Il direttore di Repubblica Ezio Mauro (foto LaPresse)

A tu per tu

La mia Repubblica

Salvatore Merlo

Il direttore di Repubblica è apparso all’improvviso, non saprei dire se da destra o da sinistra di via San Teodoro, cinquanta metri dalla Bocca della verità. E adesso mi guarda come si guarda un piatto di minestra fredda. E’ la seconda volta che ci incontriamo, ma lui comprensibilmente non lo ricorda. Era appena nato il governo di Enrico Letta e quel giorno facevo anticamera, sprofondato su un polveroso divano in un anonimo corridoio di Palazzo Chigi.

Il direttore di Repubblica è apparso all’improvviso, non saprei dire se da destra o da sinistra di via San Teodoro, cinquanta metri dalla Bocca della verità. E adesso mi guarda come si guarda un piatto di minestra fredda. E’ la seconda volta che ci incontriamo, ma lui comprensibilmente non lo ricorda. Era appena nato il governo di Enrico Letta e quel giorno facevo anticamera, sprofondato su un polveroso divano in un anonimo corridoio di Palazzo Chigi. E anche quel giorno il direttore apparve come in sogno, dal nulla. Scattai in piedi, sorpreso e ancora intontito da un principio d’abbiocco. Il direttore di Repubblica, un’apparizione incongrua. “Ciao direttore, piacere, Salvatore Merlo”. E lui: “Ah! Da dove si esce?”. Lo descrivono freddo, privo di sense of humour, e compreso dalla coscienza della sua posizione, imbevuta di senso del dovere e d’una straordinaria resistenza fisica. E invece oggi, seduti a un tavolo della trattoria “da Alvaro”, qui a Roma, a un tiro di schioppo dal Circo Massimo, lo vedo e lo sento ridere, d’un bel sorriso spontaneo, quasi fanciullesco. Ed Ezio Mauro sorride mentre racconta della sua ultima telefonata con Silvio Berlusconi, che si è svolta all’incirca così: il Cavaliere telefona per lamentarsi dei magistrati, dell’accanimento giudiziario, per protestare la sua innocenza (“e io rimango stupefatto – racconta Mauro – che Berlusconi chiami me, malgrado sappia che è una telefonata perfettamente inutile”). E insomma, il direttore è nell’ufficio centrale di Repubblica, “non ricordo più se fosse di sera o di mattina”, al telefono con Berlusconi in veste d’avvocato di se stesso. Ma il Cavaliere non fa in tempo a pronunciare le prime parole che il direttore lo interrompe: “Senta, prima di tutto mi dia la prova di essere davvero Berlusconi”. E il Cavaliere disorientato: “Ma come la prova?”. E Mauro: “Sì, mi deve dare la prova che è lei”. E il Cavaliere: “E come faccio?”. E Mauro: “Intanto mi dia un numero di telefono, e mi dica il nome della persona che risponderà”. Così Berlusconi, diligente, detta il numero di telefono a Ezio Mauro. Il direttore di Repubblica prende nota, abbassa il ricevitore, verifica il numero di telefono con i suoi cronisti politici, e infine richiama la segreteria di Berlusconi. Appena glielo passano, una voce raggiante dall’altro lato della cornetta: “Ma lo sa che ha fatto bene?”.

E Mauro parla del Cavaliere non senza una sfumatura di simpatia. Con lo sguardo sembra dire: Berlusconi è proprio un figlio di puttana simpatico. Così glielo chiedo: ma non è che l’Egoarca, come lo chiamava D’Avanzo, ti sta simpatico? Mauro ci pensa un po’. Poi risponde: “E’ lui che usa le categorie dell’odio e dell’invidia. Io credo che ci sia molto poco da invidiare. Ma l’odio, veramente, non mi appartiene. Diciamo che subisco l’incantamento della cavia per il pitone”. E mentre dice queste parole gli brilla l’occhio ironico. Dunque Mauro costeggia quasi teneramente il profilo di Berlusconi, amato nemico, illustrandone il fascino e il pericolo: “E’ un fenomeno che studio da anni, che guardo con grande attenzione, alla fine è normale che diventi quasi familiare”. E qui il direttore ritorna serio.

