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La demonizzazione di DSK e la chiusura della mente americana

Giorgio Israel

Condivido le critiche della sfibrata ipocrisia morale europea, ma non serve Bertrand Russell per capire l’illogicità della dichiarazione del sindaco di New York Bloomberg: “Penso che sia umiliante, ma se non vuoi fare il perp walk non commettere delitti”. Quindi, per lui è già appurato che DSK è colpevole, in barba alla presunzione d’innocenza. E’ interessante cercare di capire cosa rivelano queste contraddizioni, la furia con cui i tabloid sparano sul francese “porco”, la gente con i cartelli “DSK non nel mio cortile”.

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Condivido le critiche della sfibrata ipocrisia morale europea, ma non serve Bertrand Russell per capire l’illogicità della dichiarazione del sindaco di New York Bloomberg: “Penso che sia umiliante, ma se non vuoi fare il perp walk non commettere delitti”. Quindi, per lui è già appurato che DSK è colpevole, in barba alla presunzione d’innocenza. E’ interessante cercare di capire cosa rivelano queste contraddizioni, la furia con cui i tabloid sparano sul francese “porco”, la gente con i cartelli “DSK non nel mio cortile”, l’ostentata convinzione che nessun delitto presunto merita la gogna come quello sessuale.

DSK è ormai l’incarnazione del protagonista de “Il teatro di Sabbath” di Philip Roth: una sessualità talmente intrisa di puzzolente materialità da rendere nauseante la sessualità come tale. Un modo di vedere che sarebbe aberrante attribuire a ogni americano – alla larga dall’idea dell’americano (italiano, francese, ecc.) “tipico” – oppure ricondurre al puritanesimo americano visto come una categoria invariante nella storia. Il puritanesimo di altri tempi o quello di John Wayne – che, per porre su solide basi un rapporto, sculacciava la futura moglie – sono un altro mondo rispetto al politicamente corretto dell’intellettualità americana di oggi, che impera nelle università, nella cultura e nelle classi dirigenti liberal e percola in parte dell’opinione pubblica.

Del resto, non è certamente un caso che oggi gli Stati Uniti abbiano come presidente un incrocio tra un predicatore millenarista e un pragmatico che vivacchia ora per ora. In fin dei conti, era pensabile nell’America anni Cinquanta e Sessanta – quando un grande cinema narrava con poesia relazioni molto materiali e molto sentimentali – un personaggio come Donna Haraway? Ovvero un’ascoltatissima signora che predica da anni la sostituzione, a dosi massicce di manipolazione genetica e di informatica, del nostro mondo con un mondo cyborg, un mondo del tutto liberato dalla naturalità, e quindi in primo luogo dal sesso, dalla lurida infezione di carnalità che deriva dalle strutture binarie dell’essenzialismo razzista dell’occidente. E’ un moralismo che apprezza i rapporti disincarnati nel social network, tanto poi i figli li fai in provetta, e l’esibizione della nudità come manifestazione di libertà, purché nessuno si tocchi. Non è certo un caso isolato. Parliamo di un prototipo dei tanti guru del postmodernismo americano e del femminismo radicale che domina incontrastato nel mondo intellettuale e in parte dei ceti dirigenti.

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Chi parla delle università americane come se fossero le stesse grandi istituzioni che mezzo secolo fa coltivavano la cultura classica europea – da Dante a Shakespeare, da Platone a Kant – non sa quel che dice. Tutto questo è stato prima distrutto al grido di slogan del tipo “From Plato to Nato”. E poi fatto definitivamente a pezzi – per somma ironia – dalla colonizzazione da parte degli odiati mangiatori di rane, gli intellettuali francesi come Foucault e Derrida, dal cui magistero è nata negli Stati Uniti una sterminata letteratura postmoderna, cui è comunque largamente preferibile l’originale. Almeno, quest’ultimo non teorizzava la necessità di distruggere il sesso e di rifare scientificamente l’uomo in un modo perfetto, libero dalle sporche imperfezioni della natura. D’altra parte, per misurare l’entità del cambiamento, basta leggere quanto scriveva Edward Said nel suo “Umanesimo e critica democratica”, vantandosi di aver contribuito a fare a pezzi l’efferata tradizione classica della cultura americana; e come, all’opposto, Allan Bloom lamentava questa distruzione ne “La chiusura della mente americana”. Ormai impera un moralismo politicamente corretto che con i puritanesimi di un tempo ha poco in comune. E tutto si tiene. Siamo passati dalle nuvole di fumo di un tempo alla suprema ipocrisia di vietare il fumo quasi persino in casa propria; o di proporre il divieto di mangiare le povere patate, colpevoli di attentare alla linea di stuoli di bambini obesi per l’ingestione compulsiva degli asettici intrugli che invadono indisturbati i supermercati americani. Dal liberalismo alla Stuart Mill si è passati a un soffocante costruttivismo sociale.

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Certo, l’America non si riduce a questo, per fortuna. Ma, di certo, è qualcosa che pesa assai e che si manifesta, in questi giorni, con isterismi tanto incontinenti da mandare in malora il tanto vantato principio della presunzione d’innocenza. Naturalmente, il capitolo critico riguardante l’Europa non conduce a riflessioni meno impietose. Ma allora è più appropriato parlare di sfacelo morale e intellettuale dell’occidente, nella sua multiforme fenomenologia.

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