Bye bye Obama
Provate a dire al dipartimento di stato americano che l’Arabia Saudita è un fantoccio arabo di Washington, un gigante che alla fine segue sempre e docilmente la linea politica decisa dalla Casa Bianca. Vi guarderanno come pazzi. Provate – ma è più difficile – ad arrivare alla corte di Riad, da dove si governa il regno saudita, e dire che l’America è tradizionalmente prona agli interessi dell’Arabia Saudita perché è impastoiata da troppi interessi petroliferi.
Provate a dire al dipartimento di stato americano che l’Arabia Saudita è un fantoccio arabo di Washington, un gigante che alla fine segue sempre e docilmente la linea politica decisa dalla Casa Bianca. Vi guarderanno come pazzi. Provate – ma è più difficile – ad arrivare alla corte di Riad, da dove si governa il regno saudita, e dire che l’America è tradizionalmente prona agli interessi dell’Arabia Saudita perché è impastoiata da troppi interessi petroliferi. Vi guarderanno con l’amarezza riservata allo straniero che vive lontano e non capisce nulla.
Negli ultimi sei giorni Re Abdullah ha sbattuto la porta in faccia alle due massime cariche americane subito dopo il presidente: prima al segretario di stato, Hillary Clinton, poi al capo della Difesa, Robert Gates, adducendo come pretesto il proprio status quasi permanente di malato e costringendoli a cancellare forzatamente una tappa, forse la più importante, dei loro viaggi. Anche se il 2010 è stato un anno così costellato di ricoveri e operazioni per il sovrano di 87 anni da far sembrare il quasi coetaneo e amico Mubarak in forma, almeno tre o forse quattro, nessuno è cascato nella scusa della malattia. Il New York Times ha segnalato in prima pagina “le tensioni” fra il re e l’Amministrazione Obama. Quella tra i due alleati storici è sempre stata una relazione nevrotica, ma ora sta toccando il punto più basso.
Due giorni fa, la guerra tra la Cia e i servizi segreti pachistani sulla sorte di Raymond Davis, un agente sotto copertura arrestato dopo avere ucciso a pistolettate due motociclisti “perché mi seguivano”, si è conclusa nel più facile dei modi: dopo avere esperito ogni genere di richiesta e di blandizia per riaverlo indietro (gli americani hanno interrotto per venti giorni gli attacchi con i droni contro le basi dei terroristi nel nord del paese) e dopo avere discusso in punta di cavillo diplomatico se l’immunità copre o non copre anche i contractor stranieri armati e impegnati in missioni antiterrorismo in giro per il paese, Washington ha pagato un milione e quattrocentomila dollari come “prezzo del sangue” alle famiglie dei due ammazzati, che hanno ritirato l’accusa. Due ore dopo essere stato condannato dal tribunale per duplice omicidio, Davis era già libero, gli avvocati delle famiglie tenuti fuori dall’accordo e messi sotto custodia perché non intralciassero il finale e fatti tacere con minacce. La liberazione dell’uomo della Cia ha risolto una contesa piena di rabbia reciproca che minacciava di sfasciare le relazioni già fragili tra i due paesi. Ebbene: sembra che la contesa sia stata risolta soltanto dall’intervento loro malgrado dei sauditi.
L’alleanza con l’Arabia Saudita è cruciale per gli americani. Non si tratta soltanto del petrolio, ma anche dell’infinita opera di negoziazione politica e di tessitura di trame nell’area mediorientale, nordafricana e del sud asiatico. Riad, la capitale del regno, è in cima alla piramide del potere in quella parte di mondo. Sono i sauditi ad avere concesso petrolio gratis al Pakistan subito dopo l’11 settembre, per convincere Pervez Musharraf a schierarsi con gli americani e contro i loro agenti prediletti in Afghanistan, i talebani. Sono loro a guidare lo schieramento arabo che si oppone all’Iran – è famosa la richiesta reale a Obama rivelata da Wikileaks: “Dovete tagliare la testa del serpente”. Sono loro a fare da mediatori nei colloqui segreti con i talebani che dovrebbero portare allo scioglimento del nodo afghano, anche se per ora la triangolazione è alle prime battute. Sono loro, grazie ai contatti dei servizi segreti, ad avere sventato l’ultimo attentato di al Qaida nello Yemen, che era riuscita a caricare due bombe su aerei passeggeri diretti verso l’America.
