Il governo del Preside Pella

Sergio Soave

Il primo “governo del presidente della Repubblica” fu costituito assai precocemente, all’inizio della seconda legislatura repubblicana, quando Luigi Einaudi incaricò Giuseppe Pella, che non era stato indicato esplicitamente per quell’incarico dal gruppo democristiano cui apparteneva, di formare un esecutivo.

    Il primo “governo del presidente della Repubblica” fu costituito assai precocemente, all’inizio della seconda legislatura repubblicana, quando Luigi Einaudi incaricò Giuseppe Pella, che non era stato indicato esplicitamente per quell’incarico dal gruppo democristiano cui apparteneva, di formare un esecutivo. La situazione politica appariva, anche allora, eccezionale e quella economica assai grave, anche se poi la fine del centrismo, che era stata constatata anzitempo, fu prorogata di almeno un lustro e l’economia imboccò presto la via di una crescita straordinaria, destinata a diventare “miracolosa” dal 1958 al 1963.

    Giuseppe Pella non era il più popolare dei ministri democristiani, anzi nei suoi confronti l’anno prima si era scagliato Giuseppe Dossetti, che lo considerava un esponente del più rigoroso liberismo, in antitesi con le sue aspirazioni cristiano-sociali.

    Peraltro anche Mariano Rumor, che difficilmente può essere considerato un estremista, scrisse che “Pella si comportava nel governo della finanza e dell’economia con arrogante intolleranza di ogni dissenso” e che “era ostile a ogni politica programmata che non avesse come condizione e fine la stabilità monetaria”. Esattamente questi erano probabilmente i meriti che gli riconosceva Luigi Einaudi che, quando era stato nel 1947 ministro del Tesoro mantenendo la carica di governatore della Banca d’Italia, lo aveva voluto al ministero delle Finanze, scorporato dal Tesoro in quell’occasione.

    Dopo le elezioni del 1948 e l’ascesa di Einaudi al Quirinale, Pella ha costantemente il controllo delle scelte economiche del governo presieduto da Alcide De Gasperi, che però gli affianca Ezio Vanoni, sostenitore di una politica finanziaria più “perequativa” e dell’intervento pubblico in economia, anche a sostegno delle iniziative di Enrico Mattei. Si arriva così alle elezioni del 1953, caratterizzate dalla nuova legge maggioritaria che non scatta per pochi voti, in una situazione in cui è aperta l’alternativa tra due linee di politica economica, quella einaudiana del primato della stabilità monetaria e quella sostenuta da Vanoni, ma anche da repubblicani e socialdemocratici, di impronta keynesiana.

    Il tentativo di De Gasperi di formare un nuovo governo fallisce, come previsto, mentre quello informale di Attilio Piccioni si impantana subito per le rivendicazioni di Giuseppe Saragat, ancora incredulo della punizione che “il destino cinico e baro” ha inflitto alle sue aspirazioni elettorali. E’ in questa situazione confusa che, in pieno Ferragosto, Einaudi conferisce l’incarico a Pella che lo accetta per un governo “amministrativo”. Già allora gli osservatori più acuti segnalarono il carattere eccezionale di questa soluzione, che poneva problemi assai simili a quelli che si pongono oggi di fronte al governo tecnico di Mario Monti.

    In uno scritto sulla Nuova Antologia del dicembre 1953, l’editorialista liberale Mario Ferrara esaminava l’imminente crisi del breve governo Pella ponendo interrogativi straordinariamente attuali. “Il governo dell’on. Pella”, scriveva, “fu costituito in una situazione di emergenza, con il voto del Parlamento imposto alla volontà del partito, con una adesione spontanea e cordiale di gran parte della pubblica opinione, ansiosa di trovare un uomo nuovo”. Era stata la situazione eccezionale a spingere “per un governo di amministrazione che, per forza di cose, divenne il governo del Parlamento”. Le vicende legate alla vertenza triestina con la Yugoslavia, nel corso delle quali Pella aveva assunto atteggiamenti radicali, portarono il suo esecutivo all’isolamento, e Ferrara osserva che “la maggioranza che aveva sostenuto l’on.

    Pella allorché presentò il suo ministero non esiste più: se ne formerà una nuova quando il lungo negoziato e le non brevi conferenze saranno concluse: se ci saranno”. L’amara conclusione, valida tutt’ora, è che “dal travaglio dei partiti può nascere una nuova vita o disgregarsi definitivamente una società come la società moderna che ha bisogno dei partiti per essere ordinata in uno stato moderno: ma che ha bisogno, al tempo stesso, di non esserne dominata o soffocata”.