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Viaggio nella giungla birmana, aspettando con i ribelli la liberazione di Aung San Suu Kyi

Massimo Morello

In questa città thailandese al confine con la Birmania, le storie cominciano così. L’ultima è di ieri mattina, quando si è sparsa la voce della liberazione di Aung San Suu Kyi, pronta a lasciare i domiciliari già da oggi. Il premio Nobel per la pace del 1991, che ha passato quindici degli ultimi vent’anni in arresto, accetterà il rilascio soltanto se potrà tornare in politica. "Tutto potrebbe accadere, ma tutto sembra scorrere nella direzione voluta dalla giunta, anche la liberazione della Signora".

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Mae Sot. “C’era una volta”. In questa città thailandese al confine con la Birmania, le storie cominciano così. L’ultima è di ieri mattina, quando si è sparsa la voce della liberazione di Aung San Suu Kyi, pronta a lasciare i domiciliari già da oggi. Il premio Nobel per la pace del 1991, che ha passato quindici degli ultimi vent’anni in arresto, accetterà il rilascio soltanto se potrà tornare in politica. “Tutto potrebbe accadere, ma tutto sembra scorrere nella direzione voluta dalla giunta, anche la liberazione della Signora – dice al Foglio Moe Thee Zon, uno dei più importanti oppositori al regime, che lo ha condannato a morte – Per noi che continuiamo a ragionare sulle possibilità, il tempo conduce alla vecchiaia e ci indebolisce”.

A Mae Sot temono tutte le possibilità che si potrebbero verificare. Se Aung San Suu Kyi non sarà liberata, se non saranno accolte le sue condizioni, se ci saranno nuovi scontri, violenze, repressioni. Ma l’ipotesi più temuta è quella più desiderata. “Sono convinto che la libereranno – spiega Aye Min Soe, giornalista di Democratic Voice of Burma – E’ probabile che si servano di lei per avviare una trattativa con i gruppi etnici. Poi cercheranno di creare instabilità e li accuseranno di terrorismo per dichiarare lo stato d’emergenza e riconsegnare il potere all’esercito. E’ tutto già scritto nella Costituzione del 2008. A quel punto il regime si potrà legittimare nuovamente, annunciando una nuova road map e magari nuove elezioni per il 2015”. Secondo un vecchio mercante birmano di giade che si è stabilito a Mae Sot e continua a fare affari nel proprio paese, il piano sarebbe ancor più contorto. “Si ripete la storia accaduta tra l’88 e il ’90: moti studenteschi, promessa di una nuova Costituzione da parte del generale Ne Win, potere ai militari, elezioni vinte dalla Signora e annullate dalla giunta. C’è una sola differenza. Adesso il generale Than Shwe può lasciar fare al Parlamento e riprendere il potere quando gli farà più comodo”. Aung San Suu Kyi rischia di rimanere intrappolata. Come ha già dichiarato il portavoce del suo movimento, la National league for democracy, deve contestare le elezioni cercando le prove di una frode elettorale. Al tempo stesso, si muoverà per il paese cercando di ristabilire nuovi rapporti con i gruppi etnici. Ma dovrà farsi carico anche di un altro problema: la Signora non rappresenta più tutta l’opposizione, tanto meno quella istituzionalizzata. Un nuovo partito, il National democratic front, ha conquistato un discreto numero di voti nelle maggiori città e non intende boicottare il Parlamento. La Signora può confidare sull’opinione pubblica mondiale – almeno sinché non si sarà distratta.

In tempi normali, Mae Sot è una destinazione turistica: molti vengono sin qui per attraversare il ponte dell’amicizia sul fiume Moei e visitare la cittadina birmana di Myawaddy, a condizione di non uscirne e non restarci più di ventiquattro ore. Dopo le elezioni il centro è tornato a essere uno dei punti di quello che i thai definiscono il “fronte occidentale”, una linea che serve a mantenere l’equilibrio con i birmani e con le milizie dei gruppi etnici e a dimostrare lo spirito compassionevole thai per chi chiede aiuto. Il voto ha riacceso le tensioni etniche lungo il confine, da Myawaddy sino al Passo delle Tre Pagode, qualche centinaio di chilometri più a sud, un territorio coperto dalla giungla che è il teatro della tragedia del popolo karen, sette milioni di persone sottoposte da secoli alle persecuzioni della maggioranza bamar.
Gli scontri avvenuti domenica, mentre i birmani si recavano apaticamente alle urne per eleggere un governo già stabilito, sono una delle battaglie più importanti condotte dai karen contro l’esercito birmano. E’ cominciata la mattina stessa delle elezioni, quando gli uomini della quinta brigata del Democratic karen buddhist army (Dkba) hanno occupato Myawaddy e Pyaduangsu, cittadina sul lato birmano del Passo delle Tre Pagode. A condurre l’azione è stato il colonnello Saw Lah Pwe, conosciuto come Bo Moustache (dove Bo appare una traslitterazione karen di “beau”, bello) per i suoi folti baffi. Il colonnello è uno dei personaggi più noti e discussi in Birmania. Nel 1995, il Dkba è stato uno dei diciassette gruppi etnici armati che hanno siglato un accordo di cessate il fuoco con la giunta militare. Altri gruppi – come la Karen national union e la Shan state army – hanno continuato a combattere. Secondo alcune voci sarebbero stati i miliziani del Dkba a uccidere Mahn Sha, segretario generale dell’Unione Nazionale Karen, freddato in pieno centro di Mae Sot nel febbraio 2008. Mahn Sha, cristiano, era uno dei pochi leader ben accetto da tutti. Ecco perché, come ha titolato il Bangkok Post, con lui “è stato ucciso un sogno”.

