Il volto d’Israele
"Oom, Shmoom”, ripeteva David Ben Gurion. Traducibile, in ebraico, con “l’Onu, e chi se ne frega”. Una massima che riassume bene lo spirito con cui oggi Israele va al voto. Al di là della coalizione di governo che andrà a guidare il paese, lo stato ebraico non è più lo stesso che abbiamo conosciuto. Benjamin Netanyahu dovrebbe confermarsi “the king”, come nell’ormai celebre copertina di Time. Ma dalle urne uscirà un Israele mai visto prima.
"Oom, Shmoom”, ripeteva David Ben Gurion. Traducibile, in ebraico, con “l’Onu, e chi se ne frega”. Una massima che riassume bene lo spirito con cui oggi Israele va al voto. Al di là della coalizione di governo che andrà a guidare il paese, lo stato ebraico non è più lo stesso che abbiamo conosciuto. Benjamin Netanyahu dovrebbe confermarsi “the king”, come nell’ormai celebre copertina di Time. Ma dalle urne uscirà un Israele mai visto prima. Senza i kibbutz, il pilastro della costruzione dello stato che non ricorda più le fotografie di Robert Capa con i pescatori che alla sera leggevano Dostoevskij, le ragazze in sella al trattore che imbracciano il fucile o Konrad Adenauer con Ben Gurion nel Negev e due bicchieri vuoti sul tavolo. Oggi i kibbutz non sono più rappresentati dalla sinistra, ma dalla destra di Naftali Bennett, che la stampa europea con il Nouvel Observateur in testa definisce “l’inquiétant”.
Secondo Haaretz, “la prossima Knesset sarà la più religiosa della storia israeliana”. Cambiano gli slogan. Non più “land for peace”, ma “peace for peace”, o al massimo “land for land”. Cambiano i volti. Non più gli occhi glauchi e il volto glabro di Yitzhak Rabin, ma le barbe e gli occhi di brace dei timorati. Il paese si sposta verso gli esterni, l’oriente con la grande componente sefardita (marocchini, libici, iracheni, iraniani) nota per una posizione più dura nei confronti degli arabi, e l’immigrazione ideologica dagli Stati Uniti, che combatte l’assimilazione e ha una percezione rituale dell’Olocausto e dell’antisemitismo.
Non c’è più il Labour di Rabin, guidato oggi da Shelly Yachimovich, la seconda donna a prendere la leadership dopo Golda Meir e che ha abbandonato la piattaforma basata su “sicurezza e diplomazia” a favore di un’agenda social-economica. La nuova sinistra è la middle class che non si identifica più con la comunità agricola (i kibbutz) o militare (Ehud Barak). Un cambiamento non da poco, tanto che un simbolo dell’élite intellettuale come Amos Oz ha detto che “Yachimovich è peggio di Barak. Barak diceva: ‘Non c’è soluzione’. Yachimovich dice: ‘Non c’è problema’”. Con Ariel Sharon in coma ed Ehud Barak fuori (per ora) dalla vita politica, si interrompe la stirpe dei combattenti in politica. E il politico con il maggior numero di stellette viene da destra, il generale Yair Shamir, pilota e pioniere dei droni con un nome che è di per sé un programma politico, “Yair”, nom de guerre del comandante armato clandestino di destra più ricercato dal Mandato britannico. Non ci sarà il Likud di una volta, fondato sui principi identitari di Zeev Jabotinsky. Sarà il Likud della destra nazionalista del giovane outspoken Danny Danon (il programma satirico “Eretz Nehederet” lo ritrae con l’acne). Dice Nahum Barnea, commentatore politico, che sono le elezioni dei “kippot srugot”, dei copricapi religiosi. “La vecchia élite laica è scomparsa, sostituita da una generazione di nazionalisti religiosi politicamente ambiziosa”, dice Barnea. “E’ il loro tempo”.
Per tornare alla massima di Ben Gurion, sarà un Israele meno compiacente con la comunità internazionale, più diviso all’interno, più spregiudicato, più isolazionista, più eroico. E più consapevole di avere di fronte nemici che non conoscono green ma “blue line”. Quella del Mediterraneo, dove l’Iran e gli islamisti vogliono buttare a mare gli ebrei. Si dice che nel 2013 Israele tornerà allo spirito del 1973, l’anno dello Yom Kippur, quello “della guerra e dell’espiazione”.