L'Italia dei Boldrini processata da un gran Marchionne

Redazione

Vorrei approfittare di questa occasione anche per parlare direttamente a tutti voi che lavorate in Fiat. La Fiat non è un’azienda senza volto. La Fiat siamo tutti noi.  Siamo decine di migliaia di persone che hanno deciso di dedicare gran parte della nostra vita a un progetto comune. La Fiat di oggi non è più quella che molti italiani ricordano. E’ cambiata nella struttura, nella dimensione economica, nell’estensione geografica e nel peso che ha all’interno del settore automobilistico mondiale. Basta considerare il profilo del nostro gruppo, in particolare delle attività automobilistiche, nel 2004 e nel 2012, per capire quanto profondo sia stato questo cambiamento.

di Sergio Marchionne

    Quello che segue è l’intervento di Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat e presidente di Chrysler, pronunciato ieri allo stabilimento Sevel-Fiat di Atessa, in Abruzzo

    Autorità, Cari colleghi, Signore e Signori, buongiorno a tutti.
    Vorrei innanzi tutto ringraziare l’ingegner Materazzo per il lavoro straordinario che sta facendo, insieme alla sua squadra, perché questo stabilimento continui a essere tra i più efficienti e competitivi del settore. Un grazie particolare a tutte le autorità che hanno accettato il nostro invito e, nonostante i loro impegni, sono qui a condividere con noi una giornata così importante per la Sevel. Ai nostri lavoratori – quelli presenti in sala e quelli collegati dagli altri reparti – voglio portare il mio saluto personale e quello di tutto il gruppo Fiat e Chrysler, di oltre 215.000 colleghi nel mondo che, come voi, possono beneficiare della nostra alleanza. Oggi siamo qui per rafforzare quel rapporto di fiducia che ci lega all’Abruzzo da più di trent’anni.
    Siamo qui per rilanciare quella scommessa che, insieme al nostro partner PSA-Peugeot Citroën, abbiamo fatto sulla Sevel e su questa terra come polo di eccellenza produttiva.

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    Gli investimenti che abbiamo avviato, tra i costi di sviluppo dei prodotti e i lavori per adeguare l’impianto alle nuove produzioni, ammontano a oltre 700 milioni di euro. Si tratta di investimenti cruciali per la Sevel, che ci permetteranno di consolidare ed estendere la leadership del Ducato sui mercati di tutto il mondo. Abbiamo programmato lavori in ogni reparto della fabbrica, per adottare le più avanzate tecnologie disponibili. Qui, in lastratura, abbiamo già installato 45 dei 60 nuovi robot, che ne faranno il reparto di lastratura più avanzato d’Europa. La verniciatura adotterà 25 nuovi sistemi di ultima generazione, che serviranno a migliorare la qualità del prodotto, ma anche a ridurre il consumo di vernici e, di conseguenza le emissioni complessive dello stabilimento, con un impatto positivo sull’ambiente. Il montaggio verrà attrezzato con nuovi impianti, per assemblare le parti meccaniche alla scocca, e sarà in grado di gestire anche i futuri e più complessi motori Euro 6.   
    Stiamo, inoltre, ampliando e modificando le aree dei magazzini in funzione di una nuova organizzazione del processo logistico. Questo ci permetterà di far fronte alla maggiore complessità e diversità produttiva e di migliorare l’efficienza e l’efficacia dei flussi di smistamento.
    La fabbrica, così potenziata, sarà pronta a produrre, negli anni futuri, le nuove versioni del Ducato, che serviranno ad ampliare la gamma e rafforzare la posizione competitiva di uno dei veicoli commerciali di maggiore successo. Le future versioni avranno nuovi contenuti e caratteristiche specifiche, per rispondere all’evoluzione della domanda, così da adottare, a partire dal 2015, motori già predisposti per il passaggio alla normativa Euro 6. 
    In più, a testimonianza delle tante opportunità che la partnership con Chrysler ha creato, la Sevel sta già producendo i componenti per una versione speciale del Ducato, che è stata studiata per soddisfare le normative e le esigenze del mercato nordamericano. Questa versione verrà venduta con il nome ProMaster e con il marchio Ram negli Stati Uniti, in Canada e in Messico a partire dal trimestre in corso. Abbiamo già iniziato le esportazioni dei componenti verso lo stabilimento Chrysler di Saltillo, in Messico, dove verranno assemblati per dare vita al “Ducato americano”.
    Un’attività di questo tipo esiste già da anni in America latina, dove la Sevel esporta i componenti che vengono poi assemblati nel nostro stabilimento di Sete Lagoas, in Brasile, per vendere il Ducato in tutto il continente.  
    Queste sono solo alcune delle tante, straordinarie opportunità che la Fiat di oggi – grazie all’alleanza con Chrysler e a una presenza globale – sta sfruttando per aprire la rete industriale italiana al mondo.
    Stiamo facendo tutto il possibile per non lasciare i nostri impianti, soprattutto quelli dedicati ai marchi generalisti, in balìa di un mercato europeo in costante declino.
    Lo facciamo per proteggere il nostro sistema produttivo, ma anche per tutelare – come più grande impresa industriale del paese – l’ossatura manifatturiera dell’Italia. Perché solo un paese che produce può creare benessere, occupazione e ricchezza.

