Fratelli diversi
Nei giorni dell’Egitto il canale al Jazeera ha toccato punte di lirismo. “Ho risparmiato il suo corpo, affinché la sua vista serva da lezione al popolo”, ha scandito con tono ieratico una voce maschile tra un aggiornamento in diretta e un altro sulla caduta dell’ex rais Hosni Mubarak.
Leggi Politica o società. Che cosa ci insegnano le rivolte di questi giorni
Prima era difficile accorgersene, perché le proteste riguardavano soltanto Tunisia e poi Egitto. Ora che il contagio investe tutti i paesi arabi, e persino la casa madre saudita, la differenza si vede, eccome: la rete satellitare al Jazeera ha soffiato sulle rivolte popolari nel nord Africa ma tace ed è in imbarazzo su quelle presenti e in arrivo nei paesi del Golfo. I giovani annunciano manifestazioni per l’11 e il 20 marzo in Arabia Saudita. Con tutta l’eccezionale potenza di fuoco riconosciuta anche dal segretario di stato americano Hillary Clinton, “al Jazeera sta vincendo la battaglia dell’informazione e sta facendo vergognare i canali americani”, il network in lingua araba e inglese (ma ci sono differenze deliberate tra le due edizioni) è diventato il più seguito e apprezzato dal movimento antidespoti. Fasci di luce proiettano il pallore accigliato delle giornaliste da studio sulle facciate delle case sopra agli accampamenti delle proteste. In questi giorni la rete manda in onda ogni pochi minuti il momento trionfale in cui i ribelli libici abbattono spingendo con le mani un murale di regime, o li mostra mentre dall’alto di un picco controllano una strada.
Sui paesi del Golfo, però, al Jazeera è più cauta, al punto da sembrare muta. La repressione lampo sull’isola del Bahrein, davanti alle coste del Qatar da dove la rete trasmette, i disordini in Oman, le prime proteste in Arabia Saudita, davanti alla prigione dove da ieri è chiuso un predicatore sciita, passano quasi in silenzio. Perché al Jazeera, rete qatariota, ascolta il volere dei sauditi?
Creata dodici anni fa soprattutto per dare fastidio all’Arabia Saudita e come arma mediatica puntata contro Riad, in seguito alla riconciliazione tra i due paesi nel 2008 – al tavolo per trattare era presente anche il direttore della rete – al Jazeera è stata addomesticata, come condizione della pace, dai regnanti oltreconfine.
La differenza di trattamento fa parte della più generale dottrina saudita d’emergenza per spezzare in due e contenere il contagio. E’ questa: pazienza se Egitto, Libia e Tunisia sono andati, pazienza se due dittatori al potere da decenni sono già caduti, non si può più intervenire sul settore africano per il momento (ma Riad ha appena annunciato che s’impegna di buon grado a colmare il momentaneo buco nella produzione mondiale di petrolio aperto dall’assenza della Libia in guerra civile). C’è da impedire con una cortina tagliafuoco che i disordini si propaghino all’Arabia Saudita, che è il buco della ciambella, e alla ciambella di stati attorno: il Bahrein e l’Oman, strategici per il petrolio e per affrontare l’Iran al di là del Golfo, e lo Yemen dei cugini poveri, che se riuscissero a spodestare il proprio regime darebbero uno smacco simbolico ai vicini.
Il pezzo centrale della dottrina è la pioggia preventiva di soldi che sta cadendo sul popolo saudita per tenerlo buono. Di ritorno da tre mesi di convalescenza nel suo palazzo in Marocco, re Abdullah ha gettato sul paese un pacchetto di welfare anti sedizione da trentaquattro miliardi di dollari, inclusi aiuti agli studenti universitari più poveri e il pagamento dei debiti a chi è finito in prigione per bancarotta. E’ stato persino lanciato un nuovo canale tuttosport, per compiacere i ragazzi. Lo sponsor indiretto di questa munificenza è Saudi Aramco, la compagnia petrolifera del regno che finanzia la casa reale – e che in questi giorni è in parte ripagata dall’aumento di prezzi dovuti alla guerra civile libica, un dollaro in più al barile in un solo giorno.
Poi ci sono i pezzi di contorno. Bahrein e Oman per ora reggono. In Yemen l’opposizione è andata a Palazzo a trattare con il presidente Saleh una sua uscita morbida nel giro di un anno, anche se nelle piazze del venerdì dovunque strapiene i toni sono stati come sempre bellicosi. Un accordo di compromesso sarebbe quello più gradito a Riad, che non vuole violenze, anche se ieri i ribelli Houti nel nord del paese hanno accusato l’esercito di avere sparato razzi contro un corteo di protesta, uccidendo due manifestanti; due “mudahirin” in arabo, ed è un vocabolo ad altissima frequenza su al Jazeera.
Leggi Politica o società. Che cosa ci insegnano le rivolte di questi giorni