Il ministro e il professore

Redazione

Ferrara. Discuteremo anche dell’agenda del governo Letta, ma la cosa più interessante è fare una discussione – senza aver paura del termine – “ideologica”, cioè dare forma a un problema che è il seguente. Si possono fare molte cose: ridurre le tasse e la spesa, oppure si può aumentare la spesa. Il Nobel americano Paul Krugman vuole che si assumano in grande quantità insegnanti e operatori, che si faccia ricorso alla spesa pubblica per contrastare la crisi. Poi si può considerare il welfare come un’acquisizione europea intangibile o lo si può riformare in tanti modi diversi. Si può ridimensionare l’austerità che pure qualche risultato inizia a portarlo, vedi in Grecia o anche il ridimensionamento dello spread come indicatore finanziario della salute della finanza pubblica in alcuni paesi del sud Europa.

    Due giorni fa nella redazione del Foglio si sono visti un moderno uomo di governo di orientamento socialista, Stefano Fassina (viceministro dell’Economia e leader del Partito democratico), il liberista non dogmatico Alberto Bisin (professore di Economia presso la New York University, via skype) e un mezzo liberale come il direttore del Foglio.

    Ferrara. Discuteremo anche dell’agenda del governo Letta, ma la cosa più interessante è fare una discussione – senza aver paura del termine – “ideologica”, cioè dare forma a un problema che è il seguente. Si possono fare molte cose: ridurre le tasse e la spesa, oppure si può aumentare la spesa. Il Nobel americano Paul Krugman vuole che si assumano in grande quantità insegnanti e operatori, che si faccia ricorso alla spesa pubblica per contrastare la crisi. Poi si può considerare il welfare come un’acquisizione europea intangibile o lo si può riformare in tanti modi diversi. Si può ridimensionare l’austerità che pure qualche risultato inizia a portarlo, vedi in Grecia o anche il ridimensionamento dello spread come indicatore finanziario della salute della finanza pubblica in alcuni paesi del sud Europa. Insomma, si può fare di tutto, volendo, ma c’è un problema che secondo me è interessante trattare come problema “di testa”, da trattare in colloquio a due tra una persona di orientamento liberale e liberista come Bisin e un dirigente politico di orientamento socialista come Fassina. Il problema dell’Italia, per dirla con parole semplici, è questo: si immobilizzano molti quattrini nell’immobiliare, in questa forma tipica di risparmio, e così patrimonialmente – come dimostrano i dati della Bundesbank – gli italiani non sono gli ultimi in Europa in quanto a ricchezza pro capite, cioè a risorse utilizzate in maniera pigra in case e titoli. Contemporaneamente direi che il nostro è un paese affetto da una cronica immobilità sociale: il sud è sempre lo stesso, il capitalismo vero penetra solo per punte di cosiddetta “eccellenza”, è affetto in generale da una forma di sclerosi. Al nord e centro-nord c’è un po’ più di mobilità, c’è anche un capitalismo sviluppato che secondo un economista come Marco Fortis e altri sarebbe – di per sé – competitivo con il resto d’Europa, però la caratteristica fondamentale rimane quella di una certa immobilità. Pochi si spostano, anche se adesso i pochi fenomeni migratori vengono analizzati al lanternino dai media, l’università si fa nella città di nascita, si vive a lungo nella casa della propria famiglia. Sia a guardarlo dal punto di vista di un socialismo moderno e riformatore, sia dal punto di vista liberale e liberista, la verità dell’Italia è che si lavora piuttosto poco (nessuno dice mai agli italiani in televisione: “Bisogna lavorare di più”), dove per lavorare intendo darsi da fare, raddoppiare e triplicare le occasioni, cercare, esserci e poi scavare dentro un lavoro per trarne di più. Si fa affidamento su una serie di tutele, garanzie, che immobilizzano il paese: la Cig in deroga, i vari ammortizzatori sociali che non sono mai strumento di passaggio a un lavoro produttivo più sano. Si rimane ancorati a posti improduttivi, soprattutto nella Pubblica amministrazione, dove siamo gravati da una guarentigia corporativa che riguarda milioni di italiani. Questo è il vero panorama: si lavora poco, si investe poco fuori dal mattone, circola poca moneta. La crisi ha aggravato la situazione, ma tutto nasce da qualcosa che non è l’ottobre 2008 a New York con il crac di Lehman Brothers, da qualcosa di diverso che non è la crisi finanziaria dell’Eurozona di fine 2011. Tutto nasce dal fatto che la produttività è bassa, che la crescita è bassa.
    La relazione di Enrico Letta in Parlamento aveva secondo me un difetto centrale: il presidente del Consiglio non si è mai disposto su una linea che è quella di mettere in grado gli italiani, come individui, come famiglie, come comunità, come imprenditori, come ceto medio, come lavoratori autonomi, di fare loro qualcosa perché il paese si riscatti e si riprenda. Tutto è affidato al loro rapporto con lo stato che invece è il problema. Io non sono dei Tea Party, sono un vecchio comunista riciclato in un liberalismo metodologico molto carsico, però a me sembra che questo sia il problema centrale.