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    Vorrei approfittare di questa occasione anche per parlare direttamente a tutti voi che lavorate in Fiat. La Fiat non è un’azienda senza volto. La Fiat siamo tutti noi.  Siamo decine di migliaia di persone che hanno deciso di dedicare gran parte della nostra vita a un progetto comune.
    La Fiat di oggi non è più quella che molti italiani ricordano. E’ cambiata nella struttura, nella dimensione economica, nell’estensione geografica e nel peso che ha all’interno del settore automobilistico mondiale. Basta considerare il profilo del nostro gruppo, in particolare delle attività automobilistiche, nel 2004 e nel 2012, per capire quanto profondo sia stato questo cambiamento.
    Nove anni fa la Fiat era un’azienda con un orizzonte limitato, che guardava soltanto all’Europa. La presenza all’estero era circoscritta al Sudamerica, in pratica al solo Brasile. Oggi siamo un gruppo con una presenza ampia e diversificata sui mercati di tutto il mondo. Allora il nostro fatturato era di 27 miliardi di euro, nel 2012 è più che triplicato, arrivando a 84 miliardi. Nel 2004 i dipendenti nel mondo erano poco più di 100.000, oggi sono raddoppiati a 215.000. In termini assoluti, in meno di un decennio, il numero dei lavoratori Fiat in Europa è aumentato di circa 15.000 persone. Nel 2004 eravamo un produttore di auto dalle dimensioni modeste, che vendeva circa 1 milione e 800 mila unità l’anno. Nel 2012, insieme a Chrysler, ne abbiamo vendute più di 4,2 milioni e siamo diventati il settimo costruttore mondiale.
    Ma soprattutto, la Fiat di allora era un’azienda in profondo rosso, le cui perdite, a livello operativo, erano di oltre un miliardo di euro l’anno, tutte concentrate in Europa. Oggi siamo un gruppo solido, capace di generare significativi profitti, nonostante le perdite collegate ai marchi generalisti in Europa. Negli ultimi nove anni abbiamo creato dalle potenziali ceneri di un costruttore italiano un gruppo automobilistico con un orizzonte globale. Lo abbiamo fatto attraverso passaggi successivi.
    Il primo, avviando un processo di risanamento, a partire dal 2004, quando abbiamo cambiato l’azienda dall’interno, nella struttura e nella cultura, ridandole il senso della sfida e della competizione che in qualche modo si erano persi.
    Poi, di fronte alle difficoltà crescenti del mercato europeo, abbiamo deciso, in anticipo rispetto alla maggior parte dei nostri concorrenti, di rafforzare la nostra presenza nell’America latina.
    E poi di intraprendere una straordinaria avventura con la Chrysler, un’azienda che noi abbiamo ricostruito dalle ceneri del tracollo dell’industria automobilistica americana.
    Tutto ciò assumendoci dei rischi enormi.
    Siamo andati a cercare altrove quei profitti che chiaramente non era più possibile ottenere in Europa. Era l’unica strada per preservare il futuro della Fiat. Nonostante questo, la Fiat è considerata ancora da molti, nel nostro paese, un’azienda prettamente italiana, che si trascina dietro tutti i pregiudizi di venti o più anni fa.
    Pregiudizi sulla qualità dei prodotti, sull’ingerenza in politica, e quella – ancora più assurda – di vivere alle spalle dello stato, con soldi e aiuti pubblici. La verità è che dal 2004 alla fine del 2012, Fiat e Fiat Industrial hanno destinato all’Italia, per investimenti e attività di ricerca e sviluppo, 23,5 miliardi di euro.
    A fronte di questo enorme sforzo, abbiamo ricevuto agevolazioni pubbliche, previste dalle norme italiane ed europee, pari a circa 742 milioni di euro. Agevolazioni peraltro disponibili a tutte le aziende europee. Questo significa che abbiamo creato lavoro e benessere, e che continuiamo a investire e credere nell’Italia.
    Forse, però, il ritmo del cambiamento che la Fiat ha seguito è stato così veloce che, in qualche modo, ha contribuito ad ampliare la distanza col paese. E a quanto pare noi non siamo stati in grado di trasmettere agli italiani il senso di questo cambiamento. Ma se la Fiat si è trasformata ed è cresciuta nel mondo, è stato solo per porre fine a un isolamento che ne avrebbe pregiudicato il futuro. Lo abbiamo fatto per diventare più forti, più capaci, più consapevoli delle nostre possibilità. E questa non può essere una colpa. Se oggi ci fosse ancora la Fiat di una volta, avremmo già portato i libri in tribunale da un pezzo.

