La maledizione thailandese
“E’ la maledizione del Naga”, dice un vecchio che vive in uno dei pochi villaggi rimasti sulla riva destra del Chao Phraya, il fiume che attraversa Bangkok, di fronte al porto e agli slum di Klong Toei. Il Naga è una figura mitica diffusa in tutta l’Asia orientale, un serpente a sette teste che incarna lo spirito delle acque e ne rappresenta la forza benevola e quella distruttrice. Secondo il vecchio, è il Naga che sta sommergendo Bangkok e ha già sommerso gran parte del paese. Negli ultimi mesi l’acqua ha coperto quindicimila chilometri quadrati.
Per proteggersi dalla “maledizione del Naga” non si trovano più amuleti nel mercato del Tha Phrachan, a pochi passi dal palazzo reale. E’ già mezzo sommerso. I venditori stanno impacchettando i phra kreung, talismani cui si attribuisce il potere di tener lontani mali e pericoli. E in ogni caso, a quanto dicono dopo un’accesa consultazione in un banchetto ancora aperto, contro questa calamità c’è poco da fare. Un po’ più in là del mercato, sull’altra riva del fiume, a pochi minuti dall’ospedale dove da molti mesi è ricoverato il venerato re di Thailandia, il grande ponte che collega i quartieri nord-ovest della città finisce in un nuovo fiume, quella che una volta era la strada Arun Amazzin. Le case e le botteghe sulle sue rive sono semisommerse, ma qualche ambulante continua a cuocere salsicce alla griglia sul suo carrettino arenato su un cumulo di sacchi di sabbia (ne sono stati distribuiti più di un milione, ma non bastano). I bambini si divertono a bordo di grandi tinozze. Se la cavano meglio dei militari, che continuano a rovesciarsi sulle loro canoe a fondo piatto. “Amazing Thailand”, la sorprendente Thailandia, dice in inglese una signora citando lo slogan dell’ufficio del Turismo, mentre li osserva divertita dalla porta della sua cucina allagata. Non si sa bene come, ha spostato il frigorifero sopra il lavandino. Lo apre, stappa una birra, sorride e continua in thai: “Mai pen rai”, non te la prendere.
Ecco perché i danni hanno raggiunto cifre iperboliche: è stato sommerso il cuore produttivo della Thailandia, dove s’erano installati gli stabilimenti di molte industrie giapponesi d’auto ed elettronica. Le perdite sono stimate in circa 6.5 miliardi di dollari, pari al 2 per cento del Pil. Circa 640.000 persone sono senza lavoro.
Le colpe, com’è facile intuire, saranno in gran parte addossate al primo ministro Yingluck Shinawatra, sorella dell’ex premier in esilio Thaksin, ed eletta con schiacciante maggioranza proprio con un programma in difesa dei ceti più deboli, la maggioranza del paese. L’opposizione l’ha anche accusata di aver visitato le zone colpite indossando stivali impermeabili Burberry da 250 dollari. A Yingluk, invece, va riconosciuto il coraggio d’essersi assunta l’onere di ogni decisione. Le colpe che hanno scatenato il Naga sono la fragilità di un sistema. Che potrebbe essere preso a simbolo della fragilità di tutto il sistema asiatico, troppo frettolosamente indicato quale protagonista di un nuovo secolo che dovrebbe segnare il tramonto dell’Occidente. Qui i grattacieli sono spesso un’esibizione di potere più che un segno di potere reale. Ed è quasi un paradosso che il peso stesso dei grattacieli di Bangkok contribuisca al suo sprofondamento. Qui il fattore umano è troppo spesso marginale: le disuguaglianze sociali e il degrado moltiplicano i rischi, ma scorrono via con l’acqua anche le cifre di un disastro che in Occidente apparirebbero apocalittiche. Qui, nei supermarket popolari gli scaffali sono vuoti: non c’è più riso, né acqua. "Non capisco di che si preoccupano, il Paragon è pieno di roba", dice una signora dell’alta società locale, citando un lussuoso centro commerciale.