    Fassina. L’analisi contiene tanti punti condivisibili, però a me pare che se guardiamo solo all’Italia non riusciamo a capire fino in fondo i nostri problemi. L’Italia sconta in forme più acute, a causa di problemi storici che si sono accumulati da tanto tempo, dei cambiamenti che hanno riguardato tutto l’occidente sviluppato. Questo contesto lo vorrei affermare, perché il problema delle classi medie non è un problema italiano. Nel Regno Unito c’è un dibattito che va avanti da molto tempo sullo “squeezed middle”; mi ricordo poi che il presidente Barack Obama, appena arrivato alla Casa Bianca, diede al vicepresidente Joe Biden il mandato di costituire una task force sulle classi medie. Dobbiamo partire quindi da dinamiche che hanno attraversato le economie sviluppate nel trentennio alle nostre spalle, con declinazioni molto diverse, perché in alcuni casi i sistemi politici hanno risposto, in altri no – come nel nostro. Quello cui abbiamo assistito è stata la fine del compromesso socialdemocratico, keynesiano, rooseveltiano o come si vuole chiamarlo, attorno alla metà degli anni 70, e un processo di regressione delle condizioni del lavoro. I dati sugli Stati Uniti sono chiarissimi: il maschio bianco laureato ha visto il suo reddito da lavoro profondamente indebolito. Questo è un quadro che dobbiamo tenere presente, altrimenti se pensiamo che c’è solo un ritardo nazionale non veniamo fuori da questa situazione, tant’è che se uno guarda i dati recenti sull’Eurozona questi sono chiarissimi, la tendenza è univoca, seppure con accentuazioni da alcune parti. La questione di fondo, se vogliamo costruire le condizioni dello sviluppo, va posta a questo livello, quella dello scarto tra politica ed economia. La politica da tanto tempo non ha gli strumenti di regolazione dell’economia; nel ’900 la politica giocava ad armi pari con l’economia, poi a volte era debole e incapace, ma comunque aveva gli strumenti di regolazione dell’economia. Strumenti che oggi a livello nazionale non ci sono più. A mio avviso possiamo fare tutte le liberalizzazioni che vogliamo, levare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, licenziare centinaia di migliaia di dipendenti pubblici, ma una “democrazia delle classi medie” come quella che abbiamo costruito nella seconda metà del Novecento non la ricostruiamo. Se la politica non ritrova la dimensione dell’economia, noi non veniamo fuori da questa situazione e non torniamo neanche a crescere, perché lo squilibrio è così forte e la concentrazione di reddito, ricchezza e potere mediatico e politico è talmente accentuata che noi non riusciamo a trovare un equilibrio. Dopodiché su tutte quelle cose che tu ricordavi – la Pubblica amministrazione, le liberalizzazioni dei mercati, la rimodulazione del welfare – ci sto, voglio entrare nel merito e confrontarmi, però c’è un problema a monte: i rapporti di forza oggi sono così squilibrati che non riusciamo a trovare un punto d’incontro per tornare a crescere. Del resto Keynes era un liberale, non era un marxista: ha inventato il welfare state non perché era una persona di buon cuore, ma perché era la condizione per fare girare il motore. Quel motore, con gli attuali rapporti di forza e le conseguenze che questi determinano sul mercato dei redditi primari (cioè sul mercato del lavoro) e con quello che avviene anche attraverso il sistema di tassazione, non è più in grado di risolverci quel problema. Certamente poi non bisogna aspettare: tutti quegli interventi che ricordavi sono da fare, ma pensare che quegli interventi siano in grado di restituire condizioni di prosperità è illusorio. In Europa stiamo cercando di avvicinarci a richiudere questa forbice tra economia e politica e stiamo provandoci con i miei colleghi. L’euro nella testa di alcuni è quella scommessa della politica che prova a misurarsi con l’economia.

    Bisin. Una premessa sulla questione ideologica, perché non ce la faccio più a essere trattato da “liberista” continuamente. Voglio provare a ragionare da economista, poi ovviamente l’ideologia non è che non c’entri nel modo in cui uno intende l’economia. Il direttore citava per esempio Krugman: Krugman è un grande economista, ma ragiona da politico movimentista e utilizza argomentazioni che lo stesso Krugman economista non riconoscerebbe mai, per degli obiettivi che lui probabilmente ritiene solidi. Lui vuole da sempre una maggior robustezza dello stato nell’economia degli Stati Uniti, ma stiamo parlando degli Stati Uniti, dove lo stato pesa il 30 per cento del pil, non dell’Italia dove lo stato è al 50 per cento. Lo stesso vale per Keynes, ovviamente: Keynes chiedeva più stato in un mondo in cui lo stato era al 10 per cento. Cercando di fare questo ragionamento qui, io sono perfettamente d’accordo con lei direttore.

