Sir Alex Ferguson, lo scozzese che ha fatto grande il Manchester United

Piero Vietti

Chissà che cosa penserà domani pomeriggio, quando per l’ultima volta sbucherà dal tunnel che collega gli spogliatoi di Old Trafford al campo di gioco, sugli spalti settantamila persone in lacrime

“Ci saranno altri Cantona, Scholes, Giggs, Cristiano Ronaldo. Ma non ci potrà mai essere un altro Sir Alex Ferguson”.
(Eric Cantona)


“Glory, glory Man United”
(coro dei tifosi del Manchester)


Chissà che cosa penserà domani pomeriggio, quando per l’ultima volta sbucherà dal tunnel che collega gli spogliatoi di Old Trafford al campo di gioco, sugli spalti settantamila persone in lacrime. Chissà quale ricordo gli faranno tornare alla mente quei fili d’erba che corrono lungo la fascia che porta alla sua panchina. Chissà se avrà rimpianti, pensando di non avere più occasioni per prendersi delle rivincite sul campo. Mercoledì scorso Sir Alex Ferguson, probabilmente il più grande allenatore della storia del calcio, ha voluto ricordare a se stesso e a noi tutti che le cose finiscono, anche le più belle. Dopo 27 anni in cui ha vinto tutto, il Manchester United si ritrova nudo all’improvviso, una squadra come le altre. Ferguson era una sicurezza, la sua faccia ha attraversato gli anni in cui il calcio è cambiato di più, diventando un appiglio per i più insicuri: finché c’è Sir Alex – si pensava – non è tutto da buttare. Adesso che se andrà a fare l’ambasciatore del club in giro per il mondo, a Old Trafford non basterà il suo nome scritto enorme sulla tribuna proprio davanti alla sua panchina (e che il suo successore, David Moyes, sarà costretto a guardare ogni volta), né la statua che lo raffigura a braccia conserte davanti allo stadio. Non c’è un altro come Alex Ferguson, e probabilmente non ci sarà mai.

 

Per capire chi è questo scozzese di Govan, Glasgow, che dal 1986 a oggi ha allenato il Manchester United, bisogna partire da due braccia alzate al cielo per 4.012 volte. Tante sono le occasioni in cui la palla colpita da un suo giocatore ha gonfiato la rete alle spalle del portiere avversario. Uno normale avrebbe il tempo di annoiarsi, di farci l’abitudine. Per Ferguson ogni volta è la prima. Le telecamere sanno che non bisogna perdersi un istante dei suoi novanta minuti in panchina. Segue le azioni dei suoi come un tifoso sugli spalti, si alza piano man mano che l’azione diventa pericolosa, alza gli occhi al cielo quando sfuma, impreca se i suoi attaccanti falliscono. Ma lo spettacolo è quando la sua squadra segna. E’ allora che Ferguson smette di dimostrare i suoi 71 anni: si alza in piedi, salta con le braccia in alto, corre giù dalla scaletta che dalla panchina porta a bordo campo, i pugni chiusi, la faccia rossa con un sorriso da bambino stampato sopra e l’inseparabile chewing gum tenuto stretto tra i denti.

 

Farà effetto, tra due settimane, non vederlo più lì. Sir Alex ha deciso che il suo momento è arrivato. Basta panchina, basta spogliatoi, basta allenamenti infrasettimanali, sedute con la squadra per studiare gli avversari, riunioni con gli osservatori per decidere le prossime mosse del calciomercato, conferenze stampa prima e dopo le partite, strette di mano a bordo campo e chewing gum masticato vicino al prato verde. Dopo 2.152 partite da allenatore, 1.500 delle quali a Manchester, 49 trofei vinti, tra cui 13 Premier League (il campionato inglese), e più di 100 giocatori acquistati, Ferguson diventerà dirigente.

Nato in un sobborgo di Glasgow, Alexander Chapman Ferguson impara la disciplina dal padre, operaio socialista nel cantiere navale della città, che andava ad aiutare dopo gli allenamenti e le partite. “Ho avuto un’infanzia dura ma non povera – ha raccontato – Certo, non avevamo la televisione, né un’auto, né un telefono, ma io ho sempre pensato di avere tutto: avevo un pallone!”. Come nelle migliori storie di chi ha sfondato in questo sport, il calcio era il centro della vita di Alex. Anche quando, dopo la scuola, cominciò a fare l’apprendista in una fabbrica di macchine per scrivere. Che fosse un leader lo si capì subito: appena diventato commesso organizzò uno sciopero dei dipendenti per ottenere dai padroni uno stipendio più alto. E lo ottenne. Intanto il calcio era diventato una cosa seria, anche se era chiaro che non era da giocatore che avrebbe lasciato il segno, nonostante la facilità con cui andave in rete. A 25 anni raggiunge il top del calcio scozzese, firmando per i Rangers di Glasgow. Li lascerà due anni dopo, quando un suo errore in finale di Coppa nazionale consegnerà la vittoria ai rivali del Celtic e costringerà Ferguson a giocare le partite successive, per punizione, con le giovanili. L’episodio segnerà Alex, che – racconta il fratello – butterà nella spazzatura la medaglia d’argento dei secondi classificati.

