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La Fratellanza rotta

Carlo Panella

Lo spettro del ’91 di Algeri aleggia sul Cairo. Il rifiuto di Mohammed Morsi di appoggiare il fermo appello delle Forze armate di formare entro oggi un governo di unità nazionale e di indire nuove elezioni, per “venire incontro alle richieste del popolo”, apre infatti in Egitto uno scenario da guerra civile. Lo conferma l’irresponsabile “appello al martirio per prevenire il golpe” lanciato ieri da Mohamed el Beltagui, segretario del partito politico dei Fratelli musulmani.

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Lo spettro del ’91 di Algeri aleggia sul Cairo. Il rifiuto di Mohammed Morsi di appoggiare il fermo appello delle Forze armate di formare entro oggi un governo di unità nazionale e di indire nuove elezioni, per “venire incontro alle richieste del popolo”, apre infatti in Egitto uno scenario da guerra civile. Lo conferma l’irresponsabile “appello al martirio per prevenire il golpe” lanciato ieri da Mohamed el Beltagui, segretario del partito politico dei Fratelli musulmani. Qualunque sia l’esito del braccio di ferro tra il movimento dei Tamarrod, e il presidente Mohammed Morsi, mediato – pare inutilmente – dal maresciallo al Sisi, è già comunque chiaro che il rifiuto prolungato alla mediazione del presidente legittima la grande platea egiziana che si identifica con gli islamisti a denunciare la “vittoria rubata” e a rispondere nella peggiore tradizione politica musulmana: con la violenza.

Nell’arco di un anno la Fratellanza musulmana ha dunque seccamente smentito la definizione benevola degli analisti europei che la definivano una sorta di “Dc in format musulmano”. Al contrario, i tratti salienti della presidenza Morsi sono stati una sorta di isteria clanica del potere, aspirazioni autoritarie, nessuna capacità di mediazione e prevaricazione spudorata dei diritti delle minoranze religiose. Grandi sono le differenze tra l’Egitto di piazza Tahrir e l’Algeria del ’91, in cui la guerra civile iniziò appunto per una vittoria elettorale “rubata” dall’esercito e dal governo del Fnl ai Fratelli muslmani del Fis, ma i fondamentali si assomigliano e non è detto che l’esito non sia simile. Ma c’è di più e di peggio: l’acclarata incapacità politica di Morsi non è affatto un problema personale o egiziano. Ormai emerge con prepotente chiarezza al Cairo, a Tunisi, Algeri, Tripoli, Damasco, Ramallah, Gaza, Baghdad – e persino ad Ankara – la assoluta incapacità dei Fratelli musulmani di gestire non solo le crisi politiche, ma anche di governare con un minimo di capacità gli stati in cui hanno vinto le elezioni.

Una conclamata ignavia politica che si accompagna a ricorrenti appelli alla violenza e “al martirio” nei confronti degli avversari politici che incuba non solo i germi, ma vere e proprie organizzazioni terroristiche. Le ultime mosse di Mohammed Morsi ricordano troppo da vicino i peggiori tentennamenti tattici e le convulsioni strategiche di Yasser Arafat (che nella Fratellanza iniziò la sua militanza, per poi distaccarsene), con un di più d’insipienza. Come Arafat – e tutti i suoi epigoni della Fratellanza – Morsi ha accumulato una immensa forza politica grazie alla “spinta dal basso” di un movimento popolare che non aveva affatto promosso e di cui è stato per tutta la prima fase solo al traino. Come Arafat, oggi Morsi rifiuta ogni mediazione e gioca col fuoco di un appoggio esplicito alla violenza.

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Vinte, ma non stravinte le elezioni, Morsi non solo ha dilapidato il consenso conquistato, ma non ha fatto assolutamente nulla per arginare la devastante crisi economica, carburante del movimento impetuoso dei Tamarrod. Simbolo di questa sua totale inadeguatezza sono le plurime risposte negative a un Fmi disposto a concedere un mega prestito di 4 miliardi di dollari (aumentabile in maniera consistente) in cambio di un minimo di riforme sul piano amministrativo e gestionale del budget statale. Il dramma è che l’insipienza di Morsi replica a ruota l’infausto ruolo che la Fratellanza gioca nel Consiglio nazionale siriano – di fatto paralizzato dalle sue manovre di vertice –, la fine politica ingloriosa del leader della Fratellanza irachena Tariq al Hashemi – condannato a morte ed esule in Turchia – che forse non è direttamente colpevole delle accuse di terrorismo contestategli dal premier Nouri al Maliki, ma che sicuramente non ha la coscienza del tutto netta sul punto. Per non parlare dell’infausto ruolo di Hamas a Gaza, anche solo dal punto di vista palestinese, a partire dal tratto settario e violento nei confronti dei concorrenti della Olp di Abu Mazen, così come del pieno fallimento politico della Fratellanza in Marocco e in Libia. Solo in Tunisia Rachid Ghannouchi riesce a evitare il fallimento politico pieno della sua Fratellanza, ma unicamente perché è costretto a confrontarsi con una componente laica che ha ottenuto un risultato consistente nelle urne. In Egitto, in estrema sintesi, la Fratellanza ha confuso la debolezza dei partiti laici con la licenza di imporre una dittatura islamista. Ha sbagliato i suoi calcoli e ha gettato il più grande paese arabo nel caos.

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