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Allarme radioattivo in Giappone

Cresce la paura di contaminazione a Fukushima

Sandro Fusina

Una nube minacciosa oscurò il cielo nel secondo anno del secolo scorso. Comparve nel 1901. Era una immensa nube purpurea che senza dare tempo a ogni ulteriore progresso sulla strada della scienza e della società estinse l’umanità, tranne un individuo, tale Adam (ma guarda un po’!) Jefferson, che trovandosi al Polo nord la scampò, per togliersi poi la soddisfazione di mettere a fuoco alcune grandi città come Parigi e San Francisco (ancorché ormai deserte, orbate dalla nuvola di tutti i loro abitanti), e rassegnarsi infine a rintuzzare il cupio dissolvi.

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Torna a crescere il livello di radioattività in Giappone, dopo la parziale fusione delle barre di combustibile usato nel reattore numero due della centrale nucleare di Fukushima. Lo ha reso noto il portavoce del governo, Yukio Edano, precisando che vi è anche stata una perdita dell'acqua altamente radioattiva contaminata dalle barre (la Tepco ha spiegato di aver misurato livelli di radioattività nell'acqua trovata nella sala turbine dell'impianto centomila volte più alta della soglia considerata come norma). L'allarme ha coinvolto i bacini idrici in Giappone, nel timore concreto che possano essere inquinati da pioggia radioattiva. Il ministero della Sanità ha chiesto che gli impianti di purificazione idrica in tutto il paese interrompano la raccolta di acqua piovana e che i bacini vengano coperti con teloni. Nei giorni scorsi Tokyo e altre città avevano rilevato livelli di iodio radioattivo superiori alla norma, tanto che era stato proibito l'uso dell'acqua potabile per i neonati (ma la contaminazione era poi diminuita). Nel fine settimana il ministero della Salute ha avvertito che nuove piogge potrebbero catturare le particelle radioattive sfuggite dall'impianto di Fukushima e riversarle nei fiumi e nelle dighe che riforniscono le condutture di acqua potabile.

Una nube minacciosa oscurò il cielo nel secondo anno del secolo scorso. Comparve nel 1901. Era una immensa nube purpurea che senza dare tempo a ogni ulteriore progresso sulla strada della scienza e della società estinse l’umanità, tranne un individuo, tale Adam (ma guarda un po’!) Jefferson, che trovandosi al Polo nord la scampò, per togliersi poi la soddisfazione di mettere a fuoco alcune grandi città come Parigi e San Francisco (ancorché ormai deserte, orbate dalla nuvola di tutti i loro abitanti), e rassegnarsi infine a rintuzzare il cupio dissolvi, l’ambizione di mettere con la propria morte finalmente fine alle miserevoli vicende terrene dell’umanità stessa, per ricominciare tutta la storia con la collaborazione dell’unico altro essere sopravvissuto, guarda caso una donna e gradevole per giunta. Si legge il tutto in un romanzo che è il prototipo della letteratura catastrofista a venire, ovvero nella “Nube purpurea” di Matthew Phipps Shiel.

Ma il secolo breve così breve non fu, qualcosa più di due anni durò. Era ancora in corsa quando, nel 1906, un terremoto immane e i cento fuochi che ne seguirono distrussero la giovane città di San Francisco. I morti furono centinaia, le case abbattute decine di migliaia. Altri due anni e il terremoto si esibì in Italia in una spettacolare metafora del ponte, distruggendo imparzialmente, di qua e di là dallo Stretto, Reggio Calabria e Messina. Della guerra che scoppiò circa otto anni dopo non mette conto di parlare, essendo il groviglio di cause ed effetti del tutto umano, e quindi morti e distruzioni del tutto inscrivibili ai benefici della ragione e del progresso. Ragione e progresso davvero poco efficienti in materia di distruzione e morte, se in quattro anni di trincee, mitragliatrici, autoblindo, fili spinati, gas tossici e perfino precoci bombardamenti aerei non seppero totalizzare neppure i morti che la spagnola produsse in un solo anno. Si disse da parte di alcuni venti milioni, da parte di altri addirittura cinquanta milioni, senza contare gli indiani, innumerevoli e incalcolabili per definizione, esattamente come Billy the Kid che nel computo delle vittime della sua pistola a tamburo non si degnava di prendere in considerazione i messicani. Fu con gran sollievo che un vizioso spacciatore di cartoline poté scrivere sotto una goffa silhouette di un omino in paglietta che si godeva la sua sigaretta: “La prima cartolina che disegno dopo la spagnola”. C’era chi dalla spagnola usciva vivo, anche se dell’efficienza del contagio la guerra aveva talmente invidia che sono ancora numerosi i morti di spagnola, soprattutto se artisti e uomini famosi, che vengono intruppati d’ufficio tra i morti di guerra. Sembrerebbe che morire in guerra sia più dignitoso, meno laido che morire d’abietta malattia.