    *  *  *
    L’ingegnere Materazzo ricordava, poco fa, che a inaugurare questo stabilimento, nel 1981, c’era l’Avvocato Agnelli con l’allora presidente Pertini. In quell’occasione, l’Avvocato parlò dell’impegno della Fiat nel mezzogiorno, ma parlò anche di economia, di democrazia e di libertà. Disse che “l’economia di mercato è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per il rafforzamento della democrazia. Ma perché il libero mercato viva, è necessario che ci si concentri sulla produzione di ricchezza prima che sulla sua distribuzione. Se la priorità della produzione non viene rispettata, un paese non va inevitabilmente allo sfascio: però, col tempo, degrada. La convivenza tra i cittadini finisce per degenerare, perché il loro benessere dipende sempre più dalla distribuzione politica delle risorse e sempre meno dalla qualità e dagli sforzi necessari per produrle”.
    Oggi quelle parole suonano quasi profetiche e non potrebbero essere più vere.  Per anni l’Italia ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, concentrata a distribuire ricchezze che diventavano sempre più scarse. E gli italiani si sono ritrovati con le tasche vuote.
    L’unico modo che abbiamo oggi per risalire la china, per invertire un ciclo economico avvitato su se stesso, è tornare a produrre. Dobbiamo concentrarci sulle iniziative industriali, favorirne se possibile di nuove, perché è l’unica strada per tornare a generare quella ricchezza che dà ossigeno al paese.
    Quando l’Avvocato, sempre 32 anni fa, disse che la libertà ha anche una dimensione economica, intendeva esattamente questo. Se le forze politiche e sociali non fanno tutto il possibile per rispettare il primato della produzione, la libertà conquistata dai nostri padri e dai nostri nonni si asciuga. Si trasforma in rissa tra fazioni e gruppi sociali per spartire le briciole.
    La Fiat sta facendo tutto il possibile per contribuire a disegnare un nuovo futuro per l’Italia. Ci siamo presi tutti i rischi – senza chiedere soldi o aiuti a nessuno – di investire in un momento così critico. Lo abbiamo fatto a Pomigliano, trasferendo la produzione della Panda dalla Polonia e creando uno stabilimento modello, il migliore d’Europa, che ha appena guadagnato la medaglia d’oro nel World Class Manufacturing. Lo abbiamo fatto a Grugliasco, rilevando un impianto che non produceva più nulla da sei anni e investendo oltre un miliardo di euro per rimetterlo a nuovo. Ora si costruiscono la Maserati Quattroporte e la Maserati Ghibli, destinate ai mercati di tutto il mondo. Lo stiamo facendo a Melfi – investendo un altro miliardo di euro – per iniziare a produrre la Fiat 500X e una vettura del marchio Jeep, che dal prossimo anno saranno vendute nei mercati internazionali. Ora lo facciamo qui, in Sevel, per dare nuove prospettive anche a questo stabilimento.
    Ma in tutto questo stiamo incontrando molte più difficoltà di quanto non avremmo immaginato, che mettono a serio rischio ogni passo successivo. Anche la pronuncia della Corte costituzionale, arrivata la scorsa settimana, aggiunge elementi di incertezza. Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza e le leggeremo con attenzione. Mi limito, però, a osservare che con questa decisione la Consulta ha ribaltato l’indirizzo che aveva espresso in numerose altre occasioni, sullo stesso tema, durante gli ultimi 17 anni nei quali è in vigore la presente forma dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. 
    La Fiat non fa e non ha fatto altro che applicare la legge, in modo rigoroso. La Fiom è stata esclusa dalla possibilità di nominare rappresentanti sindacali in base a quella legge. Una legge che dice chiaramente che i rappresentanti sindacali possono essere nominati solo dalle organizzazioni firmatarie del contratto e da quelle organizzazioni che ne accettano le condizioni.
    Peraltro, si tratta di un principio giuridico che viene riconosciuto in tutti i paesi civili del mondo: puoi beneficiare di un contratto se ti assumi le responsabilità presenti in quel contratto.
    Per ironia della sorte, la modifica dell’articolo 19 introdotta nel 1996 è stata voluta proprio dalla Fiom, che ha appoggiato un referendum popolare promosso da Rifondazione comunista e dai Cobas. Pare che oggi non se lo ricordi più nessuno.
    Tra tutti quelli che hanno commentato la sentenza della Consulta, non ho mai sentito dire che la Fiat ha applicato, con coerenza, una legge che adesso alla Fiom non piace più. Anzi, hanno messo noi sotto accusa, dicendo che abbiamo violato la Costituzione, mentre abbiamo solo rispettato una norma in vigore da 17 anni e voluta da chi ora la contesta.