 

Perché prima di essere un vincente, Alex Ferguson è un bad loser, uno che non sa perdere. Che non vuole perdere. “Il mio lavoro è vincere ogni partita che devo disputare, tutto qua”, disse appena giunto a Manchester, nel novembre del 1986. Arrivava da otto anni all’Aberdeen, che sotto la sua guida era diventato il terzo incomodo del campionato scozzese, pestando i piedi ai mostri sacri di Glasgow, Rangers e Celtic, e aveva vinto una Coppa delle Coppe battendo in finale il Real Madrid. “Ho fatto qualcosa di utile nella mia vita”, fu il suo commento allo storico risultato. Ferguson già da giocatore aveva ricevuto offerte dall’Inghilterra, ma le aveva declinate soprattutto per la poca disponibilità della moglie Cathy a lasciare la Scozia. Ma quando il 6 novembre del 1986 una telefonata gli preannunciò l’arrivo di un dirigente dello United che si sarebbe presentato entro un paio d’ore nel suo ufficio per offrirgli la panchina dei Red Devils, neppure Cathy – che pure chiamava il calcio “quello stupido gioco” – ebbe dei dubbi. Allo United non si può dire di no.

 

Bisogna dimenticare tutto quello che il nome “Manchester United” ci suscita, per capire la situazione che Ferguson trovò al suo arrivo. Oggi pensiamo a questa squadra come a una delle più forti, ricche e conosciute al mondo. Quella con più campionati inglesi vinti, con tre Champions League in bacheca, decine di campioni che hanno indossato quella maglia e un settore giovanile tra i migliori in Europa. Dimenticate tutto questo. Nel 1986 lo United era una squadra mediocre, da mezza classifica e al massimo un paio di FA Cup (l’equivalente della nostra Coppa Italia) vinte qualche anno prima. Nobile decaduta, il Manchester viveva un presente triste specchiandosi nel suo passato glorioso. Bobby Charlton e George Best, che avevano fatto grande lo United negli anni Sessanta, erano un peso difficile da portare per un club dove lo sport preferito dei calciatori non era giocare ma bere. “Quando arrivai allo United – ha raccontato Ferguson – questo club aveva già una gloriosa tradizione alle spalle. Mi misi a leggere un sacco di libri sui Red Devils e familiarizzai con la loro bellissima storia. Poi smisi del tutto. Compresi che così facendo, invece di concentrarmi sul futuro, come avrei dovuto fare, stavo perdendo troppo tempo a pensare al passato”. Bisognava ricreare un ambiente, far tornare a essere un football club quello che nel frattempo era diventato – definizione sua – un drinking club, rimettere lo United davanti a Liverpool e Arsenal. Ferguson dedicò tutto se stesso a questo compito, e come in ogni grande storia che si rispetti l’inizio non fu facile. L’8 novembre l’esordio fu comprensibilmente disastroso: sconfitta per 2-0 contro l’Oxford United. Poi uno 0-0 a Norwich e finalmente una vittoria per 1-0 in casa contro il QPR. Non fu il prodromo di una cavalcata vittoriosa: lo United arrivò undicesimo a fine stagione, e i tifosi cominciavano a mugugnare.

 

