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Come nasce la Leopolda

Intendiamoci: il Matteo Renzi che da ieri sera ha ricominciato a mollare scappellotti ai vecchi volti del vecchio establishment del vecchio Partito democratico non nasce solo sulla spinta di quella famosa definizione di successo (“Rottamazione”) che negli ultimi mesi ha contribuito ad amplificare ogni suo tentativo di stuzzicare, di spaventare, di incalzare e di stimolare (e a volte di fare incazzare) i grandi dinosauri del maggior partito d’opposizione.

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Intendiamoci: il Matteo Renzi che da ieri sera ha ricominciato a mollare scappellotti ai vecchi volti del vecchio establishment del vecchio Partito democratico non nasce solo sulla spinta di quella famosa definizione di successo (“Rottamazione”) che negli ultimi mesi ha contribuito ad amplificare ogni suo tentativo di stuzzicare, di spaventare, di incalzare e di stimolare (e a volte di fare incazzare) i grandi dinosauri del maggior partito d’opposizione.

Chiunque conosca il mondo del Pd sa che la vera ragione per cui il gran rottamatore oggi può permettersi di fare la voce grossa con le vecchie glorie del suo stesso partito non va ricercata nel provocatorio lessico adottato dal primo cittadino fiorentino ma va individuata piuttosto in un passaggio della biografia renziana. Un passaggio spesso trascurato dai detrattori del sindaco fiorentino ma senza il quale il Renzi, che oggi promette di tirar fuori dalla sua tre giorni di kermesse le idee giuste per dare corpo (e possibilmente anche volto) al suo big bang, non avrebbe mai trovato la forza di lanciare la sua sfida ai “vecchi gattopardi del partito”.

Quel passaggio risale a una data particolare in cui Renzi è riuscito a compiere la stessa impresa che sta cercando di realizzare in questa fase della sua vita: candidarsi alle primarie senza avere la certezza di vincere le primarie, sfidare le vecchie correnti senza avere la certezza di non essere da loro quotidianamente cannoneggiato e provare a sbaragliare la concorrenza sapendo che in caso di insuccesso l’unica strada che gli resterebbe da percorrere sarebbe quella che lo accompagnerebbe verso la porta d’uscita.

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In quell’occasione – in quel famoso 15 febbraio del 2009 in cui Renzi sfidò i vecchi apparati del Pd candidandosi contro tutti i pronostici alle primarie fiorentine, dopo un “ostruzionismo mai visto prima in vita mia”, dopo che “mi cambiarono le regole in corsa in modo scandaloso” – a Renzi riuscì il capolavoro di diventare a trentatrè anni il sindaco della seconda capitale d’Italia. Bisogna partire proprio dalla conquista di Firenze per capire il senso della marcia sul Pd di Bersani (non male tra l’altro come coincidenza che la kermesse della Leopolda cada nell’anniversario della marcia su Roma: 28 ottobre) e bisogna partire da quello che successe nell’inverno di tre anni fa per comprendere qualcosa di più sulle intenzioni del sindaco di Firenze.

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Perché nasce qui – e non tanto in televisione, non tanto nelle interviste sui giornali, non tanto nelle pagine dei libri – il profilo competitivo del sindaco di Firenze: nasce dalla clamorosa rupture del 2009, dal consenso maturato in questi anni in città (tutte le rilevazioni demoscopiche certificano un gradimento per il sindaco intorno al 65 per cento); nasce dall’intenzione di rappresentare in chiave moderna il pensiero del sindaco (e quasi santo) Giorgio La Pira (sul quale Renzi ha scritto la sua tesi di laurea), e nasce soprattutto dalla stessa identica voglia di cavalcare un’idea che fino a oggi per Renzi si è rivelata vincente.

Un’idea semplice: non limitarsi a raccogliere consensi nel proprio bacino elettorale ma provare ad allargare gli orizzonti per rubacchiare voti anche lontano dal proprio partito. Renzi sa che oggi i (suoi) sondaggi dicono che per conquistare la leadership  non c’è altro modo se non coinvolgere nella sua corsa non solo i delusi dal centrodestra ma anche molti di quegli elettori (in Italia sono circa il 40 per cento) non intenzionati a dare il loro voto ad alcuna delle varie parti politiche in campo – e anche nel 2009, quando Renzi sconfisse alle primarie Lapo Pistelli e Michele Ventura, la forza del sindaco fu quella di imporsi alle urne grazie a un elettorato composto per il 79,8 per cento da persone che in tasca non avevano alcuna tessera di partito.

Ebbene sì, si può dire che sarà questo il senso della tre giorni leopoldina di Renzi: allargare il Pd. Un concetto che verrà tradotto da chi non ama il sindaco e gli rimprovera la visita bipartisan a Arcore, con una frase del tipo: “Renzi si è spostato troppo a destra per essere un candidato spendibile per il centrosinistra”. Ma un concetto invece che per i vecchi sostenitori dell’idea che il Pd debba essere una grande casa aperta, capace di attrarre tanto le anime del centrosinistra quanto le forze in uscita dal centrodestra, suonerà invece in un modo molto diverso: come “l’unica salvezza per il progetto del Pd”, come “l’ultima scialuppa per il nostro partito”, o ancora meglio – tanto per parafrasare Bersani – semplicemente come l’unico modo – per dare ancora un senso a questa storia democratica”.

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