“Considero Berlusconi un soggetto molto dannoso per il paese. Ha governato molto male. Ma lo considero anche un ‘campaigner’ straordinario. La colpa capitale che gli faccio, oltre a quelle ovvie, sul conflitto d’interessi e sulle leggi ad personam, è di aver abbassato l’immagine dell’Italia nel mondo a livello dei luoghi comuni peggiori, degli stereotipi, dei pregiudizi negativi. E poi gli faccio la colpa d’aver cercato l’immortalità nei ‘salvarughe’ di Scapagnini, quando invece poteva cercarla nella fondazione d’una moderna cultura conservatrice in un paese che a destra è stato doroteo o reazionario, ma non ha mai elaborato una cultura occidentale, europea”. Così Mauro recupera uno sguardo divertito, quasi complice. “Berlusconi è un fenomeno enorme”. Poi mi guarda con questi suoi occhi scuri e mobilissimi. “Altrimenti non sarebbe valsa la pena di farsi ossessionare. Non ti pare?”. E così racconta, con un sorriso timido, o forse malizioso: “Per capire Berlusconi sono arrivato a leggere i mistici indiani. Lui mi ha portato in territori inesplorati. Mi sono spinto persino a consultare saggi sullo sciamanesimo. E non ho ancora risolto la domanda fondamentale, pur essendo io un esperto ad honorem del berlusconismo. Cioè la domanda è: quanto è istinto, e quanto è teoria politica? Quanto c’è di destra realizzata e quanto invece d’impulso naturale in Berlusconi? Ogni giorno lui mi dà un’impressione diversa”. Pensi che lascerà candidare sua figlia Marina? “So che la tentazione dinastica è la più titanica, non è la più rassicurante. E’ la più titanica perché perpetuerebbe un’eccezione: Berlusconi usa regole diverse. E poi è la più titanica perché perpetua il peccato originale. Il conflitto d’interessi”.

La trattoria di Alvaro è un posto semplice, e il direttore è di casa. “Dotto’, sto ragazzo chi è? Suo nipote?”. E insomma veniamo accolti con quella strana, ambigua cerimoniosità degli osti romani, la vaga impressione d’essere presi sempre un po’ per i fondelli. E’ un modo di fare particolarissimo, forse unico, che di solito infastidisce sia i meridionali, abituati alle affettazioni dell’ossequio, sia i settentrionali, abituati al distacco e alla freddezza d’un servizio il più impersonale possibile. Ma al direttore – che è piemontese – il carattere romano sembra piacere. “Questa città se ne frega di te”, mi dice con tono soddisfatto. “E’ meraviglioso”, addirittura. “Se tu non vuoi avere riflessi mondani di alcun tipo è perfetta. Ti invitano, poi non vai, pensano che sei un maleducato e non ti invitano più”. Dunque preferisci Roma a Torino, la tua città? “Roma è la città dove intendo passare il resto della mia vita. A Torino ormai ci vado come un turista. E’ concentrica, piccola, piramidale. E c’è un maggiore controllo sociale”. E insomma il direttore si vanta di non frequentare il così detto mondo. E mi racconta che fu l’Avvocato Agnelli, un giorno di tanti anni fa, a consigliargli distanza dai salotti romani, quelli che poi sarebbero diventati – o forse lo erano già? – il “cafonal” di Dagospia, ambienti etichettosi, lisci, talvolta malinconici. Ed ecco l’aneddoto. Era il primo maggio del 1996, il due maggio Mauro avrebbe preso servizio a Repubblica per sostituire Eugenio Scalfari. Ma quella mattina, a un certo punto, inatteso squilla il telefono di casa, mentre la famiglia si prepara a una gita fuori porta (Ezio Mauro ha tre figli).

