America senza stimoli
Perché per ora la Fed (come Obama) non ha cure choc per i mercati
Il governatore della Banca centrale americana, Ben Bernanke, ritira l’arma non convenzionale dell’iniezione di liquidità. Almeno per ora. Ieri il numero uno della Federal Reserve, intervenuto all’annuale simposio globale dei banchieri centrali a Jackson Hole (Wyoming), non ha accennato alla possibilità di un terzo acquisto di asset governativi (“quantitative easing”) da parte dell’Istituto, il cosiddetto “QE3”. La Fed rimane pronta a “fare tutto il possibile” per sostenere la “modesta” e “deludente” ripresa dell’economia americana, afflitta da un tasso di disoccupazione “straordinariamente alto”.
Finora Bernanke si era spinto più in là di qualsiasi suo predecessore nell’uso di politiche monetarie non comuni. Il culmine l’aveva raggiunto proprio l’agosto scorso, quando da Jackson Hole annunciò il precedente stimolo (QE2) che dal novembre 2010 si è tradotto nel programma d’acquisto per 600 miliardi di asset pubblici, esauritosi a giugno. Una mossa che per quanto ambiziosa – puntava a riaccendere i consumi e abbattere la disoccupazione – non ha troppo influenzato l’andamento dell’economia reale. Né, spiegano gli analisti, era possibile ripercorrere la stessa via a un anno di distanza.
Oggi infatti le condizioni di mercato sono cambiate a tal punto da rendere l’intervento azzardato secondo alcuni osservatori, inutile secondo altri. Primo: nell’agosto 2010 il pericolo deflazione sembrava alle porte, oggi l’indice dei prezzi al consumo è invece arrivato al 3,6 per cento; stampare altra moneta potrebbe avere più controindicazioni. Secondo: alla vigilia della QE2, l’indice S&P500 di Wall Street viaggiava attorno ai 1.047 punti, ora è sopra i 1.170; il QE2 ha sostenuto la Borsa ma gli effetti sull’economia reale dove sono? D’altronde la decisione presa a luglio di lasciare i tassi vicino allo zero fino a metà 2013 è già uno stimolo, e per Bernanke non è stato politicamente a costo zero: tre membri del Comitato si sono opposti, e non può ignorarli. A questo si aggiunge il contesto politico. I repubblicani, ha sostenuto polemicamente il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman, starebbero “intimidendo” la Fed dopo aver spinto all’inazione anche il governo federale di Washington.
L’esaurimento delle frecce al proprio arco è un fattore comune che lega Bernanke al presidente Barack Obama, che non può agire sulla leva fiscale. La Casa Bianca sta ora pensando a un programma di rifinanziamento dei mutui a tassi agevolati per consentire a milioni di americani, costretti a pagare rate sempre più elevate, di risollevare le finanze familiari e spendere denaro altrove allo scopo di rilanciare i consumi. L’obiettivo rimane però quello di creare lavoro. Obiettivo che Obama intende raggiungere con la proposta, che fatica a trovare consensi a Capitol Hill, di una “banca delle infrastrutture” per finanziare strade e ferrovie e assorbire i disoccupati. Anche su questo punto si concentrerà il discorso di Obama in occasione del Labour Day, il 5 settembre prossimo, con l’annuncio di un nuovo piano economico alla nazione. Per questo alcuni commentatori si aspettavano ieri un assist a Obama da parte di Bernanke. Uno stimolo, seppure solo verbale, che non è arrivato. Bernanke aveva già detto che la Fed non può sostenere da sola l’economia, e ieri ha ribadito che Washington deve decidere in fretta: “La politica fiscale dev’essere posta su un percorso sostenibile che assicuri un rapporto tra debito e pil stabile o preferibilmente in calo nel corso del tempo. Come ho già sottolineato – ha concluso Bernanke – senza significativi cambiamenti di policy, le finanze del governo entreranno in una spirale fuori controllo”.