    Bisin. Direttore, lei diceva “si lavora poco”, poi ha usato pure la parola “produttività”. Su questo sono assolutamente d’accordo con Fassina: parlare di produttività in Italia vuol dire parlare di articolo 18, ma questa è una stupidaggine immensa, non c’entra molto; quando parliamo di produttività, in realtà non parliamo neanche necessariamente di produttività del lavoro. E’ vero che in Italia si lavora relativamente poco, e questa forse è una conseguenza della tassazione spropositata, e anche del fatto che una grande parte del lavoro è al nero; io credo però che il punto cruciale non sia la produttività del lavoro, ma quella che gli economisti chiamano “total factor productivity”, cioè l’insieme della produttività di lavoro e capitale, e in generale quello che uno stato funzionante dà ai lavoratori perché questi producano. Questo è quello che drammaticamente riduce le potenzialità del paese. Qualunque modello economico dice che nel medio-lungo periodo la crescita dipende dalla produttività totale dei fattori, e in Italia questa produttività è completamente piatta da una vita. Perché la scuola funziona male, la sanità funziona male, la giustizia e le infrastrutture anche. Possiamo discutere quanto questo malfunzionamento e questa bassa produttività dipendano dal fatto che ci sia troppo stato in Italia, però questo è il discorso ideologico e Fassina sul punto avrà un’opinione diversa dalla mia. Ma il fatto resta: l’Italia non cresce perché la produttività totale dei fattori è stagnante. Sono d’accordo con Fassina che siamo all’interno di sommovimenti socio-economici internazionali immensi, ma l’Italia è cresciuta meno di chiunque altro. Non abbiamo fatto le riforme, la Germania le ha fatte e noi no. L’Italia insomma ha fatto il peggio possibile. Sono d’accordo con lei direttore sull’analisi: il paese non cresce, è immobile, soprattutto al sud, ed è vero che questo dipende da tante cose, ma io trovo che tutti hanno reagito – gli Stati Uniti e la Germania, per esempio – mentre noi siamo rimasti a guardare e la situazione è drammatica.
    Fassina sembra vedere questo rapporto tra politica ed economia come una contrapposizione: la politica che cerca di controllare l’economia e l’economia che scappa. Trovo che ci sia qualcosa di molto importante in quello che dice e qualcosa su cui non sono d’accordo. Per esempio è vero che negli anni 70 la politica ha perso un’enorme quantità di controllo sull’economia, ma una parte di questo processo è stata una delle cose migliori che siano successe. Un esempio? La politica a un certo punto ha perso il controllo della politica monetaria; negli anni 70 abbiamo avuto inflazione dappertutto – negli Stati Uniti come in Italia e in Israele – era una situazione drammatica, le Banche centrali stampavano moneta dopo le telefonate del ministro del Tesoro, e questa situazione ha generato immensi danni alla struttura economica mondiale. In quel momento, grazie anche a miglioramenti della teoria economica, si decise che le Banche centrali venivano essenzialmente liberate dalla politica e questo ha risolto il problema dell’inflazione in tutto il mondo, anche in America latina alla fine. Nei momenti di crisi la politica cerca di ripendere il controllo della moneta, come sta avvenendo adesso, e credo sia un problema molto grave, non perché la politica sia maligna ma perché è naturale che i politici devono farsi rieleggere e a questo subordinano ogni decisione.
    Dove invece sono d’accordo con Fassina, è sul fatto che la politica ha perso il controllo della finanza – questo è molto vero negli Stati Uniti e meno in Italia – ha perso il controllo non nel senso della regolamentazione ma sulla questione dimensionale, del potere di mercato. In una situazione nella quale l’industria finanziaria è caratterizzata da relativamente poche banche che concentrano il potere di mercato, cioè dove i privati hanno potere di mercato e non devono essere competitivi, si generano pericoli. Io non voglio dire che tutte le colpe della crisi vengano da lì, ma una grossa parte viene da lì. Le grosse banche sapevano che il governo non avrebbe potuto fare a meno di salvarle, cosa che infatti il governo ha fatto senza far perdere un dollaro agli istituti. Da altri punti di vista mi sembra invece che la perdita del controllo della politica rispetto all’economia sia una cosa ragionevolissima. Nel nostro paese un abbassamento di tasse e spesa, per esempio, sarebbe necessario. Se il ministro Fassina, leggendo il tutto alla luce di questo dualismo tra politica ed economia, interpretasse un abbassamento di tasse e spese in Italia come una perdita di potere della politica in economia, ritengo che allora questo sarebbe un errore, perché tale abbassamento è necessario. Credo sarebbe necessario farlo non tanto perché la spesa sia elevata – è molto elevata, ma lo è anche in altri paesi come Francia e Germania che non hanno i nostri problemi – ma perché in Italia una grossa parte di questi soldi sono buttati, quindi questa raccolta eccessiva di tasse distorce l’economia sia in modo diretto – perché le tasse limitano l’attività economica – sia per il fatto che la spesa pubblica non ha un effetto positivo sulla produttività totale dei fattori. Da una parte si soffoca l’economia per spendere, insomma, dall’altra la spesa non va dove dovrebbe andare.