Alla cornetta è Gianni Agnelli. “Può passare un attimo da me?”. “Arrivo”. Così il direttore raggiunge l’Avvocato, probabilmente chiedendosi durante il tragitto in macchina quale mai fosse la ragione di questo incontro così urgente, adesso, a un solo giorno dal trasferimento a Roma. “Senta”, esordisce Agnelli. “Mi è venuta in mente una cosa, ci pensavo ieri notte: quante volte è andato nei salotti qui a Torino?”. “Mah, non so. Forse un paio di volte”. “Diciamo che lei c’è andato una volta l’anno. E’ stato qui sei anni, dunque è stato nei salotti per sei volte. Allora, faccia la stessa cosa a Roma. E vedrà che andrà bene”. Apologo che ne ha tratto il direttore: “Agnelli si sarà dimenticato di questo consiglio un minuto dopo averlo dato. Io l’ho messo in pratica”. E a Roma Ezio Mauro ci sta benissimo. Ma a Torino hai ancora casa? “Non più. Nel 2008 ci avrò dormito otto volte. Così adesso vado in albergo. Ma a Torino ho mio figlio grande, la considero ancora la mia città malgrado tutto”. E sei anche molto legato alla cultura azionista, a Bobbio e Galante Garrone. “Sulla scrivania ho una vecchia tessera del partito d’Azione. In bianco. Considero l’azionismo un punto di congiunzione tra Repubblica e il mio mondo torinese”. Gente severa, gli azionisti. E’ una critica che si fa anche al tuo giornale: siete troppo seri. “Uhm”. La pausa è lunga. E il volto del direttore, intanto, si compone sempre più in una strana, indecifrabile espressione. Come l’ombra d’un sorriso gli si dipinge via via sul volto. E dunque: “Può darsi che abbiano ragione”, dice guardando verso il basso. Forse è il tuo carattere, gli dico. Sei un piemontese tutto d’un pezzo. “A me piace molto scherzare con gli amici”, quasi si difende. “Però quando andavo a lavorare, a Mosca, dove ho fatto l’inviato per tre anni, mi mettevo sempre la cravatta. Me la mettevo anche se non c’era nessuno in ufficio, anche se era domenica, anche se non avrei incontrato anima viva. Però mi mettevo la cravatta. Per una questione di riguardo, di rispetto nei confronti del lavoro. Ma ti assicuro che a Repubblica, tra di noi, ridiamo molto”.

Veniamo raggiunti dal cameriere. “Che ci mangiamo, dotto’? Una pasta, un pescetto?”. Il direttore, qui, mangia sempre broccoli e pesce spada, ma il pesce spada è finito. Allora ordiniamo broccoli e spigola, almeno credo. Niente vino. A questo punto chiedo a Ezio Mauro cosa pensa quando legge sui giornali delle manovre vere o presunte di Carlo De Benedetti sulla politica italiana. Dicono che Repubblica sia un giornale partito. “Io non ho il talento del kingmaker, non mi dà soddisfazione”, mi risponde. “Da queste cose non se ne ricava alcuna soddisfazione intellettuale. Sono una perdita di tempo, un’ambizione miserevole. Certe volte sono stupefatto di quanto poco parlo con gli uomini politici. Ci sono persone con le quali abbiamo inaugurato il quarto anno di incomunicabilità”. Gli chiedo chi sono, ma non me lo dice. Alfano, suggerisco. E vedo il direttore torreggiare dall’altro lato del tavolo, amichevolmente ironico. “Parlo poco con i protagonisti della politica. Ma parlo molto con i miei giornalisti”. Veniamo a De Benedetti. “Che cosa ha fatto nella vicenda Barca? Non vedeva Barca da almeno quattro mesi. Stamattina abbiamo controllato la sua agenda, l’ultima volta l’ha fatto chiamare dalla sua segretaria per invitarlo a cena con altre dodici persone. E non ha mandato nessun sms. Mai. La verità è che si vuole accusare Repubblica di intrigare. Penso invece che Renzi non cerchi l’imprimatur di nessun potere. E fa bene”. Intanto, dal televisore acceso, nella sala del ristorante, i titoli del Tg1 s’inseriscono coerenti e inevitabili, come un congruo sotto testo: “Il presidente della Repubblica incarica Matteo Renzi...”. Domanda (quasi) retorica: con Renzi ci parli? “Sì. Lui ti manda un sms, e ti dice: quando hai tempo chiamami. Normalmente le persone che hanno il tuo numero ti chiamano e basta. Lo sento quando ho bisogno di aver spiegata una cosa, una mossa, un fatto”. Ma Renzi ti piace? “Parto dal principio che è molto diverso da me”. Pausa, tono ironico: “E probabilmente è un bene per il paese che Renzi sia diverso da me”. Nel senso che tu sei un carattere più riservato. Lui è invece, come dire, ribaldo? “Lui ha un aspetto da bullo. I fiorentini si sentono il centro del mondo. Ma è la concezione della sinistra che ci allontana, non la geografia… Può darsi che la sua visione sia più al passo coi tempi. Una volta è venuto a Repubblica tv, erano i giorni delle primarie con Bersani, quelle che Renzi ha perso. Ci conoscevamo poco. L’ho accompagnato al piano di sopra, dove ci sono gli studi della televisione. E gli ho detto: ‘Ci sono due parole che non riesci a pronunciare: Berlusconi e sinistra. Sappi che esistono dei bravi logopedisti’. Poi gli ho detto: ‘Io voto Bersani. Se vuoi dopo le primarie ti racconto perché non ti ho votato’”. E dopo glielo hai spiegato perché non lo hai votato? “Sì. Gli ho detto che non l’avevo votato perché se n’era fottuto di gente come me. Cioè di qualche milione di persone di sinistra in cerca di rappresentanza. Nella prima campagna delle primarie la questione della sinistra veniva circuitata interamente dalla questione del cambiamento. E la questione del cambiamento veniva circuitata dalla questione anagrafica. E così era un po’ riduttivo”.

