Verso Italia-Galles

Capelli lunghi, pantaloncini corti e sogni grandi

Redazione

Quando arrivò il Sessantotto, il mondo si ritrovò a testa in giù ubriacato da una rivoluzione che investì ogni aspetto della vita così come era stata conosciuta fino allora. Costumi, doveri, gerarchie: tutto sovvertito. Poi, passata l'onda, ci si ritrovò sulla spiaggia a fare la conta di ciò che le era sopravvissuto e di quello che invece si era portato via la corrente. Due barche mancavano all'appello: il calcio e il rugby. Presa la via del mare, da quel giorno non sarebbero stati più gli stessi.

di Ronald Giammò

    Oggi pomeriggio la Nazionale di rugby affronterà il Galles nella terza giornata del Torneo delle Sei Nazioni. Gli uomini di Brunel, privi del loro capitano Sergio Parisse, cercheranno di dimenticare la debacle di Edimburgo di due settimane fa e di bissare il successo ottenuto contro la Francia nella prima giornata del Torneo.
      --------------------------------------------------------------------------

    Quando arrivò il Sessantotto, il mondo si ritrovò a testa in giù ubriacato da una rivoluzione che investì ogni aspetto della vita così come era stata conosciuta fino allora. Costumi, doveri, gerarchie: tutto sovvertito. Poi, passata l'onda, ci si ritrovò sulla spiaggia a fare la conta di ciò che le era sopravvissuto e di quello che invece si era portato via la corrente. Due barche mancavano all'appello: il calcio e il rugby. Presa la via del mare, da quel giorno non sarebbero stati più gli stessi.

    Spesso lo sport è un'estensione del carattere di chi lo gioca, e questo è tanto più vero se riferito al calcio, lo sport popolare per definizione. Si gioca per quel che si è. Poi si cerca d'imparare anche ad esser altro. La storia ha offerto numerose conferme di questa tesi: il Brasile dei dribbling e della fantasia arrivò a schierare cinque numeri dieci nella stessa squadra, dei fuoriclasse tedeschi si ricorda la loro disciplina imperturbabile; l'animosità, la sete di rivincita sono il tratto distintivo di molte nazionali sudamericane e noi italiani siamo maestri nello scovare la meraviglia di un contropiede laddove la battaglia più infuria e le maglie del catenaccio si fanno più strette. Spiegare quindi perché la rivoluzione del Calcio totale sia partita dall'Olanda appare ancora oggi un mistero. Sarà per un passato coloniale messo in secondo piano da imperi e monarchie più seducenti agli occhi degli storiografi, per la trinità calvinista (etica, purificazione, perseveranza) o la curiosità dello sguardo, ma l'idea di scrollarsi di dosso il calcio contemporaneo e di catapultarlo nel futuro nacque proprio lì, in Olanda, ad Amsterdam. Il papà si chiamava Rinus Michels. Uomo severo e di pochi fronzoli, Michels arrivò all'Ajax quando la generazione dei Cruyff e gli altri con cui avrebbe lavorato era poco più che adolescente. Non cercò di convincerli a seguirlo ma fece con loro un patto e lo scrisse sui muri dello spogliatoio: "Dove serve fermezza ci vuole rigore; dove serve fantasia deve esserci massima libertà d'invenzione". Come a dire: allacciatevi le cinture di sicurezza e fate come vi pare. Ma - cosa più importante - fatelo tutti insieme. E lo fecero. Cruyff, Neeskens, Resenbrink e gli altri cominciarono a fare e pensare qualcosa che mai nessuno prima aveva pensato. Qualcosa per cui non erano stati ancora trovati anticorpi. Brasiliani, uruguagi, tedeschi orientali, argentini: tutti storditi dagli Oranje. Nella finale mondiale, e siamo nel 1974, la magia s'interruppe di fronte alla Germania Ovest. Quel Calcio era stato un trucco ripetuto troppe volte ravvicinatamente. Ci riprovarono quattro anni dopo, e fallirono ancora meglio, in Argentina, ancora in finale contro i padroni di casa e i loro generali in tribuna ad applaudirli. Finì uno a uno al novantesimo e gli Oranje fecero anche in tempo a colpire un palo pochi secondi prima del fischio finale. Poi, nei supplementari, Mario Kempes e la Storia fecero il loro corso. Per chi volesse farsi un'idea bastino i primi tre minuti della finale del 1974. Una girandola di movimenti e una rete di passaggi fino all'inevitabile calcio di rigore assegnato per un fallo su Cruyff. In quei tre minuti, i tedeschi, la palla non la vedranno mai.

    Stessi anni, o giù di lì, altra fotografia. Cardiff, 1973, rugby: queste le coordinate. Da una parte gli All Blacks, dall'altra i Barbarians, squadra ad inviti aperta a tutti i giocatori del Regno Unito. A un tratto i Babas vengono ricacciati indietro da un calcio dei neozelandesi. Tutto lo stadio si aspetta che quel pallone venga raccolto e spedito in rimessa laterale: pericolo scampato, tempo per rifiatare. Nessuno si aspettava un contrattacco, men che mai che quel contrattacco potesse concludersi con la meta più bella della storia del rugby. In poco più di trenta secondi l'ovale passa tra le mani di otto giocatori, e sette di questi erano tutti gallesi. Anni dopo Gareth Edwards, l'autore di quella segnatura, confidò di aver chiamato in gaelico la palla al suo compagno. Si conoscevano bene, erano compagni di nazionale, e con la maglia rossa del Galles in quegli anni stavano sbalordendo il mondo intero. Oltre Manica, fino al 1968, il rugby non è che avesse fatto molto per cambiare il suo Dna. Ci si azzuffava parecchio, poi a un certo punto il pallone finiva tra le mani di uno dei mediani che con una pedatona lo scaraventava più in là. E più in là si ricominciava: altre zuffe, altre ammucchiate. Fino a quando non comparve Carwyn James. Spiegare chi fosse e quel che fece non è semplice. Veniva da Llanelli, una cittadina grande come Frosinone abitata da minatori e sventagliata dal vento. Faceva il professore ma sul campo non lavorò con i giovani: lui era uno che sapeva leggere gli uomini meglio di chiunque altro. "Il rugby è un gioco cerebrale", così si presentò, novello Galileo. Nessuno lo costrinse ad abiurare, fu lui a non volersi sedere sulla panchina della nazionale in disaccordo con le politiche federali di allora. Artigiano intransigente prese la sua rivincita nel 1971 quando a capo della spedizione dei British Lions (il meglio del Regno Unito, l'élite delle élites) andò a vincere in Nuova Zelanda, risultato mai replicato da nessun altro. Rientrò in patria e guidò il Llanelli fino a farlo diventare la squadra più forte dell'epoca tanto che nel 1972, un anno dopo l'affronto subìto, gli All Blacks ripresero la via del Galles per una informale rivincita e cancellare l'onta subita. Ripersero, e oggi quella storia è raccontata in uno splendido documentario della BBC. Tutto il Galles beneficiò dei suoi insegnamenti. Da Bridgend a Cardiff fino a Newbridge fiorì un nuovo modo di  interpretare quello sport che portò i Dragoni a vincere sette Cinque Nazioni in dieci anni. Schivo ma generoso, ai suoi diceva: "Prendete rischi, sbagliate, ma finché vi dimostrerete avventurosi io non me la prenderò". Carwyn James è morto poco più che cinquantenne in una stanza di un hotel di Amsterdam. Olanda, paese digiuno di rugby, ma avventuroso come nessun'altro.

    di Ronald Giammò