    Ferrara. Siete d’accordo su un punto, sul fatto che l’articolo 18 non sia un problema. Io prima o poi mi arrenderò a questa quasi unanimità tra le persone che sanno, però prima voglio dire una cosa proprio da uomo che ha sposato un’americana, che spesso va in America, e che ha mezza famiglia americana: mia moglie ed io siamo sposati da 25 anni e in questi 25 anni i nostri amici italiani hanno continuato a fare sempre la stessa cosa; io stesso, da 20 anni circa, con i miei amici redattori, faccio un giornale non capitalistico, una specie di ente lirico che gode delle sovvenzioni dello stato e che comunque tiene i conti a posto, non fa debiti, non spreme come limoni i suoi editori, realizza una cosa che è intellettualmente utile al paese; nella crisi abbiamo fatto tagli drastici e ristrutturazioni, però non ci è mai venuto in mente di avere un modello di business che fosse diverso da quello che abbiamo dalla nascita. I nipoti di mia moglie hanno cambiato lavoro 7 volte in questi 25 anni, hanno inventato dei loro lavori, cambiano luogo di lavoro, hanno studiato al di fuori dall’orizzonte della loro famiglia materna. Questo sarà un caso ma ce ne sono tanti altri, mentre chiunque vive a Roma e abbia oggi 60 anni sa che c’è una quota rilevantissima della sua generazione che è caratterizzata dall’immobilismo più totale, cioè si fa quello che si era destinati a fare secondo un progetto sociale impersonale e se si è fortunati lo si fa con certe garanzie. Chi non ha avuto questa fortuna o è nato dopo ed ha affrontato un altro tipo di Italia, e vive nella condizione dei mercati aperti, ha questo problema. Non si risolve con l’articolo 18, ma in qualche modo va risolto. Quando la Fornero si presentò e disse: rendiamo più solido il contratto di lavoro in entrata, però lasciamo maggiore flessibilità in uscita, non fece un discorso così peregrino secondo me. Voleva dire “valorizziamo il lavoro”, nel senso che il lavoro non è un posto improduttivo fisso. In certi casi lo si perde, pur con l’impegno collettivo di società e stato a creare altre occasioni. Insomma ci vorrebbe un po’ più di India, di Cina, di Singapore, per non parlare sempre dell’America, in una economia come quella italiana, certo a fronte di un’assicurazione tendenzialmente universale, l’Aspi, come sostegno di reddito minimo. Questo ragionamento non mi pareva così peregrino. Invece devo constatare che la Confindustria, per prima, la Cgil per seconda ex aequo, e tutte le altre forze politiche e sociali che si misurano con problemi di consenso, di status quo, di tutela di certe grandi rendite corporative, si sono tutte schierate contro.
    Siete veramente così convinti che non ci sia, non dico una chiave unica – io sono un letterato dell’economia, procedo per schemi – ma insomma che non ci sia una porta stretta, varcata la quale le cose poi cambiano, perché nasce un nuovo senso collettivo, una nuova coscienza collettiva di quella che è l’economia reale. Per dirla in un altro modo: noi viviamo una sorta di crisi sociale strisciante e continua, sistematica, ridistribuita e tendenzialmente “egualitaria”, e non c’è invece l’idea tipica del thatcherismo – per esempio – che ha rimesso in piedi un paese, cioè che possa esistere una crisi sociale guidata, consapevole. Quindi: io ti do degli strumenti di sostegno minimo, ma ti metto di fronte al vuoto, cioè alla necessità di riempire quel vuoto con la tua creatività e con la tua capacità e la tua volontà. Mi rendo conto che è un discorso anche moralistico e perfino un po’ stronzo, però è un discorso efficace: finché questo non succede, in un paese come l’Italia, finché non ci sarà un elemento di consapevole gestione in senso trasformativo della crisi sociale, la crisi continuerà in questo modo piano, tranquillo, con un finto elemento di protezione. Gli italiani sono un grande paese cattolico, abbiamo un Papa meraviglioso che tutte le mattine ci ricorda la misericordia, che dice che Gesù Cristo è nato per essere l’avvocato dei deboli, e quindi abbiamo un avvocato potente, noi viviamo in questa bolla: non deve esplodere questa bolla?

