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L'addio ad Agota Kristof, la signora “fa sempre lo stesso”

Stefania Vitulli

Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare. Se non avessero ritrovato questi testi non avrei consegnato niente agli editori per altri dieci anni. D’altra parte, mi sembra di aver pubblicato abbastanza”. Protesto. Ha scritto soltanto quattro romanzi e nove pièce teatrali e, adesso, ha rivisto i due inediti che stanno di nuovo facendo parlare di lei in tutta Europa: una raccolta di scritti autobiografici, “L’Analfabeta” e una di racconti, “La vendetta”.

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La scrittrice ungherese Agota Kristof, l'autrice della Trilogia della città di K, è morta a Neuchatel, in Svizzera, all'età di 76 anni. Era da tempo gravemente malata. Ecco cosa raccontava al Foglio il 5 marzo del 2005.

"Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare. Se non avessero ritrovato questi testi non avrei consegnato niente agli editori per altri dieci anni. D’altra parte, mi sembra di aver pubblicato abbastanza". Protesto. Ha scritto soltanto quattro romanzi e nove pièce teatrali e, adesso, ha rivisto i due inediti che stanno di nuovo facendo parlare di lei in tutta Europa: una raccolta di scritti autobiografici, “L’Analfabeta” e una di racconti, “La vendetta”. Eppure è considerata una delle maggiori scrittrici viventi in lingua francese, tradotta in trentatré lingue. “Può essere che abbia altre cose da raccontare. E’ la voglia che mi manca. Continuo a scrivere ogni tanto per me stessa, ma, senza che sia successo niente di speciale, ho perso l’entusiasmo necessario. E poi, forse, lo trovo anche un po’ inutile”. Agota Kristof è uscita l’altro ieri dall’ospedale ed è tornata nel suo appartamento: “Sto in una vecchia casa della parte vecchia di Neuchâtel, in una strada dove non si sta mai tranquilli. Ci sono prostitute, drogati, ubriachi. Ma ci sto bene, c’è il supermercato vicinissimo”. Dice che si sente vecchia, malata e che le hanno lasciato un sacco di cicatrici: l’hanno operata alle gambe, per facilitarle un poco la motilità, e alla pancia. La voce è quella ferma e secca di sempre, la erre dura, ungherese, che non ha mai perso, le scoppia sotto la lingua. Ogni tanto tossisce e quella che ha appena rilasciato è una dichiarazione di abbandono delle scene letterarie, ammesso che lei se ne sia mai sentita parte.

Chi la conosce immagina, però, che domani potrebbe dire a qualcun altro l’esatto contrario. Perché Agota Kristof vive il momento. In questo momento si sente vecchia e malata e ha deciso che non scriverà più. Domani, chissà. Nell’autunno scorso, ad esempio, si sentiva ancora piena di speranze. Ha rilasciato una serie di interviste ai quotidiani francesi e svizzeri in cui dichiarava che ci sarebbe stato ancora un romanzo, nel futuro. Un romanzo su suo padre, che faceva il maestro. Che venne messo in carcere quando Agota era adolescente. Dai russi, perché era un disertore. O perché abusava sessualmente dei suoi allievi. O perché si occupava troppo di politica.

