Guai ai vinti - 2

D'Alema, gran tessitore di trame soffocato dalla sua troppa intelligenza

Salvatore Merlo

La sua sconfitta è nella faccia pulita di Pisapia, nell'orecchino di Vendola, nei capelli unti di De Magistris, nel labbro sporgente di Renzi, nei complotti falliti, nelle primarie perdute, nel dito medio di Bossi che scatta alla parola “ribaltone”. Molti lo pensano, nessuno glielo dice, figurarsi se lui lo immagina, eppure Massimo D'Alema è un vinto. Le ha perse tutte, D'Alema.

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    La sua sconfitta è nella faccia pulita di Pisapia, nell'orecchino di Vendola, nei capelli unti di De Magistris, nel labbro sporgente di Renzi, nei complotti falliti, nelle primarie perdute, nel dito medio di Bossi che scatta alla parola “ribaltone”. Molti lo pensano, nessuno glielo dice, figurarsi se lui lo immagina, eppure Massimo D'Alema è un vinto. Le ha perse tutte, D'Alema. Non ha azzeccato nessuna previsione, nessuno schema valido in teoria ha resistito allo scontro con la realtà: le elezioni di Napoli le ha vinte l'ex pm (“Morcone è l'unica novità”, diceva lui) e quelle di Milano le ha vinte l'avvocato radical-borghese. “Pisapia è un eroe della società civile”, gli dicevano, e da sotto i baffi spuntava la nota spavalderia: “Non parlatemi della società civile sennò metto mano alla pistola”. Neanche le trame per abbattere il Cav. da dentro il Palazzo hanno funzionato, eppure la natura ha posto tutte le condizioni: le inchieste giudiziarie, il bunga bunga, l'addio rancoroso di Fini, la disponibilità di Casini, e poi le amministrative e i referendum. Il Cavaliere teme di non essere più maggioranza nel paese, ma nel Palazzo, terreno dalemiano, il premier ha la maggioranza assoluta. Dunque più che intercettare umori politici D'Alema è finito nelle intercettazioni: unico del Pd nel caso Bisignani. Sempre sconfitto, non ha mai smesso di pensare al Quirinale, dove era “quasi” arrivato dopo essere “quasi” riuscito a diventare presidente della Camera. Altro schema frustrato, perché D'Alema è tutto un “quasi”: quasi spaccone, quasi antipatico, quasi leader.

    Così ora guarda al Quirinale
    come a un risarcimento e corteggia i Rutelli e i Casini, gli stessi che nel 2006 lo bloccarono sulla soglia quirinalizia e sulla scaletta dell'aereo che segretamente doveva portarlo ad Arcore per l'incontro decisivo. Lo confermarono incompiuto; lui che non saluta, che distoglie lo sguardo, e che dunque – sconfitto anche dal suo carattere – potrebbe finire con il perdersi qualcuno per strada, forse il suo partito, quello che guida Bersani senza chiedergli più il permesso e che al Quirinale già gli preferisce Romano Prodi.

    Negli anni della svolta, mentre si archiviava il Pci, D'Alema si fece fare il test per misurare il quoziente intellettivo: sopra la media. Quella troppa intelligenza che lo ha trasformato in un perdente di successo, forte nella trama di Palazzo e meno nelle urne, che lo ha intrappolato portandolo a credere – ancora oggi – che Bossi mollerebbe Berlusconi in cambio di una riforma elettorale, che Tremonti ha bisogno di lui per soddisfare le proprie ambizioni (chissà poi perché), che la sinistra deve guardare al centro, che è meglio guidare nell'ombra che lanciarsi in avanti con coraggio. Il suo è un surplus d'intelligenza che ne danneggia l'intelligenza. E bisognerebbe proprio chiedere cosa ne pensano delle architetture evanescenti di D'Alema quei militanti padani che a Pontida, non certo sobri, nella notte di una settimana fa bruciavano la bandiera del Pd; qualora non fossero definitive le parole di Bossi: “Non vogliamo le elezioni perché il vento tira a sinistra”.

    D'Alema è stato il carnefice di Romano Prodi (che da candidato al Quirinale ora appare più spendibile di lui), ha accompagnato il tramonto antiberlusconiano di Gianfranco Fini, e ci sarà un motivo – a questo punto scaramantico – se Pier Ferdinando Casini si tiene lontano, a distanza di sicurezza, sospeso al centro, da solo, tra Pdl e Pd. Eppure è un vinto inconsapevole D'Alema; ha una parola di fiele per tutti. Pochi giorni fa ha sistemato Angelino Alfano, neo segretario politico del Pdl (“il delfino di un pescecane rischia grosso”). Poi è toccato, sul Post, anche a Luca Cordero di Montezemolo: “L'espressione ‘scendere in campo' mi ricorda solo due immagini: una negativa, Berlusconi, e l'altra positiva, Benigni: ovvero il padre che ‘scendeva in campo' perché in casa non avevano la toilette”. Guarire da se stessi è la cosa più difficile.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.