    Fassina. Partirò dalla coda del suo discorso. Ritengo che certamente sia rilevante la dimensione individuale, la necessità di mobilitarsi. Il sottoscritto ad esempio è andato via di casa a 18 anni, è andato a Milano e s’è trovato una borsa di studio perché non poteva essere sostenuto dalla famiglia; ho fatto un figlio a 22 anni. Insomma, ci credo nella dimensione individuale. La letteratura economica, sia sul piano teorico sia empirico, ci dà tanti esempi di istituzioni che incoraggiano un comportamento piuttosto che un altro; quindi lungi da me l’idea che ci sia solo la dimensione macroeconomica, anzi. Se penso alle generazioni di giovani passate, quella dei nonni e dei padri, parlo di generazioni che non hanno vissuto di rendita e che si sono molto mobilitate, che hanno ricostruito un paese che era a pezzi. Dopodiché credo sia illusorio concentrarsi sul mercato del lavoro. I dati Ocse sull’Employment protection legislation – che non sono quelli medi che riguardano tutti e quindi contengono anche i precari, ma sono quelli specifici e quindi contengono anche le imprese con più di 15 dipendenti – dimostrano che l’Italia è nella media europea. Se andiamo a vedere la distribuzione dei “contratti precari”, notiamo che si è concentrata nelle imprese con 1, 5, 9 dipendenti e non in quelle con più di 15 che utilizzano l’articolo 18. Il punto centrale, in ogni caso, è la produttività. Divergiamo nell’analisi sui fattori rilevanti ai fini della “total factor productivity” che ricordava Bisin. Quello è il nodo. Poi divergiamo sugli ingredienti, magari gli stessi, ma io ne metto in cima alcuni, voi altri. Farò un esempio a proposito della Germania. Se guardo alla quantità e alla qualità degli investimenti che hanno fatto le imprese tedesche in information technology nel corso degli anni novanta rispetto a quelle italiane, che invece hanno fatto investimenti estensivi nei capannoni, lì trovo una variabile che spiega molto di quel differenziale di total factor productivity tra i due paesi. Cito i dati della Banca d’Italia di un paio di anni fa in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia: si vede la rilevanza della dimensione media delle imprese e, confrontando le imprese italiane rispetto a quelle tedesche, si capisce che a parità di dimensioni non c’è una grande differenza della produttività. Il problema è che noi abbiamo poche grandi e moltissime piccole imprese. Non che le nostre siano più “sfigate”, è che sono tante rispetto a quelle tedesche. Solo che non dobbiamo più andare sui mercati sotto casa. La Banca d’Italia evidenzia un altro fattore antropologico e culturale nella piccola impresa. Fa un confronto con la gestione dell’impresa: le nostre imprese sono gestite da famigliari del fondatore, quelle tedesche invece da manager professionali. E questa differenza, ripeto, a partità di dimensione e di settore, spiega un altro pezzo della scarsa produttività. Posso andare avanti. Ci metto la Pubblica amministrazione: è un handicap straordinario. Non è tanto il singolo dipendente, è piuttosto questa superfetazione complicata anche dal Titolo V del 2001 che ha complicato ulteriormente le cose. Ci metto anche quello che gli economisti chiamano “capitale sociale”. Il fatto che abbiamo bisogno della polizia per l’enforcement di regole banali. Io ho vissuto cinque anni negli Stati Uniti ed è diverso il livello di adesione spontanea alle regole, quelle che fanno girare il motore. Do rilievo a questi nodi. Ricordo un aneddoto: anni fa sono stato alla presentazione di un libro di un ex sindacalista della Cisl “Bruno da Cittadella, dottore in malta”. Era la storia di un muratore che aveva perso il lavoro e scrivendo “dottore in malta” sul furgone ha cominciato a fare i lavoretti per i piccoli comuni della zona. Ha guadagnato, certo. Però non tieni in piedi un paese con l’iniziativa autonoma e creativa dei singoli. Devi dare un contesto che consenta di valorizzare fino in fondo un’idea, perché un giorno potrebbe creare un’azienda alla Google, con una dimensione significativa. Non siamo all’anno zero, io non sono pessimista. In generale le medie sono bugiarde, ma in Italia lo sono particolarmente. Perché dietro di esse c’è un’enorme varietà di situazioni. Per cui noi dovremmo capire come riuscire a espandere quel nucleo di straordinario successo che abbiamo e renderlo contagioso. Dovremmo riuscire a trovare delle forme giuridiche per dare la possibilità a delle reti d’imprese di emettere obbligazioni, e quindi non essere schiave della banca, oppure costruire dei servizi che consentano di esportare di più. Sono soluzioni istituzionali e innovative. Non sono tra coloro che pensano di potere fare crescere le dimensioni delle imprese ai livelli della Germania, penso che dobbiamo valorizzare quello che abbiamo. Sono assolutamente disponibile a entrare nel merito ed essere convinto di aggredire i nodi che servono a migliorare quella maledetta produttività, però facendo un’analisi razionale. Il fatto che il nostro problema del lavoro sia un mismatching tra una domanda – quello che le imprese chiedono – e un’offerta pigra non mi convince. Non ci credo. Negli Stati Uniti, cioè nel mercato del lavoro più flessibile del mondo senza contratto nazionale e di fatto senza sindacati, si è generata occupazione grazie a politiche anticicliche, monetarie e fiscali, in modo clamoroso. Perché altrimenti, con la flessibilità del lavoro che hanno, oggi si troverebbero con un tasso di disoccupazione come il nostro o come quello dell’Europa. Insomma, la Federal Reserve ha come target il tasso di disoccupazione. E finché non lo raggiunge continua a pompare moneta. Non sono differenze che posso superare con l’iniziativa individuale. Non voglio uno stato che “passivizza”. Sono convinto che gli ammortizzatori sociali debbano essere condizionati alla disponibilità a lavorare. Rimango profondamente lavorista: la cittadinanza si acquisisce attraverso il lavoro. A me piace la competizione ma dev’essere “fair”, perché non si può correre con un piede legato. Segnalo che in Europa c’è un filone, molto autorevole, di tecnostrutture e di forze politiche, che ritiene che la civiltà del lavoro conosciuta nella seconda metà del Novecento sia un dato irripetibile: non ce lo possiamo più permettere nel Ventunesimo secolo e quindi siamo destinati a dovere impoverire il lavoro. La Troika raccomanda alla Grecia di portare il salario minimo sotto il livello della Turchia per recuperare competitività. Se dovesse essere questo lo scenario, come forza progressista, io mi tiro indietro. Vorrei ricostruire le condizioni per cui torniamo a costruire quella civiltà del lavoro nel Ventunesimo secolo. Quindi facciamo pure tutti i cambiamenti che vogliamo (welfare, Pubblica amministrazione) però vorrei capire se l’obiettivo politico è la rassegnazione a un impoverimento in termini non solo economici ma anche democratici, non sono sicuro che sia un’alternativa possibile. E’ un’enorme sfida. Può darsi che non ci sia nulla da fare, civiltà importantissime sono crollate. Si può pensare che sia illusorio correggere questa tendenza, ma per me è vitale.