Quando Agota Kristof racconta a viva voce, è lo stesso di quando scrive: i tempi, i luoghi, i veri nomi non hanno importanza e quando ce l’hanno spesso non ha voglia di parlarne. Importano la concretezza dei fatti e la voce narrante e l’atto della scrittura, “che ti porta via come un sogno. Ho l’abitudine di scrivere senza precisare il luogo in cui si svolgono le azioni. Ho l’abitudine di scrivere le cose ‘in generale’. Le cose accadono in generale, un po’ dappertutto. E non immagino nemmeno i personaggi in un tempo preciso. Può essere accaduto oggi. E anche ieri”.
Del prossimo romanzo forse esistono duecento pagine scritte a mano su alcuni quaderni. Quaderni che Agota non tocca quasi più. Duecento pagine di cui comunque, quando avrà seguito, se mai lo farà, il procedimento che le è abituale per arrivare all’opera definitiva, cioè rivedere tutto con un dizionario alla mano, riordinare i passaggi secondo coerenza narrativa, sopprimere gli scarti e finalmente battere a macchina, rimarrà secondo lei ben poca cosa. In un’intervista a Le Temps dello scorso agosto, ha speso tuttavia addirittura un titolo possibile, “Aglaé dans les champs”, storia di una bambina che s’innamora di un adulto: “Come feci io con lo zio Guéza, un amico di mio padre, pastore del villaggio. Avevo sei anni. Fu il mio primo amore. Ero certa che ci saremmo sposati, quando fossi cresciuta”. Ma chissà se questa storia la scriverà davvero. Qualche anno fa, Valérie Petitpierre ha scritto un saggio molto dettagliato sull’opera di Agota Kristof, “D’un exil, l’autre”, per lo stesso editore che nella Svizzera francese pubblica “L’Analfabeta”, Zoé. Un saggio in cui si parla molto di menzogna, di autoesilio di Agota anche attraverso la scrittura. Alla Kristof non è piaciuto: “Non amo certe cose che scrivono su di me. Non sempre c’è qualcosa da spiegare e comunque non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui”.

In questi giorni, in Italia, quasi in contemporanea, arrivano due raccolte di testi inediti di Agota Kristof, “L’Analfabeta” e “La vendetta”. Il primo è uscito meno di un mese fa, pubblicato da Casagrande, un editore ticinese, il secondo arriva in libreria la settimana prossima per Einaudi, l’editore storico della Kristof in Italia, dopo la cessione dei diritti da parte di Guanda. Si tratta di due volumi la cui storia è in qualche modo collegata. Agota Kristof ha ceduto da tempo la gran parte dei suoi manoscritti all’Archivio Nazionale di Berna: “Quelli dell’‘Analfabeta’ sono testi di vent’anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio perché non avevo alcuna intenzione di pubblicare i vecchi testi. Per me sono finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno, editori italiani, li ha trovati, gli sono sembrati interessanti, li ha richiesti. L’archivista della biblioteca è una signora adorabile che tiene tutto in perfetto ordine e classifica i miei scritti, che siano o non siano terminati. Se li avessi tenuti io non li avrei mai ritrovati. Ho così tanta carta in casa e c’è un tale disordine”. Si trattava di testi sia autobiografici che letterari, racconti. Agota avrebbe voluto consegnare il tutto nelle mani dell’editore Zoé, ma il suo editore francese, Seuil, ha rivendicato per contratto i racconti: “Sono terribili, non ti piaceranno affatto”, ha cercato di spiegare a Bertrand Visage di Seuil la Kristof. “Ma invece gli sono piaciuti. E’ stato sgradevole riprenderli in mano. Fosse stato per me, non li avrei mai proposti a nessuno”. Così, nel 2004, a poco meno di dieci anni di distanza dall’uscita del suo ultimo romanzo, “Ieri”, la Kristof ha revisionato gli scritti per “L’analfabeta”, una raccolta di brevi testi autobiografici composti tra il 1989 e il 1990 per una rivista culturale di Zurigo, Du: “Una volta al mese, mi toccava scrivere due cartelle e mezzo in francese, che poi venivano tradotte in tedesco. Mi pagavano molto bene e mi sono detta che sarebbe stato uno scherzo onorare l’impegno. In realtà quei paginoni, le scadenze obbligate, mi davano il tormento. Erano una perdita di tempo e di concentrazione per la scrittura dei romanzi”.