“E’ difficile giudicare una persona come il colonnello – dice al Foglio Lway Aye Nang, segretario della Lega delle donne birmane – Non puoi credere a quello che si dice perché quello che si dice è stato detto dai militari. Alla fine molti ci credono. Io lo so bene come funziona. Sono una Shan, sono cresciuta in un villaggio. Il colonnello è stato messo nell’angolo dai birmani. Non aveva altra scelta: doveva attaccare per proteggere la gente di Myawaddy. Non si aspettava una reazione tanto violenta da parte dell’esercito. Credeva che, almeno nel giorno delle elezioni, avrebbero avuto paura delle conseguenze internazionali”.

Le fonti del Foglio dicono che ora “il colonnello è nella foresta e ha spento il suo cellulare perché in questo momento non ha tempo per i giornalisti”. L’unica intervista è stata rilasciata al giornale The Irrawaddy, una delle voci della dissidenza birmana in esilio. “Ci hanno detto che i militari obbligavano la popolazione di Myawaddy ad andare a votare, li minacciavano. Non abbiamo avuto altra scelta che attaccare, per proteggere la popolazione. Le elezioni non porteranno la democrazia al popolo birmano e l’eguaglianza alle minoranze etniche”, ha detto il colonnello. L’esercito birmano ha lanciato un violento contrattacco riconquistando le due città di frontiera in poco più di ventiquattro ore e costringendo il Dkba a ritirarsi nella foresta. “Cambieremo la nostra strategia militare e ci focalizzeremo su tattiche di guerriglia”, ha commentato il colonnello.

“Il problema delle etnie è che hanno molti problemi
– concorda Moe Thee Zon, che si dichiara un uomo d’azione – La loro è una strategia difensiva. Ma l’esercito non si pone problemi ad attaccare: se muore un soldato ne manda due, se ne muoiono due ne manda quattro. E allora devi minare le fondamenta del potere, devi muoverti, stabilire alleanze”. La geopolitica delle etnie è uno degli elementi chiave nello scenario birmano. Quasi il 40 per cento della popolazione è composto da gruppi diversi da quello bamar. Recentemente, i gruppi più numerosi e forti (come i Kachin, i Karen, gli Shan e i Wa) hanno accettato l’idea della federazione anziché continuare a combattere. Ma l’autonomia potrebbe finire con le ultime elezioni. “Non c’è un conflitto interetnico in Birmania – dice Naw Htoo Paw della Karen women’s organization – Il regime continuerà a parlarne per prendersi le terre dei nostri popoli. E continuerà a trattare con i differenti gruppi etnici, ad esempio permettendo ai Wa di coltivare oppio, per dividerci. Nel frattempo continuano nella loro politica di genocidio. Con le armi e con la droga”. La sofferenza è tangibile. La maggior parte dei ventimila birmani fuggiti in Thailandia nei giorni scorsi è stata rimpatriata. Ha riaperto anche il mercato sotto il ponte dell’amicizia. Tra gli alberi della riva birmana luccica la guglia dorata di un reliquiario buddista. Un monaco nella tunica color zafferano passeggia tranquillamente. Ma sulla riva thailandese, qualche centinaio di metri più a valle, sotto la tettoia di un capannone accanto a un piccolo monastero, ci sono nuovi profughi arrivati durante la notte. Altri ancora, a quanto si dice, sono nascosti tra i canneti sul greto del fiume. “Continuano ad arrivare. Cinquanta in un punto, cento in un altro. Vengono da villaggi dell’interno. Continuano a trovarsi in mezzo ai combattimenti. Sono birmani, karen, mon”, dice il medico che li assiste.

“E’ come guardare la foresta dal di fuori. Devi entrarci, soffocarci, per poter capire che cos’è – dice Aye Min Soe dell’agenzia Democratic Voice of Burma – I generali vogliono il controllo, non gli interessa la stabilità. E’ per questo che vogliono la bomba atomica: per assicurarsi il controllo contro tutto e tutti”. I piani nucleari birmani sono stati denunciati proprio da un’inchiesta di Democratic Voice of Burma, e sono stati confermati da Robert E. Kelley, già direttore della International atomic energy agency (Aiea).

“I generali birmani non sono stupidi come molti pensano – spiega l’uomo di azione Moe Thee Zon – Sanno capire la situazione internazionale. Hanno assimilato i meccanismi dell’equilibrio del potere. Per il momento si sentono tranquilli per l’appoggio della Russia, dell’India. Soprattutto della Cina, che ha già dichiarato valide le elezioni. Forse perché non ne ha mai viste. Ma non bisogna pensare a loro come pedine, non bisogna sottovalutare il nazionalismo birmano. Ecco perché vogliono la bomba e riusciranno a realizzare la prima bomba atomica buddista. In questo modo, con questo deterrente, potranno rimettersi in gioco per l’ennesima volta. Per la giunta il problema è il breve termine e per questo la liberazione di Aung San Suu Kyi può essere molto utile. Ma quando avranno la bomba potranno pensare strategicamente”. La chiave di questo gioco ce l’ha Aung San Suu Kyi. Lo sanno anche a Washington. Dopo aver condannato le elezioni birmane, il senatore John F. Kerry, presidente della commissione Esteri del Senato, ha scritto che la liberazione di Aung San Suu Kyi potrebbe segnare “un nuovo approccio alla Birmania, combinando la pressione al dialogo per incoraggiare il governo sulla via delle riforme”. Scrive Rudyard Kipling in “Lettere dall’Oriente”: “Questa è la Birmania e sarà come nessun altro posto che voi conosciate”.

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