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Saccomanni flop

La grama carriera politica dei Bankitalia boys, da geni a esecutori

Redazione

Mancava solo il “non siamo su Scherzi a parte” di Matteo Renzi per mettere il sigillo su una parabola: quella degli ex della Banca d’Italia entrati nel governo e nella politica. Tra balbettamenti sulla Tasi, sulla ripresa economica (ha appena annunciato l’uscita dalla crisi ed ecco, ieri, i dati Istat sul nuovo aumento della disoccupazione al 12,7 per cento), infine i 150 euro al mese da togliere agli insegnanti (sconfessato dal segretario pd, dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, infine dallo stesso Enrico Letta, finché si è autodefinito “un mero esecutore”, non proprio il massimo per il responsabile dell’Economia), ora Fabrizio Saccomanni rischia non solo la poltrona, con i rumors che lo vorrebbero in uscita dopo il giudizio definitivo della Ue sulla Legge di stabilità.

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Mancava solo il “non siamo su Scherzi a parte” di Matteo Renzi per mettere il sigillo su una parabola: quella degli ex della Banca d’Italia entrati nel governo e nella politica. Tra balbettamenti sulla Tasi (la tassa sui servizi indivisibili che sostituisce l’Imu sulla prima casa), sulla ripresa economica (ha appena annunciato l’uscita dalla crisi ed ecco, ieri, i dati Istat sul nuovo aumento della disoccupazione al 12,7 per cento), infine i 150 euro al mese da togliere agli insegnanti (sconfessato dal segretario pd, dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, infine dallo stesso Enrico Letta, finché si è autodefinito “un mero esecutore”, non proprio il massimo per il responsabile dell’Economia), ora Fabrizio Saccomanni rischia non solo la poltrona, con i rumors che lo vorrebbero in uscita dopo il giudizio definitivo della Ue sulla Legge di stabilità. Di più, l’ex numero due di Via Nazionale vede leso lo status di uomo della più stimata alta istituzione del paese, l’“Ena italiana”.

Sfregiato da una citazione presa direttamente dai dopocena Mediaset. Qualcosa che brucia più delle perenni critiche di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, per le quali Saccomanni è sì molto seccato, ma in fondo si tratta di roba da palati fini. Brucia assai più degli attacchi di Renato Brunetta e delle battute d’antan di Giulio Tremonti, che per alcuni rappresentano ancora una medaglia. Qui c’è di mezzo qualcosa di profondo: perché “Scherzi a parte” lo capiscono trasversalmente tutti, e quindi mostra il re nella sua nudità; ma anche rischia di esporre la casa madre, la “ditta”, insomma la Banca d’Italia. Della quale, pur essendo ormai fuori dai giochi dopo la nomina a governatore di Ignazio Visco, Saccomanni è comunque il testimonial, e come tale voluto dal presidente Giorgio Napolitano nella lista dei ministri. Così ora chi volge lo sguardo al passato, e lasciando alla storia Luigi Einaudi e Guido Carli, si accorge di una sfilza di esperienze controverse. Lamberto Dini, tecnico di prim’ordine al Fondo monetario e in Bankitalia, ma deludente politico. Tommaso Padoa-Schioppa, non memorabile membro del board della Bce, e quindi ministro dell’Economia del secondo governo Prodi.

Padoa-Schioppa divenne ministro su endorsement dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, suo ex numero uno in Via Nazionale, e di Eugenio Scalfari, suo mentore su Repubblica che “TPS” impreziosiva di paginate. Scomparso nel 2010, era stato prima inviato a Francoforte dalla nomenclatura ulivista per salvarlo dall’arrivo in Via Nazionale di Antonio Fazio, assai diverso interprete del ruolo di banchiere centrale. Fazio era teorico della banca di sistema, TPS aveva una concezione “da partito d’Azione, da ottimati” (definizione di Giulio Andreotti ripresa da Tremonti). Fazio era cauto sull’euro, Padoa-Schioppa si disse “esaltato dall’idea di una moneta senza stato”. Ma alla fine TPS resta quello delle “tasse sono bellissime”, che fece perdere voti agli allora Ds, con uno come Vincenzo Visco che sbottò di bile per quel ministro che non si riusciva a controllare né mandava avanti le leggi impostate da lui e da Pier Luigi Bersani. Anche Mario Monti, allora editorialista del Corriere e presidente della Bocconi, definì in tv “non all’altezza delle aspettative la linea economica del governo Prodi-Padoa-Schioppa”: in privato parlava di una casta “che vola alta sulla politica, mentre servono politiche”.