Più o meno nello stesso periodo dell’anno scorso ha rimesso mano anche ai racconti per Seuil, che in Francia sono usciti a gennaio, con il titolo “C’est égal”. Si tratta di venticinque brevi racconti, alcuni di nemmeno due paginette, anteriori persino ai romanzi e alle pièce teatrali. La Kristof racconta che si tratta di esercizi di stile, saggi di realismo e di surrealtà, diversi tra loro per stile e lunghezza: “Ci sono molti testi che avevo già scritto in una prima versione ungherese. E poi quando ho iniziato a scrivere in francese li ho tradotti. Alcuni erano poesie in origine. Allora non ero capace di farli diventare poesie francesi e allora li ho trasformati in racconti: ‘Non mangio più’, ‘La scure’, ‘Casa mia’, ad esempio”. E’ vero: in alcuni di questi racconti sembra ci sia persino un metro, se li si legge in francese. Alla fine sono rimasti poesie, quelle che Agota scriveva in fabbrica, appena arrivata a Neuchâtel. Perché lei dice che la fabbrica, per scrivere poesie, va benissimo: “Si può pensare ad altro, e le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi”. In uno dei racconti, “Il canale”, compare già il puma che si ritrova in un romanzo successivo, “La terza menzogna”. Mi piacerebbe sapere se ha significato simbolico. In un romanzo di Anna Maria Ortese, “’Alonso e i visionari”, c’è un puma, che rappresenta Cristo, il sacrificio: “Ma no. E’ solo un incubo. Ho spesso incubi con animali. E il puma ogni tanto ritorna. Non c’è niente di simbolico. E nemmeno negli altri racconti. Sono solo visioni”. I venticinque racconti risalgono alla prima metà degli anni Sessanta, quando, grazie a una borsa di studio, frequentava i corsi estivi per stranieri all’Università di Neuchâtel, dove si è stabilita con la famiglia dal 1957. Al professore di allora, che le chiedeva perché si fosse iscritta ai corsi per principianti, dato che parlava già bene il francese, risponde: “Perché non so né leggere né scrivere. Sono analfabeta”.

Il rapporto di Agota Kristof con la lingua è stato davvero, sempre, una sfida, la sfida di un’analfabeta, come si definisce lei. La lingua è un’ossessione, più dei sensi che dei sentimenti, affrontata usando come arma, irrinunciabile ancora oggi, i dizionari. La lingua perduta, l’ungherese, è il simbolo, ammesso che una donna così concreta ci conceda di parlare di simboli, del vero esilio. Nata nel 1935 a Csikvand, un paesino privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono, con una sola strada, nessun marciapiede, fango dappertutto e immensi campi di mais e grano tutto attorno, impara a leggere a quattro anni. Suo padre è l’unico maestro del paese e insegna a tutte le classi. Ogni tanto lei va a trovarlo e si siede in fondo all’aula, con un libro in mano: “Ed è così che, ancora in tenera età, senza accorgermene e assolutamente per caso, vengo colpita dall’inguaribile malattia della lettura”, scrive nell’“Analfabeta”. In famiglia, però, solo il nonno è orgoglioso di una nipotina che legge veloce e senza errori. Altrimenti, quella “malattia” le provoca spesso rimproveri e disprezzo: è pigra, continua a leggere, legge invece di: “Invece di cosa?”.