    La Fiat ha compiuto scelte coraggiose e di rottura col passato semplicemente per garantire ai nostri stabilimenti quelle condizioni minime di competitività con i nostri concorrenti. Abbiamo sottoscritto un nuovo contratto di lavoro, concordato con la maggior parte dei sindacati e approvato dai nostri lavoratori. Mi rendo conto che quando si introduce un cambiamento non ci si può aspettare un consenso unanime. Ma non si fanno gli interessi dei lavoratori difendendo un sistema di relazioni industriali che non è in grado di garantire che gli accordi stipulati vengano effettivamente applicati.
    Condivido che i diritti di tutti, a prescindere dalla categoria sociale di appartenenza, costituiscono la base di una comunità civile. Ma oggi viviamo in un’epoca in cui si parla sempre e solo di diritti. Il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa; il diritto a urlare e a sfilare; il diritto a pretendere. Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati. Se però continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo.
    Perché questa “evoluzione della specie” crea una generazione molto più debole di quella precedente, senza il coraggio di lottare, ma con la speranza che qualcun altro faccia qualcosa. Una specie di attendismo che è perverso ed è involutivo. Per questo credo che dobbiamo tornare a un sano senso del dovere, consapevoli che per avere bisogna anche dare.
    Bisogna riscoprire il senso e la dignità dell’impegno, il valore del contributo che ognuno può dare al processo di costruzione, dell’oggi e soprattutto del domani.
    Malgrado stiamo operando in un contesto economico negativo, non vogliamo mettere in discussione gli investimenti annunciati. Ma non possiamo accettare che comportamenti violenti, di boicottaggio del nostro impegno, vengano considerati “esercizio di diritti” anche da autorevoli Istituzioni. Non è giusto nei confronti dell’azienda, ma soprattutto non è giusto nei confronti di tutti quei lavoratori che stanno lottando per togliersi dalle secche della recessione.
    Un paese dove ogni certezza viene messa in dubbio, dove gli accordi si firmano ma poi si possono anche non rispettare, dove una norma può essere letta in un modo ma anche nel suo contrario, dove la volontà di una maggioranza è negata da un’esigua minoranza… Tutto questo è un caso tristemente unico al mondo ed è un deterrente per chiunque voglia venire a investire in Italia.
    La Fiat può prendersi tutti i rischi legati all’incertezza dei cicli economici e dei mercati. E finora lo abbiamo fatto, in quattro dei nostri stabilimenti italiani, per assicurare un futuro ai nostri lavoratori. Abbiamo scelto di investire, rischiando ingenti risorse, senza la certezza del risultato. Ma questo fa parte del nostro mestiere. E i nostri lavoratori – che ho incontrato negli stabilimenti di Pomigliano, come a Grugliasco e a Melfi – lo hanno apprezzato.
    Quello che non possiamo fare è prenderci il rischio di un sistema che non garantisce norme certe. Questo non è più fare impresa, è giocare alla roulette russa. Non siamo disposti a mettere a rischio la sopravvivenza della nostra azienda.
    Prima di avviare qualunque altra iniziativa in Italia, abbiamo bisogno di poter contare sulla certezza di gestione e su un quadro normativo chiaro e affidabile.
    Abbiamo bisogno di sapere che gli accordi vengono rispettati, che vengono riconosciute e tutelate la libertà di contrattazione e la libertà di fare impresa – come avviene nei paesi di normale democrazia.
    Sarei un ingenuo se non sapessi che, come industriale, appartengo a una categoria cui spesso è stato fatto carico di aver determinato lacerazioni e contrasti nel tessuto sociale del paese. Ma gli atti della Fiat, il coraggio che stiamo dimostrando, scommettendo e investendo sull’Italia, sono una prova tangibile del nostro impegno e della forza unificatrice che l’industria può rappresentare per il paese.
    I nostri lavoratori – quelli già rientrati in fabbrica e quelli per i quali stiamo costruendo la possibilità di farlo – sono un pezzo, importante, dell’Italia. Sono loro che stiamo cercando di tutelare. Non è solo vero che la Fiat è in questo paese da 114 anni. E’ vero soprattutto il contrario. Da più di un secolo c’è il paese dentro la Fiat. Ci sono le aspirazioni, le qualità e l’energia del popolo italiano. E’ per loro che chiediamo rispetto, che chiediamo certezze.

