i profitti trimestrali sono calati rispetto a un anno prima è perché il giornale ha sostenuto importanti “investimenti strategici” per l’innovazione, sforzo che si è dimostrato proficuo. In un’industria dove le teste saltano ovunque a causa delle performance, la dipartita di Abramson è un’anomalia, una faccenda inquadrabile esclusivamente in termini di incompatibilità personali e faide interne.

    Ken Auletta, giornalista del New Yorker e autorevole esegeta dei meccanismi interni del Times, scrive che la situazione è precipitata quando, alcuni mesi fa, Abramson ha scoperto che il suo stipendio e i benefit per la pensione erano sensibilmente inferiori rispetto a quelli dei suoi predecessori, che incidentalmente erano maschi. L’azienda dice che il trattamento economico era “perfettamente comparabile” a quello dell’ex direttore Bill Keller, mentre per quanto riguarda la pensione ammette la discrepanza, ma soltanto perché l’entità del fondo dipende dal numero di anni di servizio in azienda. Accanto alle prosaiche motivazioni di salario ci sono però incompatibilità caratteriali che lo stile brusco, a tratti autoritario, di Abramson non ha aiutato ad appianare. Sulzberger non ha mai apprezzato il profilo troppo alto che la direttrice ha tenuto dopo la sua nomina, concedendo interviste a profusione e offrendo materiale per ritratti che hanno reso lei stessa un prodotto di consumo giornalistico. Ed è stata l’intervista con Alec Baldwin a far infuriare definitivamente l’editore. Non sono andate meglio le cose con Mark Thompson, ceo dell’azienda preso dalla Bbc. Innanzitutto Abramson ha mandato a Londra un aggressivo team di cronisti per indagare sul suo coinvolgimento nello scandalo della pedofilia che ha investito i vertici del network inglese; poi ha ingaggiato una guerra strategica a proposito dell’uso dei video sul sito per aumentare il traffico e sull’opportunità di usare inserzioni pubblicitarie “native”. Infine ha manovrato segretamente per assumere Janine Gibson del Guardian come vicedirettore, con l’idea di affiancarlo a Baquet, il quale però non è stato informato di nulla. Baquet, amato dalla redazione e da Sulzberger, non l’ha presa bene, così come non ha preso bene le critiche troppo puntute su certe prime pagine “noiose” approvate dal suo secondo. Una situazione del genere non poteva durare, nemmeno fino al 2016.