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Ma se la guerra fu ed è oggetto di un gran numero di libri, della spagnola, come di tutte le pandemie si è scritto poco, come se occuparsi delle grandi disgrazie naturali (naturali tra virgolette) non portasse buono. Per la spagnola va reso merito all’editore Mursia che, con il titolo sensazionalistico “La malattia che atterrì il mondo”, pubblicò nel 1980 un libro del 1974 di Richard Collier (“The Plague of the Spanish Lady. The Influenza Pandemic of 1918 – 1919”). In copertina c’era una vignetta di Giuseppe Scalarini, disegnatore satirico, socialista e pacifista, che rappresentava il bacillo dell’influenza come un Napoleone a braccia conserte. La didascalia dice “Il conquistatore dell’Europa”, come se la spagnola si fosse limitata all’Europa, invece di arrivare praticamente dovunque, isole dei Mari del sud non escluse. Anche il termine bacillo si sa che è impreciso: se il bacillo per metonimia può rappresentare tutti i microrganismi, non può assumersi le responsabilità dei virus, che sono entità del tutto diverse e secondo alcuni neppure organismi viventi.

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Del virus A della spagnola si sono perse addirittura le tracce, come se in tutta quella pandemia il virus non avesse avuto altro scopo che annientare se stesso. E’ stato molto cercato, perfino in cadaveri surgelati nei ghiacci del polo, senza risultato. Ma nessuno giurerebbe che non si sia acquattato in qualche nicchia, in attesa del momento di un nuovo attacco. La scomparsa, o l’elusività del virus ha consentito ipotesi fantasiose, non ultima la diceria che fosse un prodotto di laboratorio bellico, un’arma canaglia, capace di mordere la mano del suo stesso creatore, concepita dalla volontà di potenza: dei tedeschi, secondo alcuni, degli inglesi, secondo altri. Fantasie mostruose a parte, se non con l’origine, con i modi e i tempi di sviluppo della pandemia la guerra ebbe a che fare. L’influenza dell’autunno-inverno del 1918 fu chiamata spagnola non perché avesse avuto origine in quel paese, ma perché dalla Spagna arrivarono le prime notizie della nuova, insolita malattia che colpiva e uccideva meglio e più della guerra.

La Spagna si conquistò l’onore non desiderato di dare il proprio nome a una delle più micidiali epidemie della storia solo perché, essendosi tenuta fuori dal conflitto mondiale, la sua stampa non era imbavagliata da una censura che considerava la diffusione di notizie sulla salute delle truppe e dei civili un atto di tradimento e di intelligenza con il nemico. Protetto dal segreto militare, agevolato dalla convivenza forzata in trincee e caserme, il virus fece più del suo meglio. E’ soprattutto il ricordo dell’ecatombe provocato dalla spagnola, quale che sia stato il concorso di cause, che suscita ancora tanto allarme nell’opinione pubblica, ogni volta che i virus di un nuovo ceppo sembrano comportarsi in modo anomalo rispetto alla routine delle influenze stagionali.
Ad apprezzare la collaborazione tra guerra ed epidemie, tra contagio e panico, ci aiuta ancora i “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni e la sua appendice nell’edizione milanese del 1840, la “Storia della colonna infame”.

La Guerra dei trent’anni (1618-1648) fece molto per arricchire il repertorio delle paure occidentali. Si affermarono personaggi letterari delle fiabe come l’orco e il lupo mannaro. Chi non crede alla generazione spontanea delle figure fantastiche sostiene che entrambe le classi di mostri siano una sublimazione nella narrazione popolare del cannibalismo, una pratica che qualcuno vuole abbastanza diffusa nelle campagne isterilite dal passaggio incessante di truppe amiche o nemiche, ma comunque affamate e propense a mangiarsi, come si dice, il fieno in erba. Se si potevano immaginare figure tanto fantastiche come orchi e lupi mannari, cosa c’era di strano nel creder che ci fossero in giro loschi agenti del nemico che imbrattavano i muri con i loro unguenti atti a trasmettere la peste? Era o non era il momento d’oro di streghe e stregoni, grandi preparatori di pomate venefiche e dei loro santi e accaniti cacciatori? Del resto, cosa potevano sapere di microbi i dodici di provvisione del ducato di Milano nel 1630, addirittura due anni prima che nascesse quell’Antony van Leeuwenhoek che sarebbe stato il primo a vedere nel microscopio la miriade di pullulanti esserini che conducevano la loro esistenza insospettata persino nella bocca della più candida e verginale delle fanciulle?

