Arcangeli e Debiti
Secondo il sac. prof. don Luigi Maria Verzé, la statua dell’arcangelo Raffaele posata nel 2008 sulla cupola del suo ospedale milanese doveva assolutamente essere più alta della Madonnina del Duomo almeno di un centimetro. La stessa cupola, quella del nuovo dipartimento di Medicina molecolare del san Raffaele, da cui già pendeva una gigantesca doppia elica che rappresenta il dna, appena sopra la riproduzione della barca di San Pietro.
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Secondo indiscrezioni finanziarie apparse la settimana scorsa sulla stampa, la fondazione sarebbe indebitata per 900 milioni. La cifra non è confermata e per averne la certezza bisognerà attendere il piano di rientro, annunciato il 23 marzo scorso e previsto per fine mese, che potrebbe prevedere la costituzione di una società per azioni e la messa sul mercato del 49 per cento della società per consentire l’ingresso di nuovi capitali. Il salvataggio, che probabilmente partirà da un prestito ponte di Intesa Sanpaolo, Unicredit e Banca popolare di Milano, inizierebbe con la vendita di tutte le attività non legate al core business del gruppo: la sanità, la ricerca e l’università.
Il San Raffaele è una macchina da guerra di ispirazione divina (“Il nostro primo azionista è Cristo”, ha detto il fondatore presentando i quattro nuovi padiglioni dell’ospedale di Segrate). Il suo istituto di ricovero e cura a carattere scientifico è un’eccellenza al primo posto in Italia e fra le migliori in Europa, una vedetta della ricerca, una struttura sanitaria privata accreditata che accoglie migliaia di pazienti ogni anno. In più gode di una rete di contatti e lobbying notevole e di un sostegno politico ad altissimi livelli. Fra i suoi primi estimatori ci sono il premier Silvio Berlusconi, paziente ammirato e amico, e il ministro della Salute Ferruccio Fazio, ex primario di Medicina nucleare e radioterapia dell’istituto. E ora anche il governatore della Puglia, Nichi Vendola (che, secondo don Verzé, come Berlusconi possiede “un fondo di santità”), appassionato sostenitore del nuovo progetto di replicare la struttura milanese a Taranto.
Ma come si spiega allora un buco economico del genere? Dirlo con esattezza è difficile, perché risalire ai singoli dati finanziari dei diversi pezzi della struttura (per precisa volontà di chi l’ha disegnata) è pressoché impossibile. Il San Raffaele è una galassia complessa. Va dagli ospedali (in Lombardia, Veneto, Puglia e Sicilia; ma anche in India e in Brasile, a San Salvador de Bahia, con una delle migliori cliniche del paese) all’Università Vita-Salute San Raffaele (che fra i suoi docenti ha il filosofo Massimo Cacciari e il genetista Edoardo Boncinelli), dalle società di servizi e di edilizia alle biotecnologie (con le partecipazioni, attraverso la holding Finraf, in Molmed), dai laboratori di ricerca alle aziende agricole, dagli alberghi di lusso a una casa editrice.
Questo impero, passato nei decenni attraverso varie e anche burrascose “crisi di crescita”, è pesantemente in crisi da almeno tre anni, con un buco di bilancio in continuo aumento: nel 2008 il debito era pari a 689 milioni di euro e nel 2009 è salito a 763 milioni. E ora, con il fondatore che ha passato la soglia dei novant’anni e i creditori in allarme (quelli piccoli, soprattutto, che non vedono soldi da mesi e hanno scoperto la gravità della situazione dai giornali) corre il rischio di perdere la fiducia delle banche. Che finora hanno accettato di garantirgli copertura finanziaria perché “la pietra di Dio”, come la chiama il suo fondatore, rappresentava ai loro occhi un soggetto solido, ma che iniziano a preoccuparsi per gli investimenti esorbitanti, perché il tempo passa anche per don Verzé e all’orizzonte non si vede nessun possibile successore né un abbozzo di scenario futuro dopo di lui che possa risultare rassicurante.
Forse, dicono gli esperti, la ragione dei problemi finanziari del San Raffaele sta esattamente nella volontà di grandeur del suo padre-padrone. Nel suo rilanciare continuamente, nell’alzare l’asticella di ogni sfida, nel desiderare ciò che agli altri sembra inimmaginabile. Il che in pratica si traduce in nuove grandiose strutture e progetti fantasmagorici che, per essere ripagati e addirittura produrre profitto, avranno bisogno di tempi troppo lunghi per qualsiasi investitore. Perché il punto dolente non sono i mille ettari di piantagioni di mango – che pure sono poco redditizie e saranno vendute –, né il jet privato – costoso sì, ma usato anche per il trasporto degli organi e spesso dato a noleggio. Il punto è la liquidità. “Il disavanzo in questo caso non è strutturale – ci spiega Francesco Longo, docente di Economia e direttore del Cergas, il Centro di Ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’Università Bocconi – perché il valore dell’attività è in sostanziale equilibrio”. In pratica la galassia del San Raffaele vale quanto il debito che l’ha prodotta, forse anche di più. Il problema, spiega Longo, “è l’espansione senza liquidità”.
