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Pensierini letterari sull’anno che s’è portato via i poeti (Cav. incluso, forse)

Matteo Marchesini

Bongiorno. Io so, anche se non ho le prove, che prima o poi qualche nostro narratore glamour sfrutterà la triste vicenda toccata alla salma di Mike come filo conduttore per un suo romanzo: inventerà una serie di avventure in cui la bara passa attraverso tutti i luoghi della cronaca nazionale, e tenterà di farne l’oscuro simbolo di un potere mediatico in dissoluzione. Sarà un secondo furto della salma, e disgraziatamente non punibile dalla legge.

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Bongiorno. Io so, anche se non ho le prove, che prima o poi qualche nostro narratore glamour sfrutterà la triste vicenda toccata alla salma di Mike come filo conduttore per un suo romanzo: inventerà una serie di avventure in cui la bara passa attraverso tutti i luoghi della cronaca nazionale, e tenterà di farne l’oscuro simbolo di un potere mediatico in dissoluzione. Sarà un secondo furto della salma, e disgraziatamente non punibile dalla legge.

1993-2011. Si definisce Seconda Repubblica il lungo, danzante, progressivo avvicinamento di Gianfranco Fini e Francesco Rutelli, attraverso una serie di peripezie e di ostacoli orchestrati dal romanziere che più di tutti ha contribuito a lanciarli, e che poi, una volta raggiunta da entrambi la medesima sponda, è stato liquidato come un inutile ponte. Questo romanziere-ponte ha nome Silvio Berlusconi.

Osmosi degli stili. Nel 2011 sono morti Giuseppe D’Avanzo, che aveva trasformato la cronaca giudiziaria dei giornali in un genere letterario, e Giorgio Bocca, che aveva trasformato un filone letterario, quello del romanzo politico-industriale, in un giornalismo tagliato con l’accetta. Ai troppi poligrafi che da loro si sono sentiti autorizzati a rimescolare stili e livelli, saldandoli in un tono sempre ultimativo, resta in mano il guscio senza la polpa.

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Zanzotto e Carducci. Abbiamo dato l’addio anche a due dei maggiori poeti del secondo Novecento, Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. Indossando la maschera del più astuto understatement, Giudici ha recitato la parte del Gozzano dell’epoca repubblicana, e le sue buone cose di pessimo gusto sono state le icone del modernariato cattocomunista. Zanzotto invece non ha fatto altro che cercar di mimare un subconscio in cui le maschere vengono lacerate e ricomposte di continuo. Perfidamente incoronato successore da un Montale ben deciso a lasciare dopo di sé il diluvio, col suo diluvio di balbettii e di idiomi Zanzotto ha messo d’accordo tutti, gli avanguardisti e gli anti avanguardisti. La sua opera insieme “aperta” e catafratta è sembrata il punto di massima conciliazione tra un nichilismo d’obbligo e un’agognata resistenza della parola lirica. Eppure, anche qui il gioco dei paragoni con la storia letteraria può forse aiutare a ridimensionare le cose. Mi sono chiesto spesso se Zanzotto non rappresenti per il gusto attuale qualcosa di simile a quel che Giosuè Carducci rappresentò per il gusto del secondo Ottocento e dell’inizio del secolo XX. Carducci, da buon italiano d’allora, mischiava la vulgata positivista a echi tedeschi e francesi, trasportati a fatica sull’aulica lingua poetica nostrana. Zanzotto, da buon italiano del Novecento, ha scelto per droghe la psicoanalisi più ardua e le filosofie – sempre tedesche e francesi – sul Linguaggio, l’Origine e il Nulla, mescolando il tutto a un retroterra petrarchista ed ermetizzante. Giosuè fu ottocentescamente e vigorosamente giacobino, nazionalista, anticlericale e “civico” fino all’ottusità; Zanzotto è stato novecentescamente nevrotico, ipercosciente, volontaristicamente inabissato nei meandri di una mente truccata volta a volta da civiltà o da paesaggio. Ma entrambi i poeti sono classicisti: di un classicismo destinato ad affrontare lo sfacelo del brutto, a rompersi davanti alle neo lingue della tecnica e della chiacchiera. Tutti e due somigliano più a oratori che a lirici: l’uno ridondante e l’altro ridondante d’afasia, ma entrambi costretti in una rude, rapsodica artificiosità. Chissà, insomma, che anche la complicità perfetta di Zanzotto con la nostra epoca non ci appaia un giorno non lontano come un fatto più storico che estetico; e chissà che – come nel caso di Carducci – la sua eredità migliore non si trovi in certi rari, inattesi testi piani e malinconici, oltre che negli intelligentissimi saggi critici.

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