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Ma allora che dire di Carlo Azeglio Ciampi, simbolo di una lunga genìa di salvatori della Patria, passato da governatore di Bankitalia a Palazzo Chigi, al Tesoro, al Quirinale? Alcuni, fra i quali Monti e Giuliano Amato, distinguono tra l’esperienza di capo del governo e quella di ministro del Tesoro: nella prima portò la concertazione ai massimi livelli quando servivano decisioni impopolari su pensioni e pubblico impiego. Quelle cioè che prese Amato. Al Tesoro invece Ciampi non si nascose i rischi dell’euro che si profilava, e non li nascose a Prodi (che invece dopo il fallimento dell’accordo con la Spagna per rinviare l’adesione alla moneta unica, ne accelerò l’ingresso alle condizioni della Germania), né a un più realista Massimo D’Alema. Ma soprattutto gli si dà il merito – parola di un ex ministro di centrodestra – di “aver cercato di mettere in riga le banche”, forte della moral suasion praticata da governatore.

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Però il forse unico prodotto di successo della scuola Ciampi è stato Mario Draghi, già suo direttore del Tesoro. Ma il presidente della Bce si era emancipato dal marchio dei Ciampi-boys andando alla Goldman Sachs, da dove Silvio Berlusconi lo scelse a fine 2005 come successore di Fazio, battendo i due candidati interni, anche loro di matrice Ciampi e sostenuti dal Quirinale e dal “partito di Scalfari”: Padoa-Schioppa e Saccomanni. Da lì, sempre a opera del Cav. e nonostante lo sbarramento di Tremonti, sarebbe volato all’Eurotower: l’unico vero risultato in Europa dell’Italia, e a ben vedere anche del club di Via Nazionale, pur essendo Draghi il più estraneo fra tutti. Draghi a Francoforte non fa politica, ma è un maestro nel capirla, ha detto una volta di lui al Foglio l’ex collega Giavazzi.

Le “catene brussellesi” per Piga e Realfonzo
Certo è che ora, con Saccomanni, molti prevedono che la filiera dei Bankitalia boys stia per esaurirsi. A Palazzo Chigi c’è chi gli rimprovera di avere sostituito alla concertazione sindacale (abolita da Monti) quella con la lobby dei sindaci, rappresentati dal ministro renziano Graziano Delrio. La Banca d’Italia resta una degnissima istituzione, ma ha perso potere; né può fare da sponda al Tesoro: Via Nazionale continua a chiedere di ridurre la pressione fiscale e riformare il lavoro, cose che appaiono solo promesse nell’agenda del ministro. Gli ultimi dati di dicembre di Bankitalia dicono che l’Italia ha raggiunto, con il 44 per cento, il quarto posto in Eurolandia per peso delle tasse, e il secondo dopo la Grecia per debito pubblico, smentendo dunque Saccomanni e Letta. Quanto all’Europa, la sensazione è che l’asse tra Banca d’Italia e Draghi alla Bce scavalchi Saccomanni. E brucia ancora la doppia stroncatura del commissario economico Olli Rehn sulla Legge di stabilità.

Proprio sul (basso) profilo europeo di Saccomanni mettono l’accento, con il Foglio, gli economisti Gustavo Piga (Università di Tor Vergata) e il neokeynesiano Riccardo Realfonzo, docente all’Università del Sannio. “Mi hanno colpito – dice Piga – le dimissioni del viceministro Stefano Fassina. Se non le si legge solo come affare interno al Pd, esse riflettono l’incapacità di incidere in Via XX Settembre. E se anche Saccomanni non si dimostra all’altezza, allora ci si deve chiedere: a chi è in mano la politica economica italiana? La mia risposta è: all’Europa, alla Commissione Ue”. Realfonzo definisce “reali” le difficoltà degli ex Bankitalia alla prova del governo: “Padoa-Schioppa fu il principale artefice del crollo del governo Prodi e del tonfo elettorale del centrosinistra. Saccomanni è il custode di un’adesione meramente contabile ai vincoli europei, a partire dal noto rapporto deficit/pil al 3 per cento: l’approccio dominante in Banca d’Italia, e quello dell’establishment europeo. Esiti recessivi e flop politici sono così assicurati”. Ma non è solo questione di eccesso di euro-ortodossia: c’è un fatto di appeal. Se parla il tedesco Wolfgang Schäuble tutti scattano sull’attenti. Così come per l’inglese George Osborne. Per non dire di Draghi. Si può affermare lo stesso per Saccomanni? 

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