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    Oggi siamo qui, in una giornata di festa. Sfortunatamente gli eventi della scorsa settimana hanno preso il sopravvento.  Ma se c’è una cosa intorno alla quale l’Italia deve stringersi oggi è un obiettivo comune, che faccia convergere tutte le forze positive della nostra società. Credo che oggi il vero punto di svolta, per il nostro paese, sia ritrovare uno spirito comune, uno scatto di orgoglio da parte di tutti. Abbiamo bisogno di un grande sforzo collettivo per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare all’Italia la possibilità di andare avanti.
    Una specie di patto sociale che cancelli le opposizioni e le distinzioni – ideologiche e non – tra le varie fazioni. Dobbiamo varare un piano di coesione nazionale per la ripresa economica. Tutti devono partecipare: la politica, i sindacati, le imprese, le università, le associazioni di categoria; tutti quanti, in ogni strato della società. Tutti dobbiamo lavorare a un grande progetto di rilancio, verso un obiettivo che non sia l’interesse di una o dell’altra parte, ma quello più alto di ridare fiducia e prospettive all’Italia.
    Ho ricevuto ieri una lettera dalla Fiom, firmata da Maurizio Landini. Ci chiede un incontro, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale, per “superare le vie giudiziarie e costruire un più proficuo e utile confronto di natura negoziale sulla base di normali e qualificate relazioni industriali, capaci di affrontare al meglio la difficile situazione produttiva e occupazionale che coinvolge le lavoratrici e i lavoratori di tutto il gruppo Fiat”. Siamo più che disposti ad incontrarli, tenendo come dato acquisito che non possiamo assolutamente mettere in discussione accordi già presi dalla maggioranza. Accordi che peraltro sono stati cruciali nel dare vita a realtà produttive di eccellenza a livello europeo. Li incontreremo con la speranza che anche loro riconoscano che adesso in gioco c’è la possibilità di far rinascere un sistema industriale nel paese. Spero di cuore che questa nuova situazione sia la prima mossa per cambiare quell’immagine che finora abbiamo dato dell’Italia.
    Il paese ha bisogno di ritrovare una pace sindacale, perché – oggi più che mai – è essenziale lavorare in uno spirito di collaborazione se vogliamo far ripartire lo sviluppo. Adesso è il momento di dimostrare che siamo all’altezza della situazione. E’ il momento di ripartire e di farlo nel modo che conosciamo meglio, dal valore fondamentale su cui questo paese è stato fondato: il nostro lavoro.
    Vorrei rileggervi le parole che Einstein usò per riflettere su un’altra grave crisi, quella del ’29. Restano una grande lezione per tutti: “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. E’ nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie d’uscita. Senza crisi non ci sono sfide. Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono lievi brezze. Lavoriamo duro e finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”. Questo è un invito da tenere a mente e di cui fare tesoro.
    Non sottovalutate l’importanza del contributo che potete dare. Tutti quanti, ogni giorno, dobbiamo chiederci cosa stiamo facendo per l’Italia – consapevoli che le nostre azioni e le nostre scelte hanno una portata molto più ampia della sfera personale o familiare. Questo vale in ogni strato della società, e vale anche dentro la fabbrica. Per questo chiedo anche a voi, in Sevel, di valutare che i vostri comportamenti siano sempre coerenti con gli obiettivi che ci siamo dati. Mi risulta che si registrino ancora, in alcuni momenti, livelli di assenteismo e comportamenti anomali, che non sono in linea con le aspettative condivise. Si tratta di comportamenti che tradiscono quei valori di responsabilità e fiducia che sono il collante di ogni comunità e minano la coesione sociale di una fabbrica e del suo territorio.
    Per questo mi auguro che i lavoratori e le organizzazioni sindacali comprendano fino in fondo il significato dell’impegno che abbiamo preso e adottino comportamenti coerenti, per non vanificare gli sforzi che stiamo facendo. Altri stabilimenti, come ad esempio Pomigliano, sono diventati oggi realtà virtuose e registriamo con soddisfazione risposte molto positive da parte dei nostri lavoratori. Non c’è nessuna ragione per cui non possa succedere anche qui, in Sevel. 
    Approfitto dell’occasione anche per richiamare l’attenzione delle Istituzioni locali sulla necessità che un’attività industriale come la nostra possa avvalersi di infrastrutture adeguate. Mi unisco pertanto a quella che mi risulta essere l’opinione comune per auspicare un veloce superamento dei vincoli che purtroppo ancora persistono.