Cos’è Renzi per te? “Per la sinistra è l’ultima chance. Non c’è un altro leader pronto. Non c’è il famoso avvocato di 38 anni che torna in Italia e ha voglia di impegnarsi. E anche se ci fosse rischierebbe di non trovare nemmeno l’indirizzo del Pd. E se per caso lo trovasse, allora non troverebbe il campanello. E se anche per caso alla fine trovasse il campanello, è facile che gli rispondano: ‘Mi dispiace ma noi abbiamo Livia Turco’. E quando lui ribatte: ‘Ma io sono giovane’, quelli sono capaci di dirgli così: ‘Ma noi abbiamo Livia Turco di tutte le età’… E il mio non è un giudizio su Livia Turco, ma un giudizio sulla capacità che il Pd ha di non cercare talenti, magari di scartarli, nel pregiudizio che la classe che guida il partito sia una classe di predestinati. I sovietici la chiamavano la classe eterna”. Scalfari lo critica molto Renzi. Non gli piace per niente. “Sì, praticamente non si conoscono. Ma penso che questa sia una ricchezza.  L’opinione di Eugenio è molto diffusa tra i nostri lettori, e nella sinistra. E penso che Renzi sia consapevole dell’autenticità di questa posizione”. Lo ha paragonato a Mussolini. “Ma non per l’aspetto dittatoriale”. La rottamazione cos’è? Un po’ è anche  “giovinezza giovinezza”, o no? “La puoi anche vedere così.  A me la parola non piace. Non è un lessico di sinistra. Ma la gente ha percepito altro: basta rendite di posizione. E in questo senso, rottamazione è una parola positiva. No?”. E qui Ezio Mauro dice una cosa forte: “Renzi mi interessa se è lo strumento leaderistico per portare la sinistra alla guida del paese. Credo che solo la sinistra abbia le pinze e le tenaglie per rilanciare l’Italia fuori dalla crisi. Ma se la sinistra diventa soltanto uno strumento per portare Renzi al potere, allora la cosa mi interessa molto meno. La sinistra non è un taxi”. Renzi è il primo vero leader dopo Berlinguer? “Berlinguer e Craxi. Lui ha molte caratteristiche craxiane: la tattica, la spregiudicatezza, la rottura degli schemi”. Niente di berlusconiano? “Niente, se non l’essere figlio di un’epoca dove le coordinate culturali e simboliche sono state molto segnate dal berlusconismo. Questo sì. Non possiamo negare i dati della realtà: è sceso in campo per sfidare e battere Berlusconi”. A questo punto faccio notare al direttore che ha appena usato l’espressione “scendere in campo”. Lui sorride.

Gli chiedo: hai detto che Scalfari è una ricchezza, però non condividi quello che scrive, sbaglio? “Cosa vuoi che sia non condividere alcuni aspetti della contingenza quando si ha una comune idea dell’Italia e delle cose? Eugenio intuì che esisteva il mondo di Repubblica, e gli ha dato forma. Cosa c’è di più bello? Il nostro è un rapporto molto complesso, sai. Non esiste da nessun’altra parte che il direttore entrante di un giornale abbia un rapporto così forte e quotidiano con il suo predecessore. A noi fa piacere parlare di politica e giornali. Io ho avuto la fortuna di lavorare con tutti quelli con i quali volevo lavorare. Volevo lavorare con Scalfari, volevo lavorare con Bocca, da ragazzo volevo lavorare con Pansa”. Tu e Scalfari avete mai litigato? “Una volta ci siamo scambiati delle lettere… come si potrebbero definire?… due lettere lunghe, su punti di vista divergenti. Poi ci siamo abbracciati.