Nel frattempo però Ferguson aveva preso a lavorare sul lungo periodo. Pochi giorni dopo il suo arrivo, fece riunire tutto lo staff che seguiva le giovanili e spiegò loro chiaramente che da quel giorno in poi lo United avrebbe dovuto innanzitutto produrre i propri giocatori in casa. Per fare questo, bisognava lavorare 24 ore al giorno per la società, non un minuto di meno. Quando la prima squadra giocava in casa, Ferguson e il suo vice, Archie Knox, andavano a vedere le partite dei giovani, arrivando anche a litigare con l’allora responsabile del settore giovanile se la squadra non si impegnava abbastanza. Del carattere insopportabile di Ferguson diremo tra poco, ma per capire i frutti che la sua insistenza sul costruire i propri campioni in casa portò nel tempo bastano alcuni nomi usciti da quelle giovanili: David Beckham, Gary e Phil Neville, Paul Scholes, Ryan Giggs e Danny Welbeck. La seconda stagione andò meglio, anche se il secondo posto a nove punti di distanza dal Liverpool campione non diede mai l’illusione di potere vincere il campionato. Ferguson però aveva cominciato il rinnovamento, vendendo i giocatori che secondo lui non avevano più nulla da dare alla causa (compresi quelli più intimi con la bottiglia che con il campo) e acquistandone di nuovi e più giovani. La terza stagione fu un altro fallimento, però: ancora undicesimi. Nell’estate del 1989 arrivarono nuovi giocatori, ma la situazione non migliorò. Dopo sei sconfitte e due pareggi, nel dicembre di quell’anno – “Il periodo più brutto della mia carriera”, dirà poi Sir Alex – all’Old Trafford apparse uno striscione inequivocabile: “Tre anni di promesse ed è ancora una merda, addio Fergie”.

 

I giornali lo davano per spacciato, l’unico dubbio era su quale partita sarebbe stata quella decisiva per il suo licenziamento. Quella partita arrivò. Terzo turno di FA Cup, l’avversario era il Nottingham Forest, detentore della coppa. Tutti si aspettavano una sconfitta dello United. Quando Mark Robins segnò il gol della vittoria dei Red Devils, non sapeva che quella rete avrebbe cambiato la storia del calcio. Il Manchester United di Alex Ferguson nacque quella sera. La conseguenza del gol di Robins fu la finale di FA Cup contro il Crystal Palace: 3-3 nella prima sfida e vittoria per 1-0 nella ripetizione. In sede potevano togliere la polvere dalla bacheca dei trofei. E cominciare a cercarne una più grande. L’anno dopo fu la volta della Coppa delle Coppe, con successiva vittoria della Supercoppa europea. Per vincere il primo campionato, però, Ferguson dovette aspettare il 1993. Dopo ventisei anni di digiuno, lo United era di nuovo campione d’Inghilterra. In quella squadra c’erano giocatori come Schmeichel, Ince, Huges, McClair, Cantona e un giovane di belle speranze chiamato Ryan Giggs. In panchina, un certo Beckham, Gary Neville e Nicky Butt tra gli altri. Quel titolo era l’ottavo nella storia della squadra. Domani, vent’anni dopo, a Ferguson verrà consegnata la coppa per il ventesimo successo in campionato dei Red Devils.

 

In Italia una carriera come quella di Alex Ferguson non si sarebbe potuta vedere. Troppa fretta di vincere qualcosa, e quindi di cambiare per poi non vincere niente. Ma anche guardando fuori dall’Italia, questi ventisette anni di amore tra una squadra, un popolo e il suo Boss, sono una delle cose più antistoriche che ci siano capitate di vedere. Non è facile allenare in Inghilterra, è difficile mantenere una squadra ad alti livelli, è praticamente impossibile restare ai vertici del calcio mondiale per oltre vent’anni cambiando quattro generazioni di giocatori.

 

Ferguson deve questa sua capacità innanzitutto al suo carattere. Antipatico, scorbutico, incazzoso, Alex venne soprannominato hairdryer, asciugacapelli, per il suo modo di parlare ai calciatori quando non giocavano bene: urlando loro in faccia, a un centimetro di distanza, “sei un fottuto perdente!”. Roba da far rizzare i capelli. Ferguson ha sempre urlato, nella sua vita. Dagli spogliatoi dello United, che lui riusciva comunque a tenere ben isolati dalle orecchie dei giornalisti, arrivano racconti terribili sulle sue sfuriate (e tutti conoscono l’episodio dello scarpino con cui colpì per sbaglio Beckham in faccia facendolo sanguinare). Calci agli oggetti che si trovava tra i piedi, pugni alle porte, tazze di tè che volavano da una parte all’altra e campioni internazionali zitti, il capo chino, ad ascoltare la ramanzina. Ai tempi dell’Aberdeen i suoi giocatori lo soprannominarono “Fergie il furioso”. Una volta multò un suo giocatore perché lo aveva superato in macchina sulla pubblica strada.

