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La morte di Roger Ebert ha generato un flusso mediatico di quelli che spettano ai grandi pilastri della cultura popolare. Ebert è stato il primo critico cinematografico a vincere il premio Pulitzer, è diventato un fenomeno popolare grazie alla televisione, ha prodotto recensioni e commenti a un ritmo che sarebbe stato folle anche per una persona in salute, figurarsi per uno assediato dal cancro per oltre un decennio. Nell’ultimo anno di vita ha commentato trecento film, il suo record personale. Ha scritto decine di libri, si è cimentato in qualunque tipo di genere giornalistico su qualunque piattaforma, dal quotidiano cartaceo alla telecamera fino al blog e a Twitter.

    La morte di Roger Ebert ha generato un flusso mediatico di quelli che spettano ai grandi pilastri della cultura popolare. Ebert è stato il primo critico cinematografico a vincere il premio Pulitzer, è diventato un fenomeno popolare grazie alla televisione, ha prodotto recensioni e commenti a un ritmo che sarebbe stato folle anche per una persona in salute, figurarsi per uno assediato dal cancro per oltre un decennio. Nell’ultimo anno di vita ha commentato trecento film, il suo record personale. Ha scritto decine di libri, si è cimentato in qualunque tipo di genere giornalistico su qualunque piattaforma, dal quotidiano cartaceo alla telecamera fino al blog e a Twitter, ha scollinato il passo della cinematografia per entrare nella valle delle opinioni, dove ha fatto bella mostra di essere un cattolico con idee non potabili per l’establishment progressista che poi ha incensato la sua bara. “Un bambino concepito da uno stupro o da un incesto è innocente e ha tutto il diritto di nascere” è la frase di Ebert meno citata nei sentiti articoli di commiato dei grandi giornali americani.

    La traiettoria professionale di Ebert ha un merito generale che scavalca – e allo stesso tempo abbraccia – il contenuto della sua critica: ha fissato un canone giornalistico. In mezzo ai coccodrilli riempiti a forza di aneddoti, il critico dei media del New York Times, David Carr, ha individuato un tratto che sopravviverà a Ebert: “Gran parte di quello che ha lasciato è un incredibile esempio di come un solo giornalista può diventare molto più di quello che è”. Va bene il talento, la creatività, la capacità di coinvolgere i lettori non esperti con una prosa alla mano – tutte qualità che abbondano negli scritti di Ebert – ma il suo genio giornalistico consiste nell’aver scavalcato i paradigmi narrativi e di business comunemente accettati. All’inizio degli anni Settanta ha capito il potere, anche economico, della syndication, i diritti di riproduzione degli articoli, e lo ha sfruttato scientificamente per raggiungere un pubblico molto più vasto di quello del suo Chicago Sun-Times. Qualche anno più tardi ha coinvolto Gene Siskel, il suo concorrente diretto al Chicago Tribune, in un programma televisivo a tema cinematografico che è diventato in pochi anni un punto di riferimento a livello nazionale: era la prima volta che una conversazione sul cinema veniva proposta senza ricorrere al vocabolario ampolloso ed elitario della critica ufficiale. L’idea di usare i pollici per promuovere o bocciare un film è un facebookismo ante litteram. Negli anni Ottanta ha applicato la scienza della syndication alla televisione, concordando con la compagnia del Tribune, che si stava allargando al tubo catodico, un contratto che gli ha fatto guadagnare il 25 per cento dei profitti del programma. Carr racconta che una volta Ebert ha disegnato su un tovagliolo il modello di diffusione del suo brand per convincere una stella emergente della televisione di Chicago a uscire dalla nicchia del mercato locale. L’anchorwoman in cerca di visibilità si chiamava Oprah Winfrey.