Don Verzé è partito senza un capitale, ha prodotto un impero che di per sé funziona ma ha deciso di investire in operazioni sempre più faraoniche e rischiose. Come il centro di Olbia, costato per ora oltre 150 milioni e soltanto da pochissimo accreditato dalla Regione per le prestazioni sanitarie convenzionate. Poi il Dibit2, una gigantesca superficie di laboratori (pari al triplo dei 140 mila metri quadrati già esistenti nel centro principale, il Dibit1) inaugurata nel 2010 e costata una cifra di poco inferiore ai 200 milioni di euro, che attualmente è ancora vuota e ha costi esorbitanti per la sola manutenzione ordinaria. Con l’idea autarchica di provvedere in proprio al fabbisogno energetico della struttura milanese (e poi di rivendere le eccedenze) il San Raffaele si era dotato anche di una centrale elettrica, la Blu energy. Che invece di ridurre i costi della struttura ha contribuito a far passare le spese per l’approvvigionamento da dieci milioni l’anno a quasi quaranta.
Verzé, raccontano, non è mai stato capace di tenersi in tasca i soldi. Fin dal primo finanziamento ottenuto, ha sempre reinvestito tutto quello che aveva in mano per costruire qualcosa di più grande, di più lontano, di più importante. Per questo il suo grande amore (e il suo fiore all’occhiello) è la ricerca. Nel tentativo di sconfiggere il Male (e la morte, se possibile) ha puntato a sfide sempre più alte, come debellare il cancro della terra, e sempre più costose. Una parte è finanziata dal pubblico (attraverso bandi governativi ed europei), parte dai privati (le farmaceutiche che sviluppano nei suoi laboratori linee di ricerca specifiche) e parte delle donazioni. Il cui utilizzo, esattamente come accade per il 5 per mille (di cui il San Raffaele è fra i primi beneficiari, con più di nove milioni e mezzo di euro per il 2009), è finalizzato a progetti specifici e non può coprire le spese di altre attività o investimenti. I soldi per la ricerca certo non bastano mai, ma i 60 milioni a essa destinati, pari al 10 per cento delle attività totali, non sono la causa dei guai finanziari della holding. Soprattutto perché se da un lato i risultati permettono, anche a lungo termine, di ripagare gli investimenti, dall’altro don Verzé è un fundraiser eccezionale.
A poter causare qualche problema potrebbe essere piuttosto la diversificazione sanitaria, intesa come la scelta di offrire visite, interventi ed esami diagnostici relativi alle specializzazioni più disparate. “In sanità questo non funziona – spiega lo statistico Roberto Volpi, autore di “L’amara medicina. Come la sanità italiana ha sbagliato strada” – perché non esistono vasi comunicanti. L’impegno a 360 gradi non permette l’economia di scala”. Ovvero spaziare dall’oncologia alla lungodegenza, passando per la cardiologia e la psicologia, non consente sinergie (gli ospedali non sono come le altre aziende, ogni ambito richiede macchinari e competenze altamente specializzate e non intercambiabili). In più, in questo modo, ammortizzare diventa difficile, perché alcune risorse molto costose hanno un bassissimo tasso di utilizzo (ed è per questo che solitamente sono le grandi strutture pubbliche le uniche attrezzate per emergenze complesse, come le operazioni chirurgiche su più fronti e con alti margini di rischio di complicazioni).
“Per questo i privati riescono a fare utile soltanto quando si specializzano”, dice Volpi, mentre il San Raffaele negli anni si è preoccupato di coprire qualunque possibile patologia, persino quelle che potrebbero svilupparsi in futuro. Secondo Longo invece questo “in realtà è un punto di merito, perché il San Raffaele non si occupa soltanto di attività sanitaria remunerativa” e “sull’attività clinica non ha un grande margine ma nemmeno un disavanzo”. In pratica ha scelto di offrire ai suoi pazienti anche prestazioni poco redditizie dal punto di vista strategico e dall’assistenza sanitaria non guadagna più di cinque milioni l’anno, ma non va in perdita. Le attività cliniche però (e nemmeno i circa 340 milioni l’anno che la regione Lombardia versa all’ospedale per le prestazioni sanitarie) non sono sufficienti a coprire i debiti con i fornitori, che (tutti insieme) a fine 2009 vantavano crediti per oltre 438 milioni di euro.
L’impero del San Raffaele è difficile da gestire, e don Verzé è completamente solo al comando. Da lui passano i bilanci, la gestione ordinaria, i progetti. Nel suo governo non esistono dirigenti di prima linea. Quattro anni fa il fondatore chiamò alla direzione generale Renato Botti, ex direttore generale della sanità lombarda fra il primo e il secondo mandato di Roberto Formigoni alla guida della regione, che prese in mano la situazione e riuscì a sistemare i conti. Ma lentamente si vide sfilare la gestione dei settori chiave, dall’amministrazione al personale, fino a perdere lo stesso posto di direttore. Ora al fianco di don Verzé resta soltanto Mario Cal, vicepresidente della Fondazione e fedelissimo braccio destro del sacerdote, ma non è certo a lui che spetta l’ultima parola sulla gestione delle attività. Il plenipotenziario fondatore è convintissimo di superare quota 120 anni, ma sente che il tempo sta passando anche per lui. Per questo negli ultimi anni la sua volontà di espansione, dai contorni megalomani, ha subito un’accelerata improvvisa. Da lì i padiglioni ancora più grandi, le statue, le ricerche sul genoma, fecondazione assistita: perché qualcosa di grandioso resti.
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