Non c’è da meravigliarsi se il concetto di contaminazione sia nato molto prima di quello di contagio né che un sant’uomo come il cardinale arcivescovo di Milano Federico Borromeo ritenesse che non ci fosse modo migliore per combattere la peste che radunare in una grande processione i fedeli per indurre i santi specializzati, san Sebastiano e san Rocco, a intercedere presso il Cielo. Pericoloso non era stringersi con i fratelli per chiedere al Cielo remissione del castigo, ma aggirarsi da soli nelle viuzze, dove agenti del nemico, magari impersonati da un barbiere cerusico di piazza Vetra, avevano avuto l’agio di spalmare sui muri i loro infami unguenti. Poiché del contagio non si sapeva, solo della contaminazione volontaria si doveva avere paura.

Il secolo breve diventando adulto non si risparmiò fremiti e turbamenti da paura di contaminazione. La metafora della malattia infettiva si applicò per venti anni alla vita associata. Con terrore si videro morbi rossi e neri conquistare intere nazioni, con ansia si cercò di isolarne in altre i possibili focolai di infezione, smascherare e mettere nella condizione di non nuocere gli untori ideologici che operavano subdolamente a diffondere l’uno o l’altro male. Come malattie epidemiche vennero descritte dagli avversari le ideologie totalitarie del Novecento, comunismo e nazismo, malattie epidemiche letali che, se contratte, provocavano una rapida mutazione antropologica che portava al decesso, alla scomparsa dell’individuo come ente morale, portatore del libero arbitrio. Così descrivevano il morbo quei pochi che avevano avuto la sfortuna di contrarlo e la fortuna di guarirlo, come Arthur Koestler, per fare un esempio. Era, in termini zoologici, il sopravvento nella specie umana del modello, ammirato e temuto, degli esapodi comunitari, api industriose e soprattutto formiche, innumeri e spietate macchine da lavoro e da guerra senza individualità. In modo simmetrico le nuove società totalitarie rinsaldavano la fedeltà dei sudditi, denunciando il pericolo di contaminazione da parte di corpi estranei. Il vero panico si diffuse quando parve che i due ceppi virali, ciascuno in competizione con l’altro nel proprio areale, potessero allearsi in un progetto di conquista del mondo. Il pericolo fu scongiurato, mentre l’attività di contaminazione e di difesa dalla contaminazione si faceva più intenso. Non saranno state quelle grandi epidemie sociali a abolire i confini tra malattia fisica e mentale, ma certo contribuirono a sfumarli e fu in quel contesto clinico che si affermarono i principi della psicosomatica.

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L’unica terapia immaginata contro le grandi epidemie ideologiche fu la guerra, che se riuscì a combattere (ma non a eliminare) il ceppo virale nero, finì addirittura per rafforzare il ceppo rosso. Come spesso accade con le terapie molto efficaci perché molto pesanti, si verificarono effetti collaterali. Come forse mai nella storia della civiltà, confortata dall’efficienza del sistema dei mezzi di comunicazione di massa, il terrore della contaminazione divenne un morbo popolare su cui fare cassa con i farmaci da banco. “Meglio morto che rosso” si intitolava un romanzo satirico di Stanley Reynolds sul terrore del comunismo tradotto in tutto il mondo e in Italia da Mondadori nel 1965. Se nei primi mesi di vita era stato oscurato da una nube purpurea di uno scrittore decadente, il secolo entrava nel climaterio sconcertato dalla nuvola nera di Fred Hoyle, astrofisico e scrittore di fantascienza.

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La nuova nuvola di metà secolo arrivava dallo spazio ed era una forma di vita intelligente, cortese ma fortunatamente priva di ogni interesse a conquistarci e dominarci. Non altrettanto disinteressati erano i vari baccelloni e lucertoloni dei romanzi e della letteratura di fantascienza che, metafore goffe e trasparenti del virus rosso, cullavano con poca spesa, soprattutto intellettuale, le paure e le ansie da contaminazione del pubblico. Tra gli effetti collaterali della terapia contro la virulenza totalitaria c’era stata la fissione dell’atomo. Quello del mad doctor era un vecchio tema, una vecchia metafora, che da un secolo buono accompagnava lo sviluppo della società industriale, ma l’energia atomica aveva promosso la metafora a realtà. Tutto quello che i romanzi della fantascienza catastrofica avevano immaginato era ora possibile.

Al pericolo della contaminazione morale e intellettuale si intrecciava il pericolo concreto di una contaminazione fisica. Per chi ne ha il compito, combattere il terrore di contaminazione è più difficile che favorirlo. Ci provò tempo addietro (1716) un Ignazio Carcano, medico, membro dell’illustre famiglia milanese e uno dei dodici di provvisione. In occasione di una moria di bestiame provocata da un’epidemia, probabilmente simile a quella della cosiddetta mucca pazza, i cittadini si rifiutavano di mangiare la carne degli animali morti, soprattutto perché messa a bollire emetteva strani lucori verdastri. All’uopo il buon Carcano pubblicò un opuscolo (“Sopra la naturalezza del lucimento veduto in un pezzo di carne lessata”) in cui sostenne in piena buona fede che quella era una fiammella di luce soprannaturale, inviata per certificare la bontà e la santità di quel lesso.

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