    Ha aperto il suo sito personale nella preistoria del Web, rendendolo una piattaforma multifunzionale per articoli, commenti, libri, video, podcast, blog mentre la maggior parte dei suoi colleghi erano fermi a un modello di giornalismo monodimensionale. Promuoveva il suo festival cinematografico 15 anni prima che i grandi giornali iniziassero a penetrare sistematicamente nel mercato degli eventi. Non era un entusiasta della tecnologia in sé, ma coltivava la tendenza a sfruttare qualunque opportunità potesse cambiare lo scenario. A lungo si è rifiutato di sbarcare su Twitter, e quando l’ha fatto ha capito nel giro di pochi cinguettii il potere dello strumento che credeva avrebbe mutilato il suo stile disteso; non si curava soltanto della materia prima, la penna, ma anche del prodotto semilavorato, dei modelli di business, delle attività collaterali, della coltivazione dell’impero.
    Il giorno prima di morire ha scritto sul suo blog: “Al momento mi sto dedicando a Ebert Digital e al nuovo, altamente interattivo e navigabile Rogerebert.com. Scoprirete altri dettagli del nuovo prodotto il 9 aprile, quando il sito verrà messo in rete”. Ebert non è arrivato al 9 aprile, ma ha lasciato una traccia di sé più profonda e pervasiva anche dei suoi scritti: la genialità di un singolo giornalista ha permesso all’intera categoria di fare un salto in avanti. La sua attitudine visionaria illumina questa strana congiuntura in cui i vecchi giornali si muovono incerti sul terreno sabbioso della crisi in cerca di un nuovo inizio. La parabola di Ebert mostra che la salvezza non arriva con un progresso lineare, ma per balzi imprevisti e lampi di genio, cambi di paradigma repentini indotti da personalità strabordanti. Ebert non c’è più, ma la sua eredità giornalistica è viva al di là della dimensione dell’amarcord e della pura storia del giornalismo. Esistono casi di analoga genialità.

    Henry Blodget ha co-fondato il sito Business Insider, lettura imprescindibile per gli operatori di Wall Street e miniera di interpretazioni controintuitive su argomenti economici. Con ampie sezioni dedicate all’aggregazione, ça va sans dire. Spesso le notizie, anche quelle più serie, sono contornate da gallerie fotografiche ammiccanti: nessun articolo è troppo tecnico per non essere accompagnato da una scollatura. Anche nell’epopea di Blodget si respira l’impeto pionieristico di un Ebert, benché le due storie si muovano su registri completamente differenti. Alla raffinatezza venata d’ironia del critico fa da contraltare lo stile ruvido e impaziente di un ex studente di storia che voleva fare il giornalista e si è ritrovato a fare soldi a Wall Street. Un sacco di soldi. Dopo essere stato l’uomo più amato della finanza, Blodget è diventato il più odiato: quando è stato nominato alla guida di un giornale online che ambisce innanzitutto a fare da bussola per gli investitori, i sommi sacerdoti di Wall Street si sono stracciati le vesti. Il peccato originale di Blodget, che oggi ha 47 anni, è stato quello di aver capito molte cose troppo in fretta. Nel 1994 è arrivato a Prudential Securities, il braccio finanziario del colosso assicurativo, dopo una lunga e non brillantissima serie di stage giornalistici. A Prudential ha imparato a leggere bilanci e a fare analisi. A differenza dei suoi colleghi più ingessati aveva una certa propensione verso la tecnologia e attraverso la lente della finanza le cose meravigliose che succedevano dall’altra parte del paese, in California, gli sembravano miracoli tecnologici destinati a crescere all’infinito. Nescape, Apple, Google, Amazon: le analisi di Blodget davano sempre voti estremamente positivi ai player in ascesa della Silicon Valley, e dopo ogni previsione bastava aspettare mesi, a volte soltanto settimane, per trovare conferma nelle quotazioni dei titoli. A quel punto arrivavano non soltanto le chiamate degli investitori, che sentitamente ringraziavano, ma quelle delle televisioni, dei giornali, delle agenzie finanziarie. Tutti volevano sapere da Blodget quale sarebbe stato il prossimo titolo magico sui cui scommettere, la nuova mente illuminata alla quale dare credito. Era onnipresente nei dibattiti televisivi, sui canali finanziari, nei talk show in prima serata, perché in qualche modo aveva inventato o messo a sistema un mestiere praticato ancora in modo empirico, quello dell’analista finanziario-tecnologico.

