Caccia grossa in Africa
Se pensate che ieri la democrazia sia arrivata in Costa d’Avorio su un cavallo bianco, dovreste ricredervi. La democrazia in questo caso ha piuttosto gli occhi furbi di Alassane Ouattara, ex funzionario del Fondo monetario internazionale, islamico felpato, un avanzo africano di Jacques Chirac, poi sposato alla bionda e bianca Dominique dall’allora sindaco di Neuilly sur Seine, un certo Nicolas Sarkozy – che celebrò anche le prime nozze della futura e rimpiantissima moglie Cécilia, e forse sarebbe stato meglio si fosse dedicato più alle fognature che agli sposalizi.
Se pensate che ieri la democrazia sia arrivata in Costa d’Avorio su un cavallo bianco, dovreste ricredervi. La democrazia in questo caso ha piuttosto gli occhi furbi di Alassane Ouattara, ex funzionario del Fondo monetario internazionale, islamico felpato, un avanzo africano di Jacques Chirac, poi sposato alla bionda e bianca Dominique dall’allora sindaco di Neuilly sur Seine, un certo Nicolas Sarkozy – che celebrò anche le prime nozze della futura e rimpiantissima moglie Cécilia, e forse sarebbe stato meglio si fosse dedicato più alle fognature che agli sposalizi. Monsieur Alassane da dieci anni, compreso un golpe fallito organizzato dagli amici francesi, cerca di soffiare il posto di presidente ivoriano a Laurent Gbagbo: ieri ci è infine riuscito.
Può essere che Ouattara e i suoi democratici portatori di kalashnikov appoggiati dagli elicotteri di Francia fossero nel giusto e abbiano appena detronizzato l’ennesimo tiranno africano. Ma la procedura elettorale ha fatto un po’ acqua. E’ andata così. La Commissione che doveva sorvegliare il buon andamento del voto uninominale a doppio turno (alla francese, naturellement) contro brogli e intimidazioni, piena di amici di Ouattara e spalleggiata dalle Nazioni Unite, ha dichiarato che il 28 novembre scorso Gbagbo ha preso meno voti e ha perso. La Corte costituzionale – che nella disputa ha preso il ruolo che ebbe la Corte Suprema americana nella contesa Bush contro Gore nel 2000 – zeppa di amici del presidente, ha detto che in molte zone filo Ouattara ci sono state violenze e intimidazioni, ha squalificato quei voti e ha proclamato, come soltanto lei ha diritto di fare secondo la legge della Costa d’Avorio, la vittoria di Gbagbo.
Non era il risultato atteso. A questo punto s’è messa in moto la fangosa procedura dei sinceri amici della democrazia africana (gli stessi che in Gabon hanno salutato l’elezione di Ali Bongo, diventato presidente dopo i quarantadue anni di presidenza del padre Omar Bongo: Sarkozy lo fece durante una visita nel febbraio 2010). Alassane Ouattara ha giurato da presidente in una cerimonia parallela che ha seguito soltanto di poche ore la cerimonia di giuramento di Gbagbo. Poi ha proclamato due scioperi generali contro l’usurpatore, che però nessuno nel paese si è filato. Quindi ha colpito duro, annunciando il blocco delle esportazioni di fave di cacao, rinomata e grande ricchezza del paese (che da solo produce il 40 per cento del cacao nel mondo).
L’Unione europea ha prontamente aderito: embargo economico contro il despota al cioccolato, come nemmeno contro il programma atomico dell’Iran. Il controllo del territorio era formalmente ancora in mano a Gbagbo, ma le compagnie esportatrici hanno obbedito, presentendo come sarebbe andata a finire. E se poi il vincente avesse poi ritirato loro le licenze? E se gli stati europei o l’America li avessero colpiti con sanzioni , come se stessero contrabbandando uranio a Teheran? Conseguenze: bloccate nei magazzini ivoriani giacciono 500 mila tonnellate di fave di cacao e gli svizzeri della Lindt annunciano per il secondo semestre dell’anno un aumento dei prezzi dei prodotti.
Strozzate le esportazioni, Ouattara è riuscito a ottenere che la Banca centrale dell’Africa occidentale, l’impenetrabile e misterioso salvadanaio di otto stati, congelasse le linee di credito del presidente – ma non ha tenuto conto che il direttore della banca, Philippe-Henri Dacoury-Tabley, è un vecchio amico e collega di Gbagbo, e prima di farsi beccare e di esssere costretto alle dimissioni gli ha permesso di succhiare via 157 miliardi di franchi africani.
Visto che le misure e le rappresaglie economiche stentavano a ottenere l’effetto voluto, gli uomini di Ouattara che occupano le province del nord si sono messi in marcia verso il sud. Sebbene lui neghi ogni collegamento, sono gli stessi ribelli che nella guerra civile tra il 2002 e il 2004 lo appoggiarono. Allora erano le Forces Nouvelles, ora sono i Commandos invisibles. Per prima cosa la milizia ha preso i centri nevralgici del cacao, la citta di Dekuè, che dalle zone centrali affollate di piantagioni punta verso il porto di San Pedro. Qui qualcosa ha chiaramente deviato dal buon modello di ricorso democratico, perché secondo la Croce rossa dopo il loro arrivo le strade si sono riempite di cadaveri di civili, tra gli ottocento e i mille. Alcuni uccisi a colpi di machete, vecchia pratica di sterminio tribale resa famosa dal genocidio in Ruanda. Guillaume Ngefa, capo locale della missione Onu, la stessa Onu che due giorni fa ha sparato dagli elicotteri sul palazzo di Gbagbo, ha accusato del massacro le forze pro Ouattara (domenica 3 aprile: sembra un secolo fa, si dimentica in fretta), lui si è affrettato a prendere le distanze, “non ci sono prove”. Gli ivoriani non gli hanno dato retta: un’ondata da un milione di persone ha abbandonato le proprie case e in queste ore sta ancora fuggendo dal paese.
Doveva essere il tentativo di rimettere le cose a posto in Costa d’Avorio: i donatori internazionali avevano messo nelle mani dell’Organizzazione dell’Onu 400 milioni di dollari per avere un presidente ivoriano eletto finalmente secondo canoni democratici degni dell’occidente. Poteva essere un rigurgito di Françafrique da indicare dandosi di gomito, “francesi incorreggibili”. Invece sembra Der Untergang, il film sulla caduta di Hitler, alle fave di cacao. Il perdente assediato in un bunker sotto la sua casa assieme alla sua famiglia, e i suoi due generali fuori a negoziare la resa e l’esilio, dopo che i soldati francesi hanno distrutto l’accampamento militare dei suoi, un deposito di armi e la sede della televisione di stato.