La nevrosi tra americani e sauditi, più che nell’eterno attrito da sospetti di collusione con il terrorismo – è vero che tra i settemila membri di famiglia qualcuno estremizzato e sorpreso a finanziare uomini di al Qaida c’è, ma la casa regnante si sente bersaglio dei terroristi non meno della Casa Bianca –, sta in questo sbilanciamento irrisolto, nel capire chi deve cedere rispetto a chi, chi è più o meno dipendente dall’altro, chi ha il colosso finanziario più potente, la compagnia nazionale Saudi Aramco che controlla il greggio del regno o gli americani con le loro industrie militari che l’anno scorso hanno invogliato i sauditi a spendere novanta miliardi di dollari in nuovi armamenti made in Usa. Per questo il re s’accascia davanti a un “no” di Obama, e per questo il presidente americano è fatto a pezzetti dai commentatori quando, rapito dalla solennità del momento, si lascia scappare un inchino davanti al saudita. Succedeva anche prima di Obama. George W. Bush fu criticato con asprezza per una foto in cui l’ambasciatore saudita, Bandar bin Sultan, lo guardava benevolmente seduto accanto a lui ma non su una sedia, bensì sul bracciolo, così da apparire sopraelevato di fatto e di status.
Ecco: il punto è che se la relazione è in crisi è perché a Washington oggi manca proprio un Bandar bin Sultan. Oppure le relazioni sono forse normali, tormentate e accidentate come può accadere tra una repubblica americana e un regno wahabita, ma sembrano infinitamente peggio di prima, di nuovo, proprio perché manca Bandar. Ambasciatore sotto quattro presidenti tra il 1983 e il 2005, interpretò il suo essere interfaccia tra Riad e Washington in maniera così fine e così duttile da portare il suo ruolo ad altezze che ora sembrano irraggiungibili. Giocava a racquetball (una versione dello squash) al club del Pentagono con Colin Powell, da prima che lui diventasse segretario di stato: “Ricordo che all’uscita lui si scrollava di dosso con noncuranza la borsa e un braccio subito appariva ad afferrarla prima che cadesse per terra. Poi allungava una mano nel nulla e subito gli era porta una lattina. E’ bello essere un principe, pensai”, dice Powell.
Soprattutto, Bandar da ex pilota militare divenne amico di famiglia di un altro pilota militare, il presidente George H. Bush. Era l’unico ospite a cui Barbara Bush permetteva di fumare in casa assieme al marito, a patto che si infilassero in una stanza e chiudessero la porta. Con il suo amore per le espressioni colloquiali americane, per Alexander Hamilton “più che per Thomas Jefferson, io sono un conservatore” e per i Big Mac serviti su vassoi d’argento, affabile e spietato, il negoziatore saudita raccontava di avere ricevuto la sua più grande lezione di vita “quando ero giovane, aggressivo e immaturo. Fu da un rivenditore d’auto ebreo dell’Alabama. Mi disse: ‘Fa’ in modo che le tue parole siano morbide e dolci, perché non sai mai quando ti toccherà rimangiartele’”. Il giorno del ringraziamento del 1990, quando il presidente e la moglie Barbara andarono a fare visita alle truppe americane in Arabia Saudita pronte ad attaccare Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait, Bush chiamò Bandar nel suo alloggio con le lacrime di gratitudine agli occhi. La figlia Dorothy, appena divorziata, era rimasta sola alla Casa Bianca con i bambini, ma la moglie di Bandar, la principessa Haifa, li aveva chiamati a trascorrere la festa da lei.
Oltre ai modi squisiti, Bandar era il “trouble shooter” del defunto re Fahd, l’uomo che risolveva i problemi. Dai negoziati con Saddam e con la Siria a quelli con Gheddafi – “un Jerry Lewis che crede di essere Churchill” – che proprio grazie all’imput di Bush junior e del saudita cominciò a collaborare con l’occidente; ai negoziati di pace tra Israele e palestinesi – ma si odiava con Sandy Berger, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Bill Clinton. Quando lasciò l’incarico, il suo successore nella residenza sul fiume Potomac, il principe Turki al Faisal, rassegnò le proprie dimissioni non appena si rese conto che il re, se voleva risolvere una questione americana, continuava ad avvalersi di Bandar.