Quando Agota ha nove anni, la famiglia si trasferisce a Köszeg, la “Piccola Città” descritta nella “Trilogia della città di K”, il nome sotto il quale in Italia Einaudi ha raccolto i suoi primi tre romanzi: “Il grande quaderno”, “La prova”, “La terza menzogna”. Si trattava di una città di frontiera in cui almeno un quarto della popolazione parlava la lingua tedesca, anzi un dialetto della lingua tedesca. Per gli ungheresi si trattava di una lingua nemica, ma anche Agota scopre per la prima volta quanto sono grande l’ostilità e l’estraneità, anche se a volte immaginaria, espresse da una lingua che non è la propria e che tuttavia si è costretti ad apprendere.
La lacerazione ha inizio, è da qui che parte la sfida dell’analfabeta. Per Agota scoprire che esiste una lingua straniera è una trauma pari alla perdita di un genitore: “All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parola che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?”. E’ ancora piccola, eppure si sente spossessata, inerme. E’ da questo momento che per riappropriarsi in modo concreto, come solo sa fare, della lingua, inizia a scrivere: a dieci anni ha un’ortografia perfetta, sbriga i compiti in un quarto d’ora durante la ricreazione. La prima volta che consegna un tema al professore di letteratura ungherese ha paura. Il tema è corto, troppo corto. Ma il professore apprezza. “E’ così che dovete imparare a scrivere”, dice alla classe. “E’ breve, conciso, essenziale”. Non sapeva, il professore, quanti critici letterari e giornalisti l’avrebbero imitato in quel giudizio. Al ginnasio il secondo strappo: “Impariamo anche il russo. Nessuno conosce il russo. I professori di lingue straniere, tedesco, inglese, francese, si mettono a frequentare corsi intensivi di russo per qualche mese ma non si può dire che lo imparino veramente, e non hanno nessuna voglia di insegnarlo. Da parte loro, gli allievi non hanno nessuna voglia di impararlo. Ciò che si verifica è un sabotaggio intellettuale nazionale, una resistenza passiva naturale, non concordata, che si mette in moto da sé. Con la stessa mancanza d’entusiasmo vengono insegnate e imparate la geografia, la storia e la letteratura dell’Unione Sovietica. Dalle scuole viene fuori una generazione di ignoranti”.

A quattordici anni, per povertà
(“Gli anni Cinquanta: tranne qualche privilegiato, sono tutti poveri nel nostro paese. Certi sono persino più poveri degli altri”), Agota viene separata dai suoi amati fratelli, Attila e Jano, e dai genitori ed entra in un collegio “tra la caserma e il convento, tra l’orfanotrofio e il riformatorio”. La posta viene distribuita già aperta e alle sette e mezzo del mattino ci si avvia verso la scuola intonando canti rivoluzionari. I libri accessibili sono quelli di “lettura obbligatoria”. Agota incomincia un diario, in una scrittura segreta, per raccontare tutto quello che la fa piangere: “Piango soprattutto la mia perduta libertà. E piango anche la mia infanzia.” La sapienza narrativa dei ricordi contenuti nell’ “Analfabeta” sfiora in alcuni tratti la “gioia macabra” della “Trilogia”. Uno di questi passi è quello in cui si racconta la reazione suscitata dalla morte di Stalin tra le ragazze del collegio. Siamo nel marzo 1953, Stalin è morto la sera precedente. Le ragazze chiedono se ci sarà lezione. Gli viene risposto che sì, ma che andranno a scuola senza cantare. La giovanissima Agota ha sempre in tasca la foto a colori del dittatore: “L’indottrinamento era grande, e particolarmente efficace sulle giovani menti”. Alle ragazze viene chiesto di comporre un tema intitolato “La morte di Stalin”: “In questo tema scriverete tutto ciò che il compagno Stalin è stato per voi. Dapprima un padre e poi un faro luminoso”. Ma quando alle undici si attende il segnale dalla sirena della città per alzarsi e osservare un minuto di silenzio, suona invece un’altra campana: quella per il ritiro della pattumiera. E l’intera classe scoppia a ridere.