    Bisin. Volevo reagire a lei direttore, quando diceva che si sentiva solo contro l’articolo 18. Non penso che l’articolo 18 sia una meraviglia, ho scritto tante volte su quanto sia strano e diverso il mercato del lavoro negli Stati Uniti. Il bello della flessibilità qui è che uno si licenzia regolarmente perché sa di poter trovare altrove, magari solo per andare in un posto più caldo; in Italia sarebbe una follia, non si può fare. Partecipo dunque a questo suo spirito…

    Ferrara. A questa fissazione, più che altro. Sa come dicono i siciliani? La fissazione è peggio della malattia.

    Bisin. Ma io partecipo. Trovo il mercato americano strepitoso da questo punto di vista. Ma il punto su cui reagisco è che sia l’unico mercato del lavoro possibile. Non è l’unico. Si può strutturare una società come questa, ma ha dei costi anche sociali. Ci sono fasce di persone fuori dal mercato ed essendoci poche protezioni questo è drammatico. Dico però che non è necessario che sia così, si può costruire un mercato più protetto ma comunque efficiente. Tra il nostro mercato e quello americano c’è un mare. Il punto cruciale, e su questo penso Fassina sia d’accordo, è proteggere il lavoratore e non proteggere il lavoro. Noi per anni e anni abbiamo protetto il lavoro: abbiamo tenuto in piedi situazioni di inefficienza produttiva e questo ci costa parecchio. Proteggere il lavoratore significa farlo cambiare e anche generare più mobilità: dargli la possibilità di cambiare lavoro, città, settore. L’Italia è un paese molto chiuso e ingessato. Anche solo una protezione del lavoratore anziché del lavoro aiuterebbe a muoversi senza arrivare a un mercato del lavoro americano, che nessuno in Italia vuole. Se lo vuole può andare negli Stati Uniti come ho fatto io.
    Sono d’accordo con Fassina quando parla di capitale sociale. L’impresa è famigliare per tante ragioni, anche perché il credito bancario funziona male. Ma anche perché in Italia si trova tutto (dall’avvocato al medico) tramite l’amicizia e la struttura famigliare. Ed è chiaro che le aziende finiscono per usare questo meccanismo, e non scelgono i manager come i tedeschi. Di certo il capitale sociale è importante, ma interagisce con una stratificazione decennale di fattori della produttività totale foriera di questa situazione negativa. Ad esempio, finanziarsi tramite obbligazioni e non tramite le banche: le banche sono legate alla politica (in maniera un po’ più perversa che in Germania) e quindi la politica ha fatto in modo che sia quello l’unico canale. Altrove fortunatamente non è così, esiste una quantità infinita di modi per finanziarsi. In Italia la carenza di start-up è dovuta a diversi fattori, compresa la mancanza di liberalizzazioni. Il tutto, infine, interagisce con un sistema di rapporti culturali per cui tutto si fa tramite amici e conoscenze per cui il capitale sociale diventa molto solido. Anch’io facevo molte cose tramite famiglia e amici, qui negli Stati Uniti non lo farei mai perché il mercato funziona.

