Si vota martedì
Pochi studenti e quattro finiani bloccano una riforma che piace a molti
A compensare l’esiguità numerica dei combattenti anti Gelmini impegnati in una decina di città in manifestazioni di ottima visibilità, con la trovata di “occupare” i monumenti, la protesta contro la riforma dell’Università in discussione alla Camera si è ancor più trasferita sui tetti.
Leggi l'appello Difendiamo l'università dalla demagogia – Leggi Le ipocrisie sulla pelle dell'università dei suoi fasulli paladini di Giorgio Israel
Ieri il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha chiesto un’approvazione veloce della riforma: “Sarebbe inaccettabile che per litigi interni cadesse”, perché “introduce elementi importanti come premiare il merito e migliorare la governance”. L’identico auspicio è stato espresso in un’intervista su Repubblica dal presidente della Conferenza dei rettori italiani, Enrico Decleva, che ribadisce la necessità della riforma Gelmini e nega che le università siano davvero in rivolta, mentre un appello firmato da decine di docenti e intitolato “Difendiamo l’università dalla demagogia” si schiera con la necessità di approvare la riforma (il testo completo e le firme sono sul nostro sito, www.ilfoglio.it).
E’ d’accordo con Decleva Elio Franzini, ordinario di Estetica alla Statale di Milano nella facoltà di Lettere e filosofia, di cui è stato preside fino a poche settimane fa. Al Foglio si dice convinto che “a condividere la riforma ci sia il novanta per cento dei docenti. Nella mia università, la terza in Italia, non è successo niente, a parte una ventina di ricercatori sul tetto”. Franzini considera “imprescindibile la riforma nella parte relativa al reclutamento, con cui si adegua la normativa italiana a quella europea e internazionale, attraverso il meccanismo dell’idoneità nazionale e della chiamata sulla base di un concorso locale tra gli idonei. E anche il tenure track – il ricercatore non è più assunto da subito a tempo indeterminato, ma nei sei anni a disposizione dovrà avere tempo e possibilità di ottenere l’idoneità, per poi concorrere a posti di professore associato e ordinario – lo troviamo identico in tutti i paesi d’Europa dove l’università non è ancora interamente privatizzata. E’ il modello francese: funziona”. Franzini aggiunge che “il problema dei finanziamenti scarsi esiste, e ha riguardato i governi di centrosinistra come ora il centrodestra. Ma il modello della riforma è buono. Chi va sui tetti la accusa di voler privatizzare l’Università: non è vero. Nella prima formulazione, un 40 per cento di esterni nei consigli di amministrazione poteva turbare alcune coscienze, ma oggi siamo a tre esterni”. Stessa confusione si fa “sulla pretesa abolizione delle facoltà. La facoltà come madre di tutto il processo universitario ha una diminuzione di peso, è innegabile, ma non è per forza un male, se dà alle singole sedi, a partire dalle loro possibilità e dalla loro tradizione, l’opportunità di disegnarsi statuti che diano peso o meno a strutture didattiche comuni”.
L’economista Fabio Pammolli, direttore dell’Imt Alti studi di Lucca, scuola statale a ordinamento speciale, pensa che la riforma Gelmini sia “assolutamente necessaria. Senza, il sistema universitario rimarrebbe sguarnito su aspetti fondamentali. Basti pensare a quello di finanza pubblica. Questa riforma introduce concetti di base: per la prima volta si parla di piani di rientro in caso di disavanzo e di commissariamento di enti in caso di mala gestione (ne abbiamo svariati esempi); per la prima volta si costringono gli organi di governo degli atenei ad avere strumenti di programmazione coerenti con l’autonomia, a fare programmazione pluriennale assumendosi la responsabilità delle scelte di allocamento delle risorse. A proposito: ci si lamenta della scarsità delle risorse, ma questo non c’entra con una riforma ordinamentale che consentirà di usarle meglio, poche o tante che siano, in situazioni in cui abbiamo avuto finora autonomia senza responsabilità”.
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