 

Più volte negli anni ha accusato la stampa di remargli contro, di creare un ambiente non adatto al lavoro dei suoi ragazzi. Ha allontanato giornalisti troppo insistenti dalla sala stampa e ha sempre cercato di preservare i suoi campioni dai contatti troppo stretti con rotocalchi e tv. E’ uno dei rari britannici che non ostenta fair play peloso: nove volte su dieci, quando perde è “colpa dell’arbitro”; e in questi anni non è stato raro vederlo litigare con l’allenatore avversario a bordo campo. A partita finita, però, Ferguson diventa un altro. Lo ha raccontato l’allenatore del Manchester City, Roberto Mancini, spiegando come dopo il derby perso l’anno scorso con rissa sfiorata tra i due, Fergie lo abbia invitato nel suo ufficio a Old Trafford per offrirgli un bicchiere di vino e complimentarsi per la vittoria. Nel tempo si è intenerito, dice, ma non ha mai perso il controllo della situazione. “Senza controllo – dice – non puoi avere una visione, né obiettivi, né sogni”. Quando capì che Paul Ince stava prendendo troppo potere nello spogliatoio, lo cedette all’Inter. Ebbe il coraggio di rimandare a casa David Beckham che si presentò in ritardo a un allenamento e non convocarlo per una delicata sfida contro il Leeds il giorno successivo. Ferguson vede il calcio come una causa per la quale si aspetta che i giocatori diano tutto. Il resto è secondario. A Sir Alex servono persone attorno a lui che siano pronte ad accettare la sfida. E la sfida è vincere dimostrando che gli altri sbagliano. Tutto questo lui lo fa urlando, incazzandosi, strepitando. “Se è nella tua natura perdere la pazienza, è giusto che tu lo faccia – dice – Se sei arrabbiato con i giocatori è bene che tu glielo dica, e se per dirglielo devi prendere a calci una porta, è giusto che tu lo faccia. Arrabbiarsi non è un problema, se lo fai con una ragione adeguata”.

 

La rabbia di Ferguson ha un fine apparentemente paradossale: il divertimento. Del pubblico, ma soprattutto dei suoi giocatori: “Voglio che si godano ogni partita, che  assaporino ogni sfida. Giocare a calcio deve essere una gioia, ed è questo sentimento che voglio vedere traboccare a Old Trafford”. Se un giocatore non è contento non può far vincere la squadra. Per questo negli anni Sir Alex non ha guardato in faccia quasi nessuno, mandando via anche quelli a cui era più legato, se capiva che a Manchester non si trovavano più bene.

 

Accanto al suo essere burbero e rompicoglioni, però, Ferguson è stato ed è soprattutto un padre. Non si può parlare di lui senza parlare dei suoi giocatori. Ci sono un sacco di foto di Fergie che parla con loro abbracciandoli. Scrive Scholes – uno dei suoi pupilli e uno dei centrocampisti più forti di sempre – nella sua autobiografia: “E’ sempre stata una figura paterna per me e per tutti i ragazzi. Se hai un problema, dentro o fuori dal campo, sai che con lui puoi parlare, anche dei tuoi guai famigliari”. Quando Wayne Rooney fu momentaneamente cacciato di casa dalla moglie per una storia di corna, Sir Alex lo ospitò a casa sua per qualche giorno. “Quando lo vidi per la prima volta – continua Scholes – ero un ragazzino: mi veniva incontro in un corridoio e io, che sapevo bene chi era, ne ebbi paura. Ma ancora oggi, che ho 38 anni, lo temo. Quando i miei nipoti mi chiederanno chi era Sir Alex Ferguson, dirò loro che è stato un grande uomo, uno che dava una possibilità ai giovani e che ha fatto sì che io diventassi la persona che sono oggi”. Nella squadra che sta per lasciare, alcuni giocatori titolari non erano ancora nati quando lui si sedette per la prima volta sulla panchina di Old Trafford, quell’8 novembre del 1986.

 

Nel 2001 Ferguson aveva deciso di ritirarsi alla fine di quella stagione. Tutto era pronto per il passaggio: dopo campionato, coppa e la folle vittoria in Champions League di due anni prima (da 0-1 a 2-1 contro il Bayern in due minuti, dopo il novantesimo), sarebbe comunque stato ricordato come un mito. Quell’anno lo United andò male, e non vinse nulla. “Non lascerò questo club da perdente”, disse, e prolungò il suo contratto per altri quattro anni. C’era da ricostruire una squadra ormai vecchia. Con calma – e furia – lo fece. Riprese gusto per la vittoria, e prolungò nuovamente. Vincendo ancora sei campionati, una FA Cup, tre coppe di Lega, cinque supercoppe, una Champions League contro i “fighetti” del Chelsea (come chiamava chiunque arrivasse da Londra) e una coppa del Mondo per club. Dopo avere vinto il suo tredicesimo campionato, qualche settimana fa, ha capito che questa volta se ne può andare tranquillo. Lascia una squadra giovane e vincente. E un popolo felice che domani allo stadio lo saluterà per l’ultima volta cantando ancora, con le lacrime agli occhi, “Every one of us loves Alex Ferguson”.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.