    Ferrara. In sintesi chiedo a Fassina le cose politicamente possibili e che si possono fare da qui all’autunno per un governo di cui lui fa parte. Un governo con tante anomalie dentro, ma è un governo ringiovanito, che sa fare e ha una seria capacità di proposta. In parte le ha dette Letta davanti al Parlamento, in parte sono state annunciate ma sono proprio i primi passi. Forse Fassina può dirci quali sono queste cose importanti da agenda politica, poi Bisin potrà dire la sua e chiudiamo.

    Fassina. L’agenda è in parte già fatta. Ci sono impegni che sono stati oggetto del compromesso per la nascita del governo Letta. Ci sarà certamente l’intervento sull’Imu, il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga. Su come farlo c’è ancora dibattito. Una mia personale opinione, da discutere: eliminerei l’Imu per l’80-85 per cento delle famiglie italiane e utilizzerei i due miliardi rimanenti (quelli pagati dal 15 per cento delle famiglie con immobili di maggiore valore) per evitare l’aumento dell’Iva che scatterà il primo luglio. Credo ne beneficerebbero l’equità e anche i consumi in una situazione difficile. Col primo trimestre abbiamo un pil acquisito a meno 1,5 per cento. Non c’è nessuno che si aspetta un boom nei prossimi trimestri. Sono molto preoccupato per come potrà finire il 2013.

    Ferrara. Interrompo, chiedo scusa. Sulla parte europea, si sta diffondendo una “contro verità”. Cioè che l’austerity ci ha portato in recessione, non è la panacea di tutti i mali, è necessaria ma non sufficiente e anzi dev’essere contrastata con senso di flessibilità tra i problemi dei conti pubblici e di crescita. Però questa austerità sta servendo: la Grecia ha ricevuto un miglioramento del rating.

    Fassina. Io voglio ridurre il debito pubblico, ma segnalo che il debito è aumentato in Italia e anche in Germania è cresciuto. Vorrei fossimo pragmatici. Nessuno di noi pensa che sia possibile fare crescita col debito. Partendo dall’obiettivo di ridurre il debito vorrei ci mettessimo attorno a un tavolo per valutare cinque anni di politiche economiche per fare qualcosa perché l’attuale direzione di marcia ci sta portando al risultato opposto a quello che volevamo perseguire. Si è aperto uno spazio nel dibattito europeo che fino a un anno fa era assente. Ci si è accorti della necessità di una correzione sulla base dei fatti. Monti non è d’accordo, ma l’intervento che abbiamo fatto per il pagamento dei debiti della Pa alle imprese significa riconoscere che per dare un impulso all’economia bisogna fare più debito e più deficit per rianimare l’economia. Monti dice che non è così, ma è quello che stiamo facendo: la prima manovra anticiclica in tanti anni. Non rileva sul piano macroeconomico che sono soldi già dovuti. Non credo possa essere una ricetta ordinaria ma penso vada considerato che soffriamo di un enorme deficit di domanda. Se non la rianimiamo non ce la facciamo. Mi pare si sia aperto un dibattito in Europa. Al vertice di giugno faremo un altro passettino avanti, credo ancora timido.
    C’era d’altronde un’analisi errata sin dall’inizio. La crisi non è del debito pubblico ma di quello privato. L’aumento del debito pubblico è dovuto al crollo del pil e noi, invece di andare in direzione opposta, abbiamo continuato a dare mazzate. Dobbiamo in sostanza aggredire i nodi della produttività, non mi interessa avere un mezzo punto di deficit di margine dato da Bruxelles. Non risolve i problemi.
    Ma davvero in Europa pensiamo di recuperare questi margini di competitività globale riducendo il costo del lavoro? I motori dell’economia globale, compresi quelli emergenti, stanno tutti attuando politiche mercantiliste. Così non si può stare insieme. Se ci fosse qualcuno disponibile a comprare i prodotti europei – secondo la tesi dominante – potremmo fare svalutazione interna abbassando i salari e sperando che qualcuno compri, e ciò dovrebbe portare alla crescita. Non sta succedendo e ci stiamo incartando. Ritengo che l’Europa debba scegliere un’altra rotta che punti sostanzialmente sulla sua domanda interna. Siamo troppo ricchi e troppo grandi per vivere in un altro modo. Anche la Germania non sta facendo performance stellari. La rotta non funziona. In Europa abbiamo già visto questo film e l’ultima volta non è finito bene, speriamo di avere sviluppato degli anticorpi…