“Le direi volentieri che ricordi ho della rivoluzione, ma credo che nel libro ci sia scritto tutto. Eravamo nel caos totale, c’era la guerra civile, l’atmosfera era penosa, tutti volevamo scappare. Ma in realtà non ci furono veri cambiamenti. Si era instaurato il terrore. Quando sono arrivati altri paesi, la Germania e così via, allora sì che c’è stato un cambiamento. I russi non erano più al potere, è iniziata la democrazia, è arrivata la libertà in tutto il paese: quello era il vero cambiamento: economico, politico e anche culturale. Tutto è migliorato. Se fossi rimasta, sarei stata più libera. E forse più felice. Ho pensato più volte di tornare, ma avevo i figli, qui. I miei figli sono svizzeri, completamente. Non volevo partire da sola”. Anche nel ricordare la dittatura, il rimpianto di Agota è per la lingua perduta, e per la cultura: “Ciò che non si potrà mai quantificare è il ruolo nefasto che la dittatura ha avuto su arte e letteratura dell’Est”. Non ricorda che alcuno scrittore russo dissidente ne abbia mai parlato. Non ricorda che alcuno scrittore dissidente russo si sia chiesto che effetto abbia avuto sulla cultura di quei “piccoli paesi senza importanza” l’indottrinamento russo: “Loro almeno subivano un tiranno che parlava la loro stessa lingua”.

A ventun anni, sposata da due e con una bambina di quattro mesi, attraversa il confine tra l’Ungheria e l’Austria in una sera di novembre, con l’aiuto di un passatore di nome Joseph, suo amico d’infanzia, suo primo amore. Il marito di Agota porta la bambina. Lei, due pesanti borse: biberon, pannolini, vestiti di ricambio, in una. Nell’altra, dizionari. Lascia in Ungheria il diario dalla scrittura segreta e anche le sue prime poesie. Lascia i fratelli, i genitori senza avvisarli. Ma soprattutto, quel giorno di fine novembre 1956, lascia la sua lingua, la sua “appartenenza”: “Adesso la cosa che mi manca di più dell’Ungheria – mi confessa – è la famiglia, gli amici. Spesso posso parlare ungherese, sento i miei fratelli al telefono, leggo in ungherese. Ma non potrei più scrivere in ungherese. Ricordo la mia lingua, ma non abbastanza per la letteratura”. E se una lingua non è per la letteratura, non è la sua lingua. Da quando ha traversato il confine, Agota ha lanciato la sua sfida al francese e non ha mai smesso. Parla francese da cinquant’anni, lo scrive da quarant’anni, ma ancora non lo sente completamente suo. “L’ungherese è una lingua fonetica, il francese è l’esatto contrario”: lo scrive con un dizionario e lo parla ancora con errori. Per lei la lingua francese è ancora una lingua nemica. In più, questa lingua ha ucciso in parte la sua lingua materna.

Dal piccolo villaggio austriaco oltrecortina a Vienna, dal centro profughi di Vienna a Losanna, in una caserma: cioccolata, arance, sigarette, soldi lanciati ai profughi attraverso la recinzione. Poi a Zurigo, alloggiati in una scuola forestale. Finché in modo del tutto casuale, Agota e la sua famiglia arrivano a Neuchâtel, esattamente a Valangin. Il marito riprende ad insegnare storia, lei lavora in una fabbrica di orologi, a Fontainemelon. Si alza alle cinque, porta la bambina al nido, ritorna alle cinque della sera, fa la spesa, cucina, scrive un po’, poi va a letto: è la vita che descrive in “Ieri”, il suo romanzo più autobiografico, dove narra anche il suicidio dei quattro compagni arrivati in Svizzera con lei dall’Ungheria e che non hanno resistito all’esilio. E’ il romanzo che Silvio Soldini ha fatto diventare un film applaudito da pubblico e critica a Berlino nel 2002, “Brucio nel vento”. Un film che Agota non ha mandato giù, invece: “Ci ha messo l’happy end. Non ha voluto ascoltarmi. Non è con i finali ottimisti che si risolvono le cose”. In generale comunque, non le piace chi mette le mani sui suoi scritti, ama poco anche la gran parte dei suoi traduttori: “Tradiscono lo spirito, e la lingua. Rimettono tutto in ordine, tutto normale, ripuliscono quello che scrivo, come se non facesse differenza”.