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    Questa fabbrica e questa terra possono offrire una direzione per il futuro. La Sevel – creata da un prato verde, in una zona che, pur essendo ricca di bellezze naturali, veniva chiamata “la valle dei morti”, perché molti giovani erano costretti a emigrare in cerca di lavoro – è riuscita a macinare un record dopo l’altro. E’ diventato il più grande stabilimento di veicoli commerciali in Europa, tra i più moderni ed efficienti al mondo, ed è riuscito a raggiungere un picco produttivo di oltre 250.000 unità l’anno nel 2008.
    Ci sono stati momenti difficili, specialmente nel 2009, quando il mercato dei veicoli commerciali è crollato. Ma oggi siamo qui per scrivere un nuovo capitolo nella storia della Sevel. Anche questa terra – che è la mia terra – è una dimostrazione che c’è speranza, per quello che ha sempre dimostrato di saper fare, anche e soprattutto nei momenti più duri. La tenacia degli abruzzesi – quella caparbia fiducia nel futuro che mio padre mi ha lasciato in eredità – è qualcosa di radicato nella gente di qua. Non ho mai visto un abruzzese arrendersi. Non l’ho mai visto aspettare che arrivasse un salvatore da chissà dove a regalargli un domani migliore. Gli abruzzesi cadono e si rialzano da soli, non perdono tempo a lamentarsi, ma fanno, producono, ricostruiscono. E’ successo dopo la guerra. Con determinazione, hanno trasformato una regione, che era allora tra le più povere, in una delle più fiorenti del paese. Ed è successo dopo il terremoto. Avete reagito con forza e grande dignità, prendendo in mano il vostro destino e tornando a costruire il futuro.
    Nulla potrà mai intaccare i valori sani di questa terra. Penso al senso del lavoro, all’orgoglio di fare le cose e farle bene; penso al senso di responsabilità e al rispetto per gli altri, alla generosità nei momenti duri. Questo è l’atteggiamento di cui ha bisogno l’Italia oggi. Sappiamo che c’è un lavoro enorme da fare. Ma sappiamo anche che saremo solo noi i responsabili delle scelte e delle non-scelte che faremo.
    Se falliremo, se perderemo l’occasione che la nostra epoca ci offre, sarà solo perché ci saranno mancati la volontà o il coraggio. Il mio augurio è che quello che stiamo realizzando qui, insieme, sia un indirizzo di speranza e impegno. Adesso è il momento di dimostrare che siamo degni della storia che abbiamo alle spalle. Perché questa è l’Italia che ci piace. E’ questa l’Italia che piace al mondo.
    Grazie a tutti.

    di Sergio Marchionne