    Ferrara. Non passiamo adesso al pessimismo totale dei fattori…

    Fassina. Io sono ottimista comunque, speriamo al vertice di giugno di fare dei passi avanti. L’Unione bancaria sarebbe un passo molto significativo sia sul piano politico sia per gli effetti economici. Permetterebbe di sganciare il rischio dei debiti sovrani da quello bancario, adesso interdipendenti. Poi servirebbe che i paesi con un attivo di bilancia commerciale più consistente aumentassero le retribuzioni e in parte la Germania lo sta facendo. E’ un punto politico: bisogna decidere di essere cooperativi. Dobbiamo fare tutti i compiti a casa, non dobbiamo vivere a scrocco.

    Ferrara. Abbiamo usato poco la parola apriscatole “riforme”. Mi pare ovvio che siamo ai primi passi di un governo con una sua strategia e i suoi limiti, come ha ammesso con onestà Fassina. Delle riforme strutturali non abbiamo parlato. Le chiedo un giudizio su quanto detto da Fassina sul vertice europeo e poi di sviluppare il tema delle riforme. Ad esempio i suoi colleghi Alberto Alesina e Francesco Giavazzi insistono molto su questo, dicono “buttate a mare tutta la burocrazia”.

    Bisin. Sorprendentemente mi trovo di continuo d’accordo con Fassina. Lui ha indicato una lista di cose che il governo può fare e io non invidio la sua posizione, lui e i suoi colleghi sono in una situazione drammatica. Io preferirei toccassero l’Irap invece dell’Imu, ma ovviamente c’è un accordo politico. Sono d’accordo sul fatto che non sia necessario farlo in maniera generalizzata, aiutando le famiglie più povere, e se facendo questo riescono a non aumentare l’Iva va benissimo. La Cig in deroga non può essere rimandata. Sull’austerity dobbiamo fare dei distinguo.
    Se quello che stiamo facendo è tacitare i tedeschi da una parte e i mercati dall’altra aumentando le tasse, è chiaro che allora generiamo quell’austerity di cui parla Fassina. Ma c’è austerity e austerity: se quello che stiamo facendo è ridurre la struttura della spesa in Italia, per cui in un contesto dinamico nel corso dei prossimi dieci anni possiamo permetterci percorsi di spesa più ragionevoli, questo invece avrebbe degli enormi vantaggi, anche se comporta tagli della spesa oggi. Io penso che vada fatto subito per dare il senso di dove stiamo andando: la riduzione del rapporto debito pubblico/pil si fa riducendo il patrimonio dello stato, ma anche dando l’idea che si sta tagliando la spesa. Quando il governo Monti dalla spending review ha detto che avrebbe recuperato qualche centinaio di milioni, mi sono cadute le braccia: c’è molto di più da recuperare.
    Siamo tutti d’accordo che non si fa austerity in un momento di recessione. Non bisogna essere keynesiani per pensarlo. Bisognava in realtà farlo prima, adesso è più costoso. Ma bisogna farlo perché, se si esce anche per miracolo dalla crisi, tutto ricomincia. Dovevamo farlo quando i tassi erano bassi e i mercati internazionali pensavano che la Germania ci avrebbe coperto. Non l’abbiamo fatto prima, non lo faremo dopo, o lo si fa adesso o non lo si fa. Per questo penso che purtroppo l’austerity sia necessaria. Se “austerity” significa alzare le tasse, però, vuol dire spararsi nei piedi.
    Sono contento di avere sentito qualcuno dire “spezzare” il rischio sovrano dal rischio bancario con l’Unione bancaria. Sono d’accordo con Fassina. E’ fondamentale che si faccia: in caso di attacco speculativo rischiamo parecchio perché in Italia se tocchiamo il debito sovrano tocchiamo la struttura delle banche, e crolla tutto. Penso però che anche il partito di Fassina abbia giocato, come tutti in Italia, a mantenere il più possibile le banche sottocapitalizzate e piene di debito. Una politica che porta rischi mostruosi. Portiamo dunque il controllo delle banche fuori dalla politica e l’Unione bancaria significa anche questo.
    Adesso bisogna tagliare ma poi bisogna comunque sedersi a un tavolo. Io ad esempio ritengo che il welfare italiano non sia più sostenibile e che si debba toglierlo ai ricchi o, almeno limitarlo. Il problema è che abbiamo un sistema molto inefficiente. Delle due una: o lo efficientiamo o lo limitiamo, e lo stato deve fare un passo indietro, ma a partire dai ricchi e non dai poveri.