Fortunatamente. Io penso che sia una grandissima fortuna. Penso che ci abbiamo messo qualcosa tutti e due. Tieni conto, questo non lo sa nessuno. Tieni conto che noi c’eravamo visti solo sette volte prima che io diventassi direttore. Nei tre anni che ho passato a Mosca non l’ho chiamato mai”. E perché non lo chiamavi? “Perché pensavo che me la dovessi cavare da solo. Pensavo che il direttore avesse da fare. Ho scelto Mosca perché il pane era più duro. Il giorno dopo che Eugenio mi propose di andare in Russia, Stille mi offrì di andare in America per il Corriere. Lo incontrai a Milano, a pranzo. Ed Eugenio mi diceva, preoccupato: ma non hai ancor firmato! E io gli risposi così: ho fatto di peggio, ho deciso”. Cosa ricordi dell’Unione Sovietica? “A Mosca ho capito cosa vuol dire essere occidentali. Così in entrambi i contratti da direttore che ho firmato, sia con la Stampa sia con Repubblica, ho chiesto che tra i valori, oltre all’ideale europeo, alla Costituzione, alla laicità, venisse aggiunto anche il concetto di occidente”. Prima di te ho intervistato Ferruccio de Bortoli. C’è qualcosa che invidi al Corriere? (Nota: il direttore mi ha spiegato il suo ordine di sfoglio la mattina. Legge per primi i giornali della destra).

“Invidio il Corriere nei giorni in cui le notizie sono basse, quando i numeri sono ordinari. Il Corriere può dire al lettore: guarda, io sono fatto dello stesso legno di cui è fatto il Senato della Repubblica. Noi di Repubblica siamo il primo giornale d’Italia. Ma subiamo la magnifica maledizione di dover, ogni giorno, conquistarci il nostro stare al mondo. Io dico sempre che Repubblica è una certa idea dell’Italia. Che è una formula di Gobetti. Ma è così. E’ quello che la gente compra tutti i giorni in edicola. Compra un’interpretazione del mondo. Magari a volte non gli piace: Renzi divide, Berlusconi unificava. Com’è evidente. Durante la fase più calda della battaglia delle 10 domande, quando siamo stati portati in tribunale dal Cavaliere, con Peppe D’Avanzo ci ripetevamo una strofa dei Beatleas: nothing is gonna change my world”. D’Avanzo manca a Repubblica? “D’Avanzo manca a me. Tutti i giorni”. Il Fatto polemizzò con lui. Il Fatto è un concorrente di Repubblica? “Non credo proprio”. Dopo De Benedetti che sarà del tuo giornale? “I giornali hanno bisogno di riferimenti fisici, nel senso biografici, culturali”.

Sembra di capire che i figli di De Benedetti non siano così interessati all’editoria. “Rodolfo è molto vicino”, dice il direttore. E lo ripete: “Rodolfo è molto vicino. E’ una famiglia che ha rispettato molto il giornale”. I De Benedetti non fanno pressioni sul giornale? “In Italia si immagina chissà che cosa. Quando dicono ‘il partito di Repubblica’, ‘la lobby De Benedetti-Repubblica’. Pensano che facciamo delle riunioni segrete. Ma come si fa? Si decide un modulo giornalistico in una riunione fuori dalla redazione? Dai, su”. Intanto sono passate quasi due ore da quando ci siamo seduti, e adesso un cameriere volteggia intorno al tavolo. La sala è vuota, ci siamo solo noi due. Dunque dall’alto precipita una frase palindromo-romana: “Dotto’, noi magnamo. Ma voi potete restà”. Il direttore guarda l’orologio, forse capisce l’antifona, ma più probabilmente ha un impegno. “Andiamo”. Il congedo è rapido, quasi fulmineo. Così com’era apparso, magicamente Ezio Mauro scompare. Anche stavolta non saprei dire se è andato verso destra o verso sinistra. E forse perché sono io che mi sono perduto in tutte quelle cose chi mi ha detto sul giornalismo, tracciando persino degli schemetti e degli ideogrammi sul taccuino che mi ha strappato di mano. Non le ho scritte perché ho “soltanto” una pagina.

Il primo ospite della collana “A tu per tu” è stato, il 19 febbraio, Ferruccio de Bortoli

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.