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Peter O’Toole

Mariarosa Mancuso

Aveva finito la recita a teatro, il camerino era sprovvisto di bagno. Decise di pisciare nel lavandino – “così fan tutti” – e nel mentre si aprì la porta. Era Katharine Hepburn, passata per complimentarsi. Insieme avrebbero girato “Il leone d’inverno” di Anthony Harvey. Peter O’Toole nella parte di Enrico II, lei nel ruolo della moglie Eleonora d’Aquitania, riuniti in un castello bretone per festeggiare il Natale con i figli e re Filippo di Francia (Timothy Dalton, venti anni prima che lo scegliessero come James Bond). Complotti, litigi, gelosie, guerre anticipate per la successione.

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Aveva finito la recita a teatro, il camerino era sprovvisto di bagno. Decise di pisciare nel lavandino – “così fan tutti” – e nel mentre si aprì la porta. Era Katharine Hepburn, passata per complimentarsi. Insieme avrebbero girato “Il leone d’inverno” di Anthony Harvey. Peter O’Toole nella parte di Enrico II, lei nel ruolo della moglie Eleonora d’Aquitania, riuniti in un castello bretone per festeggiare il Natale con i figli e re Filippo di Francia (Timothy Dalton, venti anni prima che lo scegliessero come James Bond). Complotti, litigi, gelosie, guerre anticipate per la successione. Trionfò la mecenate che alla corte di Poitiers ospitava i trovatori. L’attrice non accennò mai più all’incidente con la cerniera.

Lo raccontò Peter O’Toole al Festival di Telluride, nel 2002, interrogato dal critico Roger Ebert. Ora sono tutti e due riuniti nel paradiso degli intelligenti, che l’attore sperava fumoso e alcolico: ogni intervistatore certifica il portasigarette con le Gauloises, almeno due bottiglie di scura birra irlandese, vari cicchetti ad alta gradazione. L’Oscar era arrivato in ritardo, nel 2003, dopo otto candidature inevase. Non l’avrebbe neppure voluto ritirare, poi cambiò idea: ufficialmente per educazione, in realtà perché ci teneva moltissimo. E siamo sicuri che quando Brad Bird gli offrì l’occasione di prestare la voce al critico Anton Ego in “Ratatouille” un po’ di veleno era diretto ai giurati dell’Academy.

Uno degli Oscar mancati fu per “Lawrence d’Arabia” (lo vinse Gregory Peck con “Il buio oltre la siepe”, dramma a sfondo razziale tratto dal romanzo di Harper Lee, amica di Truman Capote e vincitrice di un Pulitzer nel 1960). Con i criteri da “film che non maltratta le donne” (così come li ha enunciati Alison Bechdel, autrice di “Lesbiche da tenere d’occhio”, in un suo fumetto di tanto in tanto rispolverato) non passerebbe l’esame: mancano le due femmine, quantità minima richiesta, e quindi non possono dedicarsi a discorsi non sentimentali o matrimoniali. Non ce n’è neppure una, perché siamo nel deserto arabo, tra le tribù che l’archeologo e agente dei servizi segreti britannici Thomas Edward Lawrence vorrebbe riunire, e promuovere ad alleati contro i turchi durante la Prima guerra mondiale.

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Basta per tenere una fanciulla – innamorata di Jane Austen che certo non supera il Bechdel Test, Elizabeth Bennet ha quattro sorelle e una madre ma solo di uomini parlano – lontana dal film. L’unico motivo per cambiare idea erano gli occhi azzurri di Peter O’Toole, incorniciati dal copricapo beduino dell’inglese che volle farsi arabo. Per questo viene selvaggiamente punito dal governatore turco, che prima cerca di sedurlo e poi passa alle maniere forti. Scrive Lawrence nei “Sette pilastri della saggezza”: “La cittadella della mia integrità è andata perduta”. Il film di David Lean – che avrebbe voluto scritturare Albert Finney o Marlon Brando, Peter O’Toole fu un rimpiazzo – negli innocenti anni Sessanta alludeva a frustate e umiliazione. Rivisto con gli occhi smaliziati d’oggidì, fa immaginare una grandiosa complicità tra censori, registi, genitori che portavano al cinema i ragazzini.

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Gli occhi azzurri risplendevano anche in “Venus”, tratto da un racconto di Hanif Kureishi e diretto da Roger Mitchell nel 2006. Anziano attore sedotto da un’adolescente: la parte che ti tocca quando hai superato in gloria i settant’anni, e ti neghi ai registi vogliosi di farti recitare in un film dell’orrore.

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