In questi giorni di rivolta in Bahrein potrebbe volerci più che la sagacia del rivenditore di auto ebreo dell’Alabama, la tempra risoluta di Hamilton e il definitivo “essere figlio di puttana” di Bandar. Oltre a non avere ricevuto Hillary Clinton e Robert Gates, il re ha ignorato completamente la Casa Bianca per due volte in soli tre giorni. Lunedì ha inviato i suoi soldati e i suoi blindati in Bahrein senza un avvertimento, come se gli americani, che sulle isole del piccolo regno hanno parcheggiato l’intera Quinta flotta e ora guardano la repressione dal mare, non esistessero. Due giorni fa ha ricevuto la telefonata del presidente Obama che gli ha ricordato “il bisogno di massima moderazione” – e poco dopo per lo stesso motivo ha chiamato anche il premier britannico David Cameron. Il re questa volta non si è scomposto, ma da due giorni il rullo dei suoi soldati assieme a quelli di re Khalifa sta passando sulle proteste sciite con un’operazione che sembra più di guerra che di polizia. Tende in fiamme, colpi di arma da fuoco, è pure saltato fuori il video – girato di nascosto da una finestra – di un manifestante ucciso a sangue freddo che provocherà qualche tentato infarto nelle cancellerie occidentali che non possono tagliare i contatti con i regni del Golfo. I leader dell’opposizione sono stati arrestati, compreso Hassan Mushaima, politico carismatico arrivato da Londra un mese fa. Blindati ed elicotteri sorvegliano le strade e i soldati hanno occupato gli ospedali – “li abbiamo liberati dai terroristi”, ha detto un ufficiale saudita al New York Times.
L’ingresso dei sauditi nel regno vicino è un chiaro messaggio allo sciismo, da quello mistico e riflessivo del grande ayatollah Sistani, che dalla città santa di Najaf in Iraq chiede la cessazione delle violenze sugli sciiti del Bahrein, a quello guerrigliero con centrale a Teheran e filiali sparse per il medio oriente, Hezbollah a Beirut e Moqtada al Sadr a Baghdad. Non vi cederemo l’egemonia regionale. Ci sono anche altri due messaggi da leggere. Il primo è per i dissidenti. I regni sunniti del Golfo hanno ormai deciso: insieme staremo e insieme cadremo, ci faremo blocco unico contro ogni minaccia esterna ma soprattutto contro ogni minaccia interna. Il secondo è per gli Stati Uniti: siete diventati un attore marginale sulla nostra scena, o comunque non vogliamo che vi immischiate. Ora, e questa è la novità, abbiamo una linea di azione nostra e non concordata con voi. Neanche vi avvisiamo quando stiamo per compiere la mossa politico militare più clamorosa dai tempi della prima guerra del Golfo, nel 1991. Abbiamo visto come è stato ripagato il rapporto fiduciario con Mubarak l’egiziano, che ora guarda il mare dalla sua villa, e abbiamo visto come Gheddafi – e il nostro voto ufficiale alla Lega araba perché cominciaste una “no fly zone” non è servito a nulla – è libero e impunito nella sua controrivoluzione (o meglio, nell’ottica del rais libico: contro-controrivoluzione) sbranaribelli. That’s it, per quel che riguarda il nostro coordinarci con voi nel Golfo. Grazie per le telefonate.
Eppure, a entrambi i capi della relazione tra sauditi e americani, al dipartimento di stato come nei palazzi reali di Riad, il presente frastagliato tiene banco, ma non quanto il futuro prossimo. Le voci sull’infarto di re Abdullah hanno fatto correre un brivido lungo la schiena a quella branca di esperti, quasi scienziati, che si occupa di indovinare chi salirà sul trono arabo. Nelle monarchie di solito il potere passa dal re al figlio. In quella saudita passa dal re al fratello: ma il legittimo pretendente ha soltanto tre anni in meno, 84, e ragionevolmente non potrà essere un sostituto adatto. I restanti due hanno problemi di salute. Per la terza volta dalla creazione del regno, potrebbe esserci il salto generazionale e il potere potrebbe passare da una fila di fratelli a quella successiva.
I figli di Abdullah sono ben piazzati contro il resto dei pretendenti, ma è ancora tropo presto per distinguere un candidato dominante. La successione potrebbe far venire meno una delle qualità politiche più apprezzate nel regno saudita: quella capacità opaca di non fare notizia all’esterno – quante volte si parla di politica e Arabia Saudita sui giornali? – e di far rimanere tutto all’interno del Palazzo. Gli americani sono interessatissimi. Intanto, dopo due anni di assenza e di lontananza dalle scene, il principe Bandar, il più abile con i contatti internazionali, è ricomparso in patria da cinque mesi.
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