    La previsione del boom di Amazon è stato in qualche modo il suo capolavoro. Nel 1998 ha detto che il titolo avrebbe raggiunto i 400 dollari, previsione accolta dalla comunità finanziaria con un grandioso lancio di pomodori. Un mese più tardi le azioni dell’editore e rivenditore digitale di Seattle hanno sfondato quota 500 dollari. Blodget è diventato il dominatore incontrastato del settore. Non è difficile intuire quando siano arrivate le disgrazie. Il declino per chi lavorava in quel settore negli anni Novanta si riassume in una parola soltanto: bolla. La bolla dot-com ha fatto esplodere il mondo che Blodget aveva pensato di poter comprendere con algoritmica precisione. Le analisi lungimiranti sono state annullate da una serie di controanalisi uguali e contrarie. La divinazione finanziaria su Amazon è stata spazzata via nel 2000 da quella su Time Warner e Aol, “una delle più redditizie fusioni della storia”: è stata piuttosto una delle operazioni più assurde della storia. Da indovino infallibile, Blodget si è mutato in un uccello del malaugurio e ci ha pure rimesso: qualche giorno prima dell’esplosione della bolla ha investito 700 mila dollari in titoli di aziende tecnologiche, carta straccia. Poco dopo ha accettato la liquidazione gentilmente concessa dal suo datore di lavoro, Merrill Lynch, ed è stato braccato dal procuratore generale di New York, Eliot Spitzer, e contemporaneamente dalla Sec, l’autorità della Borsa, per aver frodato centinaia di investitori. Alla fine ha dovuto pagare una multa da due milioni di dollari. Forse anche per reagire all’emarginazione e all’odio di chi lo aveva osannato Blodget ha inventato un modello di business spaventosamente efficiente.

    Ci sono voluti alcuni anni per far funzionare la macchina di Business Insider, ma adesso con ventiquattro milioni di utenti unici al mese che hanno una permanenza media sul sito di quattro minuti – le analisi dicono che ai trader di Wall Street non si può chiedere di più. Dopo il Wall Street Journal, Forbes e Bloomberg, la parte alta della catena alimentare, viene Business Insider. Il sito di Blodget è grande circa la metà di quello del Wall Street Journal in termini di contenuti, ma a Business Insider lavorano cinquanta persone, nel piano digitale del quotidiano di Rupert Murdoch circa 1.700. I numeri li fa mettendo il serio accanto al faceto senza soluzione di continuità. Il reportage su come Goldman Sachs ha seppellito la quotazione di Facebook viene appena prima dei “17 scontri più duri della storia di Wall Street”. Tutto è corredato da gallerie immagini di dimensioni spropositate, video prodotti senza andare troppo per il sottile, centinaia di abstract di articoli altrui che rimandano ai siti di origine. La vittoria di Business Insider è arrivata con l’annuncio che Jeff Bezos, ceo di Amazon, ha messo 5 milioni di dollari nell’impresa, portando il capitale attorno ai 18 milioni. Ma il valore aggiunto è lui, Blodget, il grande aggregatore di quel modello a diverse velocità che altri hanno portato all’estremo.
    Ad esempio BuzzFeed, il portale che mischia pubblicità, foto di gattini e reportage politici senza farsi troppi problemi. Anche in quel caso il motore è l’ideatore stesso, Jonah Peretti, uno che l’idea dell’espansione virale nella rete ce l’ha nel sangue. Il settimanale New York si chiede se BuzzFeed abbia davvero trovato la pietra filosofale per trasformare in oro il flusso delle news in rete, dove dominano metalli meno nobili. Nick Denton, direttore di Gawker, sito a metà fra il gossip e le news, ha detto che BuzzFeed “collasserà sotto il peso delle sue contraddizioni”, ma nell’affermazione si sente un retrogusto di invidia nemmeno troppo velato: Gawker non ha raccolto 46 milioni di dollari da investitori che credono nel progetto, BuzzFeed sì. Ebert, Blodget e Peretti sono solo alcuni esempi – fra loro lontanissimi per forma e stile – di come una personalità può trasformare un’intera categoria. E’ stato così anche nella prima ondata dei siti di informazione online, trascinati da Drudge e Huffington, ma nella crisi di quattrini e identità dell’industria delle news serve un’altra generazione pronta a raccogliere il testimone e a portarlo in posti che ancora non conosciamo.