Quando arriva in Svizzera, ha poche speranze di diventare una scrittrice. Pubblica qualche poesia in una rivista ungherese e dopo lunghi anni, due pièce di teatro in lingua francese ma non sa che farne, dove spedirle, a chi. Scrive pièce perché è più facile e i dialoghi somigliano a quelli che sente tutti i giorni, nessuna descrizione, solo un nome da mettere davanti ai personaggi. La prima pièce recitata per diversi mesi, dal titolo “John e Joe”, viene allestita in un’osteria, al Café du Marché di Neuchâtel dove si esibiscono cabarettisti il venerdì e il sabato dopo cena. Due anni dopo un’altra va in scena al Théâtre de la Tarentule a Saint-Aubin, con attori dilettanti. E intanto decine di suoi manoscritti ingialliscono sugli scaffali. Finché qualcuno le consiglia di mandarli alla radio. Vuol dire attori professionisti e diritti d’autore: tra il 1978 e il 1983 la Radio della Svizzera romanda manda in onda cinque pièce. Nel 1985 è pronto il romanzo: un grande quaderno scritto a mano, che contiene una storia coerente, con un inizio e una fine. All’inizio doveva essere un romanzo autobiografico. Ma piano piano si è trasformato nella storia di due gemelli in mezzo alla guerra, obbligati a essere duri per sopravvivere. A chi darlo? Un amico le rivela “Bisogna partire dai tre grandi a Parigi”: Gallimard, Grasset, Seuil. Agota fa tre copie del quaderno e scrive tre lettere identiche: è sicura che qualcuno lo pubblicherà. Dopo due rifiuti, un giorno di novembre le telefona Gilles Carpentier delle edizioni Seuil. Le dice che da anni non leggeva niente di così bello. Prepara il contratto.

Si lascia un po’ andare, finalmente,
dopo mezz’ora di conversazione: “Forse oggi mi piacerebbe scrivere romanzi gialli, “policier”. Ma non conosco abbastanza il funzionamento dei tribunali, della polizia. Mio fratello, che vive a Budapest e fa anche lui lo scrittore (il minore, Attila, ndr) scrive gialli. Ne ha scritto uno sul terrorismo, ambientato nel 2015. L’ho letto due volte”. ”. D’altra parte a Neuchâtel ha vissuto anche Dürrenmatt.
Mi dice che tutto sommato pensa di non aver sofferto granché, di non aver avuto una vita triste. Dice che la parte peggiore sono stati i mariti. Si è sposata due volte e una è stata peggio dell’altra. Ha orrore del matrimonio e riesce a considerare gli uomini solo se non sono “mariti”. Dice che innamorarsi non vale la pena, che è banale, che l’unica cosa per cui non si pente di aver vissuto storie “da donnette” e di essersi sposata sono i figli. Adesso una è attrice di teatro, uno musicista, ma ex-libraio, così ogni volta che le viene voglia di leggere un libro lui glielo procura tra le centinaia che conserva in cantina. Dice che non scriverebbe mai storie d’amore, che è uno dei motivi per cui non ama le scrittrici donne, a parte Magda Szabó, perché le donne di solito scrivono d’amore. O di matrimonio, divorzio, sentimenti. Banale, ripete. Tira fuori di nuovo quell’indole pragmatica, asciutta, difensiva di chi crede che alla mattina appena svegli bisogna alzarsi subito, altrimenti arrivano i cattivi pensieri se si sta troppo nel letto. Le chiedo che cosa l’appassiona, allora, che cosa l’infiamma, adesso, che cosa la rappresenta davvero. “Ascolti, il titolo francese per la raccolta di racconti l’ho scelto io. E’ il nome di uno dei racconti, si chiama ‘C’est égal’, ‘Fa lo stesso’. Ecco, quello mi rappresenta. E’ la mia natura. Io sono così. Per tutta la mia vita è stato così. Non è l’età che mi ha portato a questo punto. E’ stato sempre così, anche per l’amore. E lo diventa sempre di più. Anche per la scrittura, per la letteratura